Nell’ambito di uno spettacolo truccarsi di scuro per far assomigliare il colore della propria pelle a quello di un personaggio di origine africana o afroamericana è una pratica che si chiama Blackface.1
Lo scopo è quello di imitare una persona di colore esasperando i caratteri negativi della comunità afroamericana, ottenendo un risultato grottesco o ridicolo per fare divertire il pubblico.
Gesto apparentemente innocuo che maschera però un profondo razzismo al pari dell’uso della cosiddetta N word2 ed entrambe le pratiche sono state, in più occasioni, utilizzate nelle trasmissioni RAI.
Da ultimo, la sera del primo febbraio 2025, quando, nel corso di “Ora o mai più”, dopo che Loredana Errore e Marco Masini avevano cantato “La notte” di Arisa, Donatella Rettore nei panni di uno dei membri della giuria, volendo complimentarsi con la Errore, ha apostrofato: “hai cantato molto bene. Hai tirato fuori un vibrato eccezionale, mi sembravi una negra”.3
Subito la giovane interprete ha replicato: “Sicuramente una voce black, non negra. Negra non è una bella parola”.
Il conduttore Marco Liorni ha cercato di sminuire l’accaduto, con un “Le è scappato”.
Qualche mese prima, a novembre 2024, durante la finale di “Tale e Quale Show”, condotto da Carlo Conti, Paolo Bonolis, ospite e giudice di gara per l’occasione, pensando di essere spiritoso, ha esordito con: “Qualche settimana fa è venuto qui Luca Laurenti e mi ha detto che avrebbe voluto fare un pezzo di Stevie Wonder, ma voi gli avete detto di no. Perché?”
Conti ha cercato di spiegarne la motivazione: “Eh perché lui è bianco e quindi un bianco non può interpretare un nero. Negli Stati Uniti c’è il blackface, quindi la nostra casa madre ha accolto questa cosa, per non urtare la suscettibilità“.
E Bonolis ha replicato: “E tu come fai? Eh ti pagano da bianco, ma…” alludendo al suo colorito scuro.
Carlo Conti: ”Io sono bianco e resto bianco”.4
La decisione della Rai, cui alludeva quest’ultimo, è dell’aprile 2021 e riguardava proprio la trasmissione “Tale e Quale Show” in cui continuavano a far dipingere il volto di nero ai cantanti per interpretare canzoni di artisti di colore come Prince, Whitney Houston, Steve Wonder, Beyoncé e John Legend.
Poi, in seguito alle proteste di Ghali e del pubblico la dirigenza è intervenuta impegnandosi5 pubblicamente per non portare più nei programmi episodi di blackface.
Invero non è che sia proibito tout court ai cantanti bianchi di interpretare canzoni di coloro che hanno la pelle nera, ciò che non è ammesso è metterli in ridicolo, come accade quando si dipingono il volto di nero.
E, ancora, è vietato l’utilizzo della N-word perché è un retaggio razzista e dispregiativo, “è un peso psicologico di cui noi bianchi non abbiamo alcuna idea. Per questo non abbiamo diritto ad usare quella parola, nemmeno a scopo emulativo di una cultura che, comunque, non conosciamo e non tentiamo di conoscere, né tantomeno proviamo a supportare”.6
I programmi di Mediaset non sono stati da meno rispetto a quelli della RAI quanto a comportamenti denigratori, come l’utilizzo della N-word, si ricordi il caso di Fausto Leali che nel GF VIP del 2020 l’ha pronunciata nei confronti di Enock Barwuah7 cosa che gli è costata la squalifica, con il conduttore Signorini che si è giustificato, dando lettura del provvedimento emesso dalla produzione: “Il Grande Fratello è un’occasione per far capire che certe parole non devono essere più usate“.8
Così come gli spot pubblicitari non sono stati esenti da critiche di questo tipo.
Nel luglio 2019, Alitalia aveva lanciato uno spot in cui l’ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama veniva impersonato dall’attore tunisino Khaled Balti con il volto dipinto di nero e, in seguito alla piogge di critiche, la compagnia aerea ha dovuto ritirare subito lo spot e scusarsi.
Quello che ha lasciato perplessi è stato il commento di Enrico Mentana, che non ha compreso la portata e il significato offensivo del gesto, liquidandolo in un politically correct9, definendo poi disarmante il clamore quando senza probabilmente prospettare un cambio di prospettiva e, in ultima analisi, comprendere da dove fosse nato e quale significato avesse un gesto che, in una visione occidentaleggiante del mondo, poteva apparire innocuo.
Non si è fatta attendere la risposta di Igiaba Scego10: “In USA una cosa così non sarebbe stata possibile. Non è ironico. Offende i neri e offende gli italiani di qualsiasi colore. Ci dipinge come popolo provinciale e ignorante. È davvero preoccupante vedere come parte dei media non colgano che in una società multiculturale i retaggi coloniali e schiavisti sono riferimenti pesanti. Le consiglio direttore di leggere orientalismo di Edward Said. Purtroppo manca una decolonizzazione della cultura italiana e ancora ci portiamo scorie addosso di un passato tossico. Io penso che sia arrivata l’ora per voi che operate nei media di leggere testi postcoloniali. Non si può scrivere di una società complessa senza avere informazioni complesse nel proprio bagaglio. Io nel mio piccolo, siccome ci sono tante cose che non conosco, cerco di informarmi”.
Ha fatto seguito, il 19 luglio, il caso dell’Aida a Verona11, in cui il soprano Tamara Wilson si è rifiutata alla seconda replica di truccarsi il volto di nero perché considerata pratica razzista e nella seconda le è stato applicato un trucco più leggero ma sempre di una tonalità più scura del suo incarnato.
La cantante ha continuato la battaglia esigendone l’eliminazione.
La Wilson però si è ammalata ed è stata sostituita da altra soprano, Maria José Siri, che invece è ricorsa al blackface.
La cosa interessante é che l’articolo del Corriere Veneto aveva sottolineato come “Il gesto della cantante Tamara Wilson fosse a sostegno dei migranti”, quando in realtà il rifiuto era correlato all’esigenza, fortemente sentita dall’artista, di prevenire una pratica ritenuta razzista e offensiva.
Ecco allora come ci sia uno stereotipo in Europa che porti a identificare chi è più scuro di pelle a un migrante mentre chi è bianco a essere italiano, europeo o statunitense.
In una società come quella italiana, distante dalla cultuta afroamericana, pare difficile da comprendere come la pratica del blackface e l’uso di determinati termini siano fortemente offensivi e più o meno velati di razzismo, forse perché semplicemente non se ne conosce l’origine ed è da qui che si intende partire nell’analisi della questione sottesa.
Il giornalista e scrittore statunitense John Strausbaugh in “Black Like You”12 del 2007 ha definito la blackface come un intrattenimento strano, spesso scandaloso e ora tabù.
Nel suo libro, ha voluto dimostratore che, sebbene tali tipologie di performances siano state denunciate come pura presa in giro razzista e cancellate dalla vita culturale americana, abbiano avuto un profondo e duraturo impatto e abbiano influenzato il rock, l’hip-hop, il vaudeville13, Broadway e le performance gay drag, Mark Twain14 e la gangsta15, il film del 2004 White Chicks16, la radio e la televisione, la pubblicità e il marketing dei prodotti e il modo in cui parlano gli americani.
Secondo Strausbaugh, il trucco teatrale nero era già in uso nel 1400 quando in Portogallo17 si “usava esibire la negritudine” di fronte a spettatori bianchi ma nel teatro americano è stato necessario attendere il 1830, quando nei circhi e negli spettacoli itineranti i menestrelli bianchi (esclusivamente maschi) erano soliti interpretare i neri con i volti anneriti dal sughero bruciato o dal lucido delle scarpe e con indosso abiti laceri, volendo ricordare così gli africani ridotti in schiavitù nelle piantagioni di cotone, connotandoli come pigri, ignoranti, superstiziosi, ipersessuali, codardi e autori di piccoli crimini.
Secondo gli storici, fu Thomas Dartmouth Rice, noto come “Father of Minstrelsy”, nel 1830, a inventare il primo personaggio blackface che divenne molto noto col nome di “Jim Crow”.
Gli spettacoli dei blackface diventarono popolari tra la fine della guerra civile e l’inizio del Novecento nelle città del Nord e del Midwest, e la popolarità crebbe con l’emancipazione dei neri.
Attori americani famosi come Shirley Temple, Judy Garland e Mickey Rooney adottarono il blackface facendo in modo che questa parodia si trasferisse da generazione in generazione.
Vedere rappresentate persone nere in modo distorto consentiva ai bianchi di riderne, dimenticando o relegando gli orrori della schiavitù, rafforzando gli stereotipi e confermando la superiorità bianca.
Attraverso questa “epidermizzazione della differenza”18, l’individuo viene trasformato in tipo e porta alla “perdita dell’individualità”19 che è quello che Albert Memmi, sociologo tunisino, autore di “Ritratto del colonizzato e del colonizzatore” (Liguori, 1979), divenuto punto di partenza per molte analisi sul colonialismo, ha definito “il marchio del plurale” cioè il colonizzato viene privato del diritto alla sua unicità, diventa stereotipato da quel repertorio di immagini create o organizzate dagli altri, che sono servite a costruire la sua di razza.
Memmi ha detto che lo sguardo del bianco spoglia il corpo del nero della sua peculiarità trasformandolo da incorporazione a mera superficie, veicolo di proiezione altrui, immagine dell’altro, del diverso.
E questo atto di creazione del nero da parte del bianco è contemporaneamente di creazione del bianco stesso per differenza, in un atto doppiamente performativo perché per Shawn Michelle Smith20 crea l’oggetto e il soggetto dello sguardo.
La razza cioè è una rappresentazione costruita di immagini tratte da un archivio storico cui quelle attuali rimandano e indipendentemente dalle narrazioni ufficiali della storia. Pertanto a nulla vale rimuovere certe parole, frasi o espressioni dalla storia ufficiale, perché la schiavitù, il colonialismo, il razzismo continuano a sopravvivere e a condizionare il vivere quotidiano, la cultura, la politica e la legislazione.21
E proprio perché la razza è negli occhi di chi guarda, attraverso il cogliere gli elementi caratterizzanti impressi nella mente derivanti da quel repertorio di immagini circolate che rappresentano una sovrastruttura irrealistica, l’impegno di molti artisti è stato di dimostrare questo assunto arrivando a concludere come mentre gli osservatori individuano facilmente la negritudine non lo stesso è per la bianchitudine.
Così ha fatto Adrian Piper, artista concettuale, filosofa kantiana22, nata da una famiglia afroamericana borghese che l’ha fatta studiare nelle scuole private più prestigiose e l’avere la pelle bianca le ha consentito di far passare inosservate la sue origini africane.
La Piper però, da buona kantiana, si è interrogata sulla differenza tra il reale e l’apparire e di come il sembrare appartenente alla razza bianca fosse sufficiente per la maggior parte delle persone per non approfondire la sua appartenenza.
L’idea della Piper si può riassumere nel concetto di “patologia visiva” secondo la quale la razza è una costruzione culturale di una classe egemone per non condividere le proprie ricchezze e per agevolare lo sfruttamento di gruppi sociali precisi.
Per lei, “Il termine razza non si riferisce a nulla di reale, è piuttosto una fantasia, come la fatina dei denti, che le persone usano da circa trecento anni per vari scopi di autoesaltazione o autocondanna”.
In uno schizzo a matita del 198, intitolato “Self portrait exaggerating my negroid features” (Autoritratto che esalta i miei tratti negroidi), la Piper si è rappresentata più nera di come la vedevano gli altri per dimostrare come la percezione della razza sia essenzialmente un gioco di specchi.
In un autoritratto successivo, intitolato “Self-Portrait as a Nice White Lady” del 1995, la Piper, su uno sfondo colorato di rosso, ha applicato una sua fotografia cui ha aggiunto la scritta WHUT CHOO LOOKIN AT, MOFO, che tradotto dallo slang afroamericano in inglese standard significa “What Are You Looking At, Motherfucker”.23
Mentre nel primo autoritratto veniva sottolineata la nerezza, in ragione dei segni fisici caratterizzanti la razza, nel secondo la blackness, intesa come presa di posizione culturale.
Con la frase così forte e violenta, in antitesi al titolo “nice white lady”, la Piper ha voluto creare un dialogo con lo spettatore per scuoterlo e portarlo a rivedere le proprie conoscenze razziali.
In “Close to home”24 ha accesso i riflettori sul rapporto bianchi/neri attraverso una serie di foto e domande scomode incorniciate sulla parete, del tipo: “Avete colleghi neri nel vostro posto di lavoro?” “Avete mai avuto rapporti sessuali con una persona nera?”
Mentre una voce registrata ripeteva: “I just want to know”… vorrei solo saperlo; anzi, mi scuso se posso sembrare indiscreta.
Per finire poi con un quadro che diceva: “Vi mette a disagio l’idea di esporre queste domande sulla parete del vostro soggiorno?”.25
Glenn Ligon26, ispirandosi alle opere della Piper, è andato oltre, offrendo non più una contrapposizione tra soggettivo/oggettivo ma due autoritratti fotografici quindi immagini oggettivizzate, interrogandosi sul perché nel primo autoritratto l’osservatore riuscisse a vedere la nerezza e nel secondo non riuscisse a cogliere la bianchezza, la sua quindi è una critica ancora più aspra nei confronti della visualità della razza.
La conclusione per molti è la strumentalizzazione positiva del visuale, perché se è questo e a costruire la razza, attraverso un’indagine critica del fenomeno e interrogandosi su cosa sia autentico tra quello che viene proposto dai media, è possibile utilizzare lo stesso come strumento per arrivare a una denaturalizzazione e servirsi così della pratica artistica per insegnare e indirizzare nuovi modi di vedere.
Il Parlamento Europeo, con la Risoluzione del 19 giugno 202027, é intervenuto contro il razzismo a causa delle proteste seguite alla morte di George Floyd28, condannando fermamente la permanenza nelle nostre società dell’odio e di tutte le varie manifestazioni di razzismo.29
Il Parlamento EU ha fatto proprio lo slogan della protesta “Black lives matter’30 e ha “condannato il suprematismo bianco in tutte le sue forme, compreso l’uso di slogan con lo scopo di danneggiare o sminuire il movimento Black Lives Matter e ridurne l’importanza”.31
Ha sottolineato l’esistenza di un problema “strutturale che si riflette anche nelle disuguaglianze socioeconomiche e nella povertà… È ampiamente noto che odio e razzismo sono particolarmente evidenti nel mercato del lavoro, in cui le persone di colore hanno impieghi più precari… e la discriminazione si manifesta spesso nell’accesso agli alloggi e all’istruzione”.
La Risoluzione è nata sotto la spinta di 54 paesi dell’Africa32, capeggiati dall’ambasciatore del Burkina Faso presso il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra che, in seguito alla morte di George Floyd, aveva presentato ufficialmente la richiesta poi accolta, di discutere urgentemente del problema del razzismo e della violenza della polizia.33
C’é chi, come gli scrittori Robert Samuels e Toluse Olorunnipa34 , ha parlato di una versione sistemica di razzismo stratificatasi nella società americana, nata con gli antenati di George Floyd che combattevano i mali della schiavitù, della mezzadria violenta, della segregazione legale e della miseria intergenerazionale dall’epoca della guerra civile a quella dei diritti civili35 e Floyd crescendo sperimentava i residui di un razzismo esplicito che diventava sempre più radicato e superficialmente accettabile e aveva portato a una ghettizzazione razziale.
Tant’é che egli viveva in un quartiere emarginato così progettato dal governo, in cui le case popolari erano fatiscenti36, nelle scuole il sistema scolastico statale non aveva sussidi sufficienti per le classi già di poveri e faceva credere come l’unica via di uscita fosse lo sport.
La polizia era sempre presente e così è stato anche per George che è stato molestato, minacciato e arrestato fin da piccolo – si contano circa 20 arresti e in 5 casi i poliziotti sono stati accusati di comportamenti illegali.
Floyd si legge in “Il suo nome è George Floyd – La vita di un uomo e la lotta al razzismo” temeva di morire per mano della polizia e soffriva di claustrofobia, di pressione alta, ansia e depressione, oltre a dipendenza da droghe e una volta ha detto: “la gente fa presto a escluderti, ma ragazzi, come fa fatica a includerti”.
E il suo nome è diventato il simbolo della lotta all’ingiustizia razziale.
Il blackface è ancora vivo non solo in Italia ma anche all’estero, si pensi alla Francia, dove Antoine Griezmann37, calciatore della nazionale francese, domenica 17 dicembre 2017 pubblicò su Twitter una fotografia che lo ritraeva truccato come un giocatore di colore, con una parrucca afro e vestito come un giocatore di basket della squadra americana degli Harlem Globetrotters.
Un travestimento che ha costretto l’attaccante dell’Atletico Madrid a rimuovere la sua foto e a scusarsi per quello che lui definiva “un omaggio” alla squadra americana.
La giustifica porta alla mente le parole38 di Achille Mbembe.39
“Si resta risentiti se una disciplina emanata da un altro ordine ci priva del diritto di ridere, del diritto a un umorismo che non è mai rivolto contro se stessi (autoironia) o contro i potenti (la satira in particolare) ma sempre contro chi è più debole – il diritto di ridere alle spese di chi si vuole stigmatizzare”.
Sono forme di razzismo anche le “battute” di Cattelan sui napoletani a Roccaraso durante la seconda puntata del dopofestival, in cui ha offerto una rivisitazione di Montagne Verdi davanti a Rocco Hunt, manifestamente imbarazzato e rimasto in silenzio insieme a Rkomi, mentre più tardi ha dichiarato: “Devo ammettere che sono rimasto spiazzato, anche io molte volte gioco con i luoghi comuni ma ieri non ho avuto voglia di ridere“.
Il perché è facilmente intuibile e va ricercato nella perdita dell’individualità e nell’attribuzione del “marchio del plurale” mediante l’utilizzo di stereotipi che vogliono tutti i napoletani o in generale i campani – perché c’é anche questa convinzione che tutti coloro che vivono in Campania siano napoletani-ignoranti, volgari, eccessivi, sopra le righe, come se si volesse su tutti caricare “il fardello della rappresentazione” così chiamato da Ella Shohat e Robert Stam (1994) in Unthinking Eurocentrism.40
Questo atteggiamento è maggiormente deprecabile quando a porlo in essere è o almeno dovrebbe essere – un esperto di comunicazione, peraltro giovane di età.
Come combattere tale forma di razzismo?
Attraverso la cultura e quindi la conoscenza dell’altro che è possibile solo se c’è l’interesse a volere esplorare, a volere capire il suo mondo ad andare oltre i meme che sono stati creati e la denuncia della falsità delle immagini o almeno evitare di considerare che quelle immagini offerte dai media, per quanto vere, rappresentino il tutto.
1 Da più parti è considerata una forma di travestimento problematica.
2 Eufemismo sostitutivo dell’inglese nigger e, in ogni altra lingua, del termine corrispondente (in italiano, negro). La parola con la N (negro), definita impronunziabile e da qui solo N, è stata sostituita con quella di schiavo nei libri di Mark Twain. La cosa ha però suscitato polemiche: Che senso ha correggere un capolavoro? (Angelo Aquaro, la Repubblica, 6 gennaio 2011, p. 40, Cultura).
3 Notizia tratta da Fanpage.it.
4 Notizia tratta da Fanpage.it.
5 Così ha risposto la Rai alle varie associazioni che hanno protestato per il perpetuarsi di questa pratica vietata, come Lunaria, Cospe e Arci: “Nel merito della vicenda per la quale ci avete scritto, chiamò subito che assumano l’impegno – per quanto è in nostro potere – a evitare che essa possa ripetersi sugli schermi Rai. Ci faremo anzi portavoce delle vostre istanze presso il vertice aziendale e presso le direzioni che svolgono un ruolo nodale di coordinamento perché le vostre osservazioni sulla pratica del blackface diventino consapevolezza diffusa”.
6 Mattia Barro, Rolling Stone Italia, 6 giugno 2020, Musica.
7 È il fratello del calciatore Mario Balottelli.
8 Notizia riportata da Il Secolo XIX – Quotidiano on line.
9 Il giornalista Enrico Mentana ha letteralmente detto: “Ecco una storia che ci racconta gli eccessi del politically correct. Spot divertenti ma censurati, e il perché è piuttosto disarmante. Alitalia ha fatto bene a non correre rischi maggiori, ma la logica per cui arriva sempre uno più puro che ti fa la lezione sta diventando essa stessa censurabile”.
10 Igiaba Scego è nata in Italia da una famiglia somala, figlia di Ali Omar Scego, primo governatore di Mogadiscio, ambasciatore e ministro degli esteri emigrato in Italia all’indomani del colpo di Stato di Siad Barre del 1969. Dopo la laurea in Letterature straniere presso la Sapienza di Roma, ha svolto un dottorato di ricerca in Pedagogia all’Università degli Studi Roma Tre e si occupa di scrittura, giornalismo e di ricerca incentrata sul dialogo tra culture e la dimensione della transculturalità e della migrazione. Collabora con molte riviste che si occupano di migrazioni e di culture e letterature africane tra cui Latinoamerica, Carta, El Ghibli, Migra e con alcuni quotidiani tra cui la Repubblica, Il manifesto, L’Unità e Internazionale.
11 Notizia riportata dal Corriere Veneto.
12 Editore Penguin Publishing Group (16 agosto 2007).
13 Il termine deriva dal francese voix de ville, letteralmente voce della città oppure da Vau de Vire cioè Valle della Normandia dove si intonavano canzoni su temi di attualità. È oggi usato per indicare le commedie leggere in cui alla prosa sono alternate strofe cantate su arie conosciute (vaudevilles), genere teatrale nato in Francia verso la fine del ‘700. Diffusosi in Nord America, qui ebbe successo nel periodo compreso tra il 1880 al 1920, trasformandosi nel moderno spettacolo di varietà (Comédie de vaudeville, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.).
14 Mark Twain è uno pseudonimo che nel gergo dei battellieri, indica la profondità dell’acqua di due braccia. Il vero nome era Samuel Langhorne Clemens, nato nel 1835 nel Missouri (Florida), è l’autore, tra l’altro, di “Le avventure di Tom Sawyer” del 1876 e “Le avventure di Huckleberry Finn” del 1884, dove ha raccontato l’America più profonda. Peraltro, quest’ultimo romanzo è stato vittima del cambiamento della sensibilità e dei criteri in base ai quali considerare un’opera razzista o antirazzista. Considerato alla nascita un capolavoro della letteratura americana (Ernest Hemingway ad esempio disse: “In America non c’era niente prima, e non c’è più stato nulla di così buono dopo”), e tacciato nel 1885 di antirazzismo, nel 2011 venne pubblicata una edizione “sterilizzata”, mondata, di “Huckleberry Finn” senza la famosa n-word, negro, sostituita con la parola schiavo.
Per arrivare nel 2019 a essere messo all’indice, grazie a due membri afroamaricani dell’Assemblea provenienti dallo Stato del NewJersey, con la risoluzione NJ ACR225 hanno chiesto ai distretti scolastici di rimuovere Le avventure di Huckleberry Finn, perché “l’uso nel romanzo di un insulto razzista e le sue rappresentazioni di atteggiamenti razzisti possono turbare gli studenti”. Già prima della risoluzione i distretti scolastici in Pennsylvania, Virginia, Minnesota e Mississippi avevano già rimosso il libro dai curricula. poi lo ha fatto scuola di Filadelfia, e poi la National Cathedral School, una delle più prestigiose scuole private di Washington. Secondo l’American Library Association, il romanzo di Mark Twain è stato il quattordicesimo libro più vietato negli ultimi anni, per “difendere i ragazzi da letture diseducative” Si tratta non altro che di una sottile censura.
15 Il gangsta rap o g-rap è un genere musicale derivato dal rap. I testi parlano di valenza droga, sesso, armi, delle bande criminali da strada e dei gangaster. Il rapper Schoolt D di Filadelfia nel 1984 nel singolo Gangster Gorgie pare sia stato il primo a usare la parola “gangster”. Verso al fine dei anni Ottanta del secolo scorso, nella West Coast statunitense, il genere gangsta rap acquisisce notorietà e comincia ad essere così chiamato. Ma è con la canzone 6 In The Morning di Ice-T del 1987 che ufficialmente nasce il genere musicale e nel testo per la prima volta compaiono termini come “nigga” (negro) e “hoe” (troia). Nel tempo l’audience del gangsta rap è divenuta prevalentemente bianca, alcuni criticarono questo genere di essere diventato un omologo dei minstrel show e dei blackface degli anni Venti del secolo scorso, in cui afro-americani o bianchi facevano in modo di apparire come caricature dei neri, agendo in modo stereotipicamente privo di cultura, per l’intrattenimento del pubblico bianco (tratta questo tema il film Bamboozled del 2000 del regista Spike Lee ed è il suo primo film girato tutto in digitale). Nel 2023 è stato selezionato per la conservazione nel National Film Registry degli Stati Uniti dalla Biblioteca del Congresso come “culturalmente, storicamente o esteticamente significativo” (Spike Lee & Kaleem Aftab, Questa è la mia storia e non ne cambio una virgola, Kowalski Editore, Milano, 2005).
16 White Chicks è un film del 2004 diretto da Keenen Ivory Wayans con protagonisti i fratelli Marlon e Shawn
17 Si ricorda che portoghesi furono i principali esploratori durante il Medioevo.
18 Anna Scacchi – Università di Padova in Mettere in scena la razza. Visualità, autenticità e performance razziale. Che cosa vediamo, quando vediamo la razza?
19 Visualità e (anti)razzismo, a cura di InteRGRace, Padova Univerity Press, prima edizione del 2018.
20 Shawn Michelle Smith è professore di storia e la teoria della fotografia, si occupa della razza e del genere nella cultura visiva. Ha pubblicato sette libri, tra cui il più recente Photographic Returns: Racial Justice and the Time of Photography (Duke 2020), che ha vinto il Ray and Pat Browne Award 2021 della Popular Culture Association.
21 Jill Lane 2010, Smoking Habaneras, or A Cuban Struggle with racial Demons, in Social Text XXVIII, 3
22 Nel 1987 Adrian Piper è stata la prima donna americana di riconosciuta discendenza africana a ottenere una cattedra accademica nel campo della filosofia presso la Georgetown University. Nel 2011 l’American Philosophical Association le conferisce il titolo di Professore Emerito. Ha vinto il Leone d’Oro come miglior artista alla Biennale di Venezia 2015.
23 Cosa stai guardando figlio di puttana?
24 È un’opera del 1987 di Adrian Piper che è stata in mostra al Padiglione d’arte contemporanea (Pac) di Milano in occasione della retrospettiva intitolata Race traitor, traditrice della sua stessa razza, nel mese di maggio e giugno del 2024.
25 Notizia tratta da Internazionale, maggio 2024.
26 Glenn Ligon nato nel 1960, è un artista concettuale americano che esplora concetti come la razza, il linguaggio, il desiderio, la sessualità e l’identità.Vive a New York City, il lavoro di Ligon attinge spesso alla letteratura del XX secolo e ai discorsi di personaggi culturali del XX secolo come James Baldwin, Zora Neale Hurston, Gertrude Stein, Jean Genet e Richard Pryor. È noto come uno degli ideatori del termine Post-Blackness. (Meyer Richard, Glenn Ligon, in George E. Haggerty and Bonnie Zimmerman (eds), Gay Histories and Cultures: An Encyclopedia, Volume 2, Garland Publishing, New York, 2000).
27 È stata approvata con 493 voti favorevoli la risoluzione che condanna razzismo, violenza e xenofobia e prende una dura posizione contro l’amministrazione statunitense e sostiene il movimento “Black Lives Matter“.
28 Il 25 maggio 2020 a Minneapolis (Stati Uniti) un uomo di colore è stato ammanettato e messo prone a terra dalla polizia che lo aveva arrestato per avere tentato di acquistare in un minimarket un pacchetto di sigarette con una banconota da 20 dollari falsa. Uno dei poliziotti Derek Chauvin si accanisce contro di lui e per 8 minuti gli preme il ginocchio sul collo mentre altri due lo tengo fermo, e l’uomo arrestato ripete: ”I can’t breath” (Non riesco a respirare). Alcuni passati filmano la scena e invitano i poliziotti a fermarsi ma non lo fanno fino a quando non arriva l’autoambulanza e l’uomo viene caricato per poi dichiararne il decesso in ospedale. Dopo si conosce il suo nome, era George Floyd “il quaranteseienne nero ucciso da un poliziotto bianco” che “diventa il simbolo del razzismo contro i neri mai estirpato nel Paese” (da Il sole 24Ore del primo giugno 2020, a cura di Angela Manganaro).
29 Punto 3 della Risoluzione citata: “condanna risolutamente tutte le forme di razzismo, odio e violenza, come pure qualsiasi aggressione fisica o verbale ai danni di persone di una determinata origine razziale o etnica, religione o convinzione personale e nazionalità, sia nella sfera pubblica che in quella privata; ricorda che nelle nostre società non sono ammessi il razzismo e la discriminazione; chiede alla Commissione, al Consiglio europeo e al Consiglio di adottare una posizione forte e decisa contro il razzismo, la violenza e l’ingiustizia in Europa”.
30 Sì, “la vita dei neri conta”.
31 Punto 6 della Risoluzione sopra citata.
32 La cosiddetta “risoluzione del Parlamento europeo contro il razzismo“.
33 L’Osservatore Romano ha dato ampio spazio sulle sue pagine all’argomento supportando la richiesta dei 54 paesi africani.
34 Sono gli autori di Il suo nome è George Floyd – La vita di un uomo e la lotta al razzismo (Ed. La nave di Teseo), vincitore del Premio Pulitzer 2023.
35 Notizia tratta da Linkiesta.it, dicembre 2023.
36 Dette Cuney Homes, le più antiche di Houston.
37 Calciatore francese, attaccante dell’Atlético Madrid.
38 Achille Mbembe, Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia, Laterza, Roma-Bari, 2019.
39 Filosofo camerunense (n. 1957). È uno dei massimi teorici del postcolonialismo, docente di Storia e politica presso il Wits Institute for Social and Economic Research di Johannesburg, ha concentrato i suoi studi sulla concettualizzazione occidentale delle differenze e sull’elaborazione delle coordinate identitarie dell’Africa postcoloniale, individuando la permanenza nelle fasi successive alla decolonizzazione di una ideologia della razza e della violenza in cui modalità dominanti di relazione sono ostilità e pregiudizi.
40 Unthinking Eurocentrism esplora le questioni dell’eurocentrismo e del multiculturalismo in relazione alla cultura popolare, al cinema e ai mass media. Gli autori sostengono che gli attuali dibattiti sull’eurocentrismo e l’afrocentrismo sono semplicemente manifestazioni superficiali di un cambiamento radicato: la decolonizzazione della cultura globale.
Paola Calvano