Le TIC… ne sont pas chic: istoria di una diffamazione (per nulla) smart

(…) Non smettere di credere che le parole

e le poesie possono cambiare il mondo (…)”.

Lo zio Walt (Whitman) aveva ragione.

ABSTRACT: Con ordinanza del 17 gennaio 2025 (depositata il 20), emessa ex art. 409, comma 4, c.p.p., il G.I.P. presso il Tribunale di Torino – non avendo accolto la richiesta di archiviazione per il reato di cui all’art. 595 c.p. – ha restituito gli atti al P.M. per nuove indagini da svolgere nel termine di sei mesi.

Il procedimento è nato a seguito di denuncia querela sporta a carico di ignoti che, sul noto social Facebook, avevano insultato la querelante. Tali offese, a loro volta, erano originate dalla pubblicazione del video registrato in occasione di una festa, in cui un uomo leggeva una lettera di accusa nei confronti della donna con cui aveva avuto una relazione sentimentale. Diventato immediatamente virale, al video erano seguite reazioni sul social e trasmodate nei seguenti commenti: “puttana“, “zoccola“, “troia“, “andavi presa a calci in culo schifosa“, “le troie vanno punite in questo modo“.

Ritenuti non scriminati dall’esercizio del diritto di critica, ma considerati “veri e propri insulti” basati sul genere, il G.I.P. ha accolto l’opposizione della parte offesa cui era stata allegata consulenza tecnica volta (positivamente) a certificare integrità e reale corrispondenza dei post incriminati, oltre a estrapolare il numero ID univoco di ciascun profilo Facebook.

Il termine concesso – e tutt’ora pendente – è perciò finalizzato alla identificazione degli autori del reato.

Sommario: 1. La decisione e i suoi (condivisibilissimi) perché – 2. Uno sguardo rivolto dal G.I.P. (e non solo) alla giurisprudenza interna e d’Oltralpe – 3. Uno sguardo rivolto da me alla Corte E.D.U. e a un suo elegante arrêt.

1. La decisione e i suoi (condivisibilissimi) perché

Valvola che permette ad un sistema di norme di respirare in termini umani”.[1]

Sfido chiunque nel trovare una definizione più intima e carnale di ciò che – non sarà un caso – si chiama diritto; parole che, pur se coniate per qualificare in modo romanticamente giuridico (o giuridicamente romantico?) le cause di esclusione di colpevolezza, ben possono applicarsi quasi analogicamente – e certamente in bonam – alle scriminanti. Altrimenti dette cause di giustificazione. D’altronde e a ben pensarci, si tratta della stessa chiave di lettura: la inesigibilità.

C’è solo un piccolo dettaglio: tutto va tarato al fatto, sì da capire, all’esito di un bilanciamento empiricamente e juridically correct, se l’accaduto meriti davvero di perdere lo stigma della illiceità penale.

E non v’è dubbio che quanto accaduto nel caso in esame sia stato soppesato in modo ineccepibile dal G.I.P.

La stessa suddivisione in paragrafi dell’ordinanza è un primissimo indice rivelatore della sua qualità: lucida, logica, obiettiva e colorata delle giuste nuances giurisprudenziali (interne e d’Oltralpe).

In primissima battuta, il Giudice ha spiegato gli argomenti su cui si era basata la richiesta di archiviazione:

1. La impossibilità di identificare gli autori dei commenti postati, tenuto conto della frequenza di profili social falsi;

2. Il riscontro dell’esercizio del diritto di critica come scriminante, sussistendone i tre requisiti giurisprudenziali;

2.1) Sub specie della continenza, la causa di giustificazione va infatti ricalibrata – e, dunque, resa più elastica – in un contesto sociale evidentemente mutato anche in termini di comunicazione e linguaggio a essa funzionale: quello utilizzato sui social network;  

2.1.1) La elasticità fa il paio con la liceità di espressioni “forti”, così incluse nel range applicativo della esimente in oggetto.

Proposta opposizione, la parte offesa aveva rilevato che nessuna attività investigativa era stata svolta dall’Ufficio di Procura per la individuazione dei responsabili e che nessuno dei tre requisiti necessari per la configurabilità dell’esercizio del diritto di critica fosse in realtà sussistente per le seguenti ragioni:

– La verità della notizia deve essere oggettiva, non bastando il racconto/lettera dell’ex compagno, ontologicamente soggettivi;

– Non v’è interesse pubblico, la p.o. non ricoprendo incarichi pubblici;   

– Non v’è continenza, i post integrando insulti e aggressioni gratuite, sessiste e volgari.

L’opponente aveva altresì allegato alcuni articoli di giornale in cui la richiesta di archiviazione, proprio nel suo caso, era stata criticata.

Opposizione accolta cui, come anticipato, il G.I.P. ha dedicato un’ordinanza molto ben strutturata.

Reputata logicamente preliminare alla identificazione degli autori – step investigativo necessario ma eventuale – il Giudice ha puntualmente verificato l’an dei tre requisiti, riscontrandosi i quali, evidentemente, la perduranza della notizia di reato non avrebbe più ragion d’essere.

Tuttavia, ancor prima di ciò, il G.I.P. ha rivolto l’attenzione alla macroarea delle TIC: “Tecnologie dell’informazione e della comunicazione” e al loro (ab)uso tradotto in violenza sulle donne, comportamenti sessisti e discorsi d’odio.

Che gl’insulti abbiano attinto esclusivamente il mondo femminile – in quanto tale – emerge dalla natura delle parole: per esempio, “puttana” e “zoccola” non hanno una declinazione maschile e la stessa involuzione in commenti come “le troie vanno punite in questo modo” dimostra ancor più nitidamente l’odio sessista che ne è alla base.

Ad ampio spettro, appunto, perché rivolto alla totalità del genere.

Manifestandosi attraverso le TIC, veicoli dilatatori del concetto di violenza sulle donne, il Decidente ne ha subito dato un taglio (anche) europeo.

Meravigliosamente europeo.

Muovendo dalla Convenzione di Istanbul, passando per la Direttiva UE n. 2024/1385 e la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 27 marzo 2019, dopo un doveroso pitstop presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, si approda in Cassazione.

La prima tra le fonti indicate definisce la violenza che colpisce le donne “in modo sproporzionato, che provoca o possa provocare danni o sofferenza fisica sessuale, psicologica o economica, incluse le minacce di compiere tali atti”.

La Direttiva UE n. 2024/1385 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica è nata per soddisfare una duplice esigenza: colmare la lacuna esistente sul piano normativo europeo, tenuto conto che la nota Direttiva UE n. 2012/29 mira alla protezione della vittima, non alla donna in quanto tale; ovviare alla mancata ratifica della Convenzione di Istanbul da parte di tutti gli Stati membri (processo poi sbloccato grazie alle due decisioni nn. 2023/1075 e 2023/1076 del Consiglio, che hanno dato lo start alla relativa entrata in vigore avvenuta il 1° ottobre 2023).

Per vero, già nella Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 27 marzo 2019, era stato scritto: “Internet ha attribuito una nuova dimensione all’espressione e alla diffusione del sessismo presso il vasto pubblico, in particolare, il discorso d’odio sessista, anche se le origini del sessismo non sono da ricercare nell’ambito delle tecnologie ma nel persistere delle disparità di genere”.

Il che val quanto dire…

Bellissimo (per la purezza ed efficacia linguistica) e verissimo (per contenuti) è il passaggio: “(…) gli stereotipi e i pregiudizi di genere intrinsechi plasmano le norme, il comportamento e le aspettative degli uomini e dei ragazzi, e sono quindi all’origine di comportamenti sessisti”.

Ma v’è anche una terza esigenza: dedicare un focus alle forme di violenza on line attraverso le TIC; violenza “virtuale” che – si legge al § 17 del Preambolo (il cui incĭpit è stato riportato nell’ordinanza) – è “intrinsecamente connessa all’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (‘TIC’) e tali tecnologie s(o)no utilizzate per amplificare in modo significativo la gravità dell’impatto dannoso del reato, modificando in tal modo le caratteristiche dello stesso”.

Essa “prende di mira e colpisce in particolare le donne politiche, le giornaliste e le difensore dei diritti umani” e “può avere l’effetto di ridurre le donne al silenzio e di ostacolarne la partecipazione alla vita sociale su un piano di parità con gli uomini. La violenza online colpisce senza comune misura le donne, ragazze e bambine anche in contesti educativi come la scuola o l’università, con conseguenze devastanti sul proseguimento degli studi e sulla salute mentale, provoca esclusione sociale, ansia e induzione all’autolesionismo e può, in casi estremi, anche portare al suicidio”.

Colpiscono l’attenzione, poi, gli ultimi incisi del paragrafo successivo: “al fine di stabilire soltanto norme minime per le forme più gravi di violenza online, i pertinenti reati definiti nella presente direttiva dovrebbero essere limitati a condotte che possono provocare danni gravi o un grave danno psicologico alla vittima, oppure a condotte che possono indurre la vittima a temere seriamente per la propria incolumità o per quella delle persone a suo carico. In ciascun caso, nel valutare se la condotta è suscettibile di causare un danno grave, si dovrebbe tener conto delle circostanze specifiche del caso, fatta salva l’indipendenza della magistratura. La probabilità di causare un danno grave può essere dedotta da circostanze materiali oggettive. La presente direttiva stabilisce un quadro giuridico minimo a tale riguardo e gli Stati membri sono liberi di adottare o mantenere norme penali più rigorose”.

All’esito del festīna lente di memoria augustea, ecco emergere il più accattivante tra i suddetti incisi: “si dovrebbe tener conto delle circostanze specifiche del caso, fatta salva l’indipendenza della magistratura”.  

Sembra un fuor d’opera ma non lo è: l’inquadramento del fatto muove dalla obiettività della sua traduzione fenomenica ed è oggetto della lettura qualificata di chi, magis ter competente, indipendente “ha da restare”. Per definizione. Ma sottoposto al vaglio di un sempre possibile censore che solo una motivazione – manifesta ed effettiva – può accettare.

L’ensemble degli artt. 6 e 13 C.E.D.U. resta segugio inter(no)nazionale da rispettare.

E che il G.I.P. di Torino ha dimostrato chiaramente di fiutare: “Alla luce dell’inquadramento normativo ora sintetizzato, i commenti in esame, proprio perché volti a stigmatizzare la parte lesa in funzione del genere, appaiono marcatamente discriminatori. Essi non sono espressione di un giudizio meramente critico, ma appaiono commenti basati su stereotipi di genere, animati in via esclusiva da finalità offensive”.

Con atteggiamento altrettanto marcatamente equilibrato, sebbene al Decidente sia apparso “arduo ravvisare un legittimo esercizio del diritto di critica”, ciò “non esime da una analisi nel dettaglio dei requisiti cui la giurisprudenza subordina il riconoscimento dell’esimente in parola”.

Il focus giudiziale si rivela, dunque, a tutto tondo, perciò un plauso merita per il suo essere inter se et erga alios fecondo.

2. Uno sguardo rivolto dal G.I.P. (e non solo) alla giurisprudenza interna e d’Oltralpe.

Muovendo dalla distinzione tra statement of facts (dichiarazioni di fatti) e value judgements (giudizi di valore) compiuta tanto dalla Suprema Corte quanto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[2], il G.I.P. ha evidenziato che pur potendo essere solo i primi oggetto di prova, anche per i secondi è necessario che vi sia un addentellato fattuale “veritiero e rigorosamente controllabile”.

E poiché ne risultano interamente slegati, i commenti postati su Facebook sono totalmente gratuiti.

Detto con maggiore impegno esplicativo, anche ipotizzando con l’Ufficio di Procura che il fatto fosse quello raccontato dall’ex convivente nella e con la lettera, difetta un nesso contenutistico potenzialmente giustificabile, rispetto ai commenti che – al fatto stesso – non contengono un cenno.

Che sia uno.

Pertanto, essendo privi di una eziologia (necessaria e necessariamente) di tal natura, i commenti si rivelano acefali e, di conseguenza, offensivi.

Più esattamente, ecco cosa ha scritto il G.I.P.: “La critica presuppone pur sempre un ragionamento logico: ma se insulto immotivatamente, senza indicare il presupposto di fatto del mio giudizio, la frase resta diffamatoria”.

Quanto al requisito dell’interesse pubblico, è chiaro che esso vada collegato alla notorietà della persona cui la notizia è riferita.

È su questo secondo presupposto che il richiamo giurisprudenziale risulta ampiamente calzante, la Suprema Corte nel 2019[3] essendosi espressa in tal modo: “In tema di diffamazione, l’esercizio del diritto di critica, reso legittimo dall’interesse pubblico della notizia e dalla funzione pubblica esercitata dal soggetto criticato, non autorizza l’offesa rivolta alla sfera privata di quest’ultimo mediante l’uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza che aveva ravvisato la scriminante del diritto di critica nella condotta dell’imputato che, nel commentare sul proprio sito web l’attività di una donna architetto in servizio presso una soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici, aveva fatto gratuito riferimento a presidi sanitari di ordinario utilizzo femminile, con un chiaro coinvolgimento della persona e della sua sfera intima). (Annulla ai soli effetti civili, Corte d’Appello, Campobasso, 02 .11.2017)”.

Centra perfettamente il target argomentativo il passaggio svolto sub § 3 a proposito della ratio sottesa all’art. 595 c.p.: “secondo quella che viene comunemente identificata come concezione fattuale dell’onore, ciò che viene tutelato attraverso l’incriminazione in parola, è l’opinione sociale del ‘valore’ della persona offesa dal reato, distinguendosi la lesione della reputazione da quella dell’identità personale, che, secondo la definizione di autorevole dottrina, corrisponde al diritto dell’individuo alla rappresentazione della propria personalità agli altri senza alterazioni e travisamenti”.

Il valore, per l’appunto: un concetto che racchiude in sé l’etica della singola persona.

E di cui la proiezione all’esterno di ciò che si è/ha dentro, della irripetibile specialità del proprio “io” – unicum nella totalità del suo essere – urla il bisogno dall’eco infinita:

I care.

Prisma di cristallo alla luce di un sole che inevitabilmente ne fa transitare le qualità umane cromaticamente definite. E, dall’altro e diverso da sé, percepite.

Tenore del linguaggio e contesto dialettico integrano il binomio su cui il Giudice deve basare il suo “calcolo” motivo: è una recentissima pronunzia della Suprema Corte a ribadirlo.[4]

Mentre poco più di un anno fa, la Sezione V[5] aveva correttamente rilevato quanto segue: “Si è condivisibilmente chiarito, peraltro, come tale affermazione sia valida anche nell’ambito di contesti dialettici che coinvolgano rapporti lavorativi, economici o in qualsiasi modo professionali, come quello di specie, poiché è proprio in tali circostanze di fatto che si verificano le ipotesi maggiormente problematiche”.

La Cassazione, volgendo lo sguardo verso sé stessa (n. 7995 del 9 dicembre 2020), ricorda che esse ipotesi sono “quelle che percorrono crinali stretti, sempre in bilico tra l’esigenza di dar voce ai diritti di libertà del pensiero, anche e soprattutto quando esso sia critico, e la necessità di offrire (ancora) un margine di tutela al diritto alla reputazione, che taluno in dottrina ritiene oramai sempre più spesso marginale nelle applicazioni concrete che ne fa la giurisprudenza”.

Si veda anche la sentenza n. 34464/2024 della Sezione VI, citata dal G.I.P. torinese e di tale tenore: “In tema di oltraggio, ricorre l’esimente del diritto di critica politica se le espressioni profferite, pur aspre, non si risolvano in un’aggressione gratuita alla sfera morale altrui, né trasmodino in disprezzo per la persona, concretizzandosi in censure all’operato degli avversari politici, nella dialettica tra maggioranza e minoranza. (Nella specie, la Corte ha ritenuto scriminate le espressioni con le quali, rivolgendosi al Sindaco, un consigliere comunale di opposizione aveva affermato che le forze politiche di minoranza non riconoscevano ai vincitori della competizione elettorale ‘il ruolo, morale e politico per stare seduti sui banchi della maggioranza’ perché il loro successo era frutto di pratiche clientelari, di cui nemmeno la persona offesa aveva contestato i presupposti fattuali). (Rigetta, Corte Appello Firenze, 11.12.2023)”.

Orbene, dato che i commenti non hanno riguardato la sfera pubblica del soggetto criticato, interrogarsi sulla sua notorietà è completamente inutile; non essendovi alcun interesse pubblico da tutelare – e un contraddittorio da garantire su comportamenti privati – la critica rimane semplicemente offensiva e sprovvista di alcuna portata giustificativa.

(Anche) riguardo alla continenza, le valutazioni del G.I.P. sono pregne di una indiscutibile ragionevolezza. Chirurgica, direi.

Ecce verba: “Nel caso di specie, pur concordando in linea generale sulla necessità di adeguare la valutazione del requisito di continenza al mutato contesto sociale ed al luogo ove il commento viene espresso (Facebook), le parole scelte dagli autori del post appaiono oggettivamente sopra le righe ed inutilmente umilianti. Sono veri e propri insulti. I termini scelti non sono semplicemente inurbani o forti, sono volutamente ed inequivocabilmente offensivi. Sul punto è sufficiente rinviare alla lettura dei messaggi”.

Perciò se è vero che “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, v’è un terreno – più d’uno, in questa realtà – sulla cui superficie lo spazio non si piega in funzione del tempo.

Vi sono nuclei duri, intangibili e perenni che alla legge della moderna relatività non obbediscono, quel che mira ad aggirarli finendo per restare inghiottito nel black hole di irrinunciabili valori.

Compreso chi – buffo a dirsi – socializza celandosi.

Sennonché, compiuta tale doverosa disamina, il G.I.P. ha spiegato la necessità di identificare gli autori, donde il termine semestrale concesso al P.M. per il compimento di ulteriori indagini; ha ricordato che l’attribuzione di un profilo Facebook a un determinato soggetto può avvenire anche sulla base di elementi logici, frutto della “convergenza di plurimi e precisi dati indiziari”.

A tale determinazione il Giudicante piemontese è pervenuto, seguendo la scia tracciata dala decisione della Cassazione, Sezione V, n. 38755/2023.

Secondo gli Ermellini, ben si può dichiarare la responsabilità per il reato di diffamazione anche in assenza di un accertamento tecnico in ordine alla titolarità dell’indirizzo IP, “a condizione che il profilo Facebook sia attribuibile all’imputato sulla base di elementi logici, desumibili dalla convergenza di plurimi e precisi dati indiziari quali il movente, l’argomento del forum sul quale i messaggi sono pubblicati, il rapporto tra le parti, la provenienza del post dalla bacheca virtuale dell’imputato con utilizzo del suo nickname”.

Nel caso di specie, l’Organo giudicante ha posto l’accento sulla possibilità che il profilo sia associato a nome, cognome e a una foto – tutto verificabile compulsando le banche dati nella disponibilità delle Forze dell’Ordine – da associare poi a ulteriori informazioni presenti sullo stesso account: data di nascita, domicilio/residenza/dimora, numero di telefono.

Inoltre, pur non potendo escludere la presenza di fake, gli autori dei post non si inseriscono in un contesto di elevata criminalità informatica; ciò che rende altamente probabile l’utilizzo concreto del profilo reale, non già il ricorso a sofisticate tecniche di anonimizzazione.

Ove poi tale percorso deduttivo risultasse carente, ben potrebbe ovviarsi tramite richieste formali a Facebook; infatti, grazie alla consulenza tecnica espletata dalla p.o., era già stato individuato l’ID univoco di ciascun autore dei post.

Recepito tale dato, il G.I.P. ha così concluso: ben si può “inoltrare una richiesta volta ad ottenere i dati di registrazione (User Basic Subscriber), quali indirizzo mail, data e ora di creazione account e degli accessi più recenti, numero di cellulare eventualmente registrato. Sarà possibile inoltre richiedere l’acquisizione dei file di log relativi agli ultimi accessi dell’utente, in modo da poter risalire attraverso l’indirizzo IP ad ulteriori informazioni utili alla identificazione dell’utilizzatore degli account”.

3. Uno sguardo rivolto da me alla Corte E.D.U. e a un suo elegante arrêt.

L’insostenibile pesantezza della parola e/è la gravosa inutilità della umiliazione.

Volendo offrire una piattaforma musicale quasi apotropaica, i versi di Max Gazzè sarebbero i prescelti:

Potranno mai le mie parole esserti da rosa, sposa…

Perdonino i Lettori se alle Lettrici si dà priorità, ma è la statistica a tingersi (o a macchiarsi?) di rosa.

È questa la verità.

L’importanza di un comportamento verbale opportuno e opportunamente dosato ha un diametro applicativo sconfinato. Non è un caso che, nel 2010, il codice etico dei Giudici sia stato a tal fine modificato.

Recita l’art. 12, comma 3: “Nella motivazione delle decisioni e nello svolgimento delle udienze, il giudice considera i fatti e gli argomenti delle parti, evita di pronunciarsi su fatti o persone non pertinenti all’oggetto della causa, di esprimere giudizi o considerazioni sulla capacità professionale di altri giudici e difensori e – a meno che non sia necessario ai fini della decisione – sulle persone coinvolte nel processo”.

Vengo a conoscenza del suddetto novum, leggendo la decisione della C.E.D.U., Sezione Prima, J.L. c. Italia, 27 maggio 2021 (definitiva 27 agosto 2021), ric. n. 5671/16.

In questa vicenda nata dalla denuncia sporta da una ragazza per violenza sessuale, sei dei sette imputati furono condannati dal Tribunale di Firenze per i reati previsti e puniti dagli artt. 609-bis, comma 2, n. 1 e 609-octies c.p., e poi assolti in appello.

Quanto all’an del consenso prestato dalla parte offesa ai rapporti sessuali, la Corte d’Appello aveva escluso qualsiasi carenza psicologica in capo alla stessa, tale che proprio il suo consenso potesse avere realmente inficiato.

Ritenuta non credibile, la Corte aveva definito la giovane donna “certamente fragile ma anche creativa e disinibita”, “capace di gestire la sua (bi)sessualità e di avere occasionali incontri sessuali di cui non era del tutto convinta”.

Mi lascio fagocitare dalle pagine che seguono.

Al § 68, scopro che il parere n. 11 (2008) del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) sulla qualità delle decisioni giudiziarie, contiene il seguente passaggio: “38. (…). Il ragionamento (di una decisione del Tribunale) deve essere privo di qualsiasi valutazione offensiva o poco lusinghiera del contendente”.

Si ode immediata una obiezione: tale affermazione è ultronea!

Beh, forse no, giungerebbe immediata la controdeduzione.

Fanno riflettere, amaramente riflettere le osservazioni svolte dal Governo e sintetizzate dalla Corte nei §§ 106 e 109, rispettivamente: “(…) le domande poste alla ricorrente durante l’inchiesta e al processo non (potevano) costituire un’interferenza sproporzionata o ingiustificata nella sua vita privata. Ha dichiarato che gli inquirenti avevano semplicemente risposto al desiderio della ricorrente di sporgere denuncia e avevano fatto le domande necessarie per ricostruire i fatti che lei aveva riferito (…).

Tutti gli elementi relativi alla vita privata della ricorrente, come le sue precedenti relazioni con L.L., la sua bisessualità e la descrizione della lingerie che indossava al momento dei fatti, erano stati citati dalla Corte d’appello al solo scopo di fornire una descrizione il più possibile esaustiva dello svolgimento della serata del 25 luglio 2008 (…)”.  

Senonché, osserva la Corte al § 125, “il ricorrente non afferma che la gestione dell’inchiesta sia stata caratterizzata da carenze e ritardi evidenti o che le autorità abbiano trascurato qualche passo investigativo. Ciò che la ricorrente sostiene è che il modo in cui l’indagine e il processo sono stati condotti è stato traumatico per lei e che l’atteggiamento delle autorità nei suoi confronti ha colpito la sua integrità personale (…)”.

Al § 140 la Corte dà atto del rapporto sull’Italia del Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne e del rapporto GREVIO; ciò che è risultato è l’attuale presenza di stereotipi sul ruolo delle donne, in uno alla resistenza della società alla causa dell’uguaglianza di genere.

Sono proprio gli stereotipi che emergono dalla sentenza della Corte d’Appello toscana, il cui linguaggio e i cui argomenti trasmettono “i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana e sono suscettibili di impedire l’effettiva protezione dei diritti delle vittime di violenza di genere nonostante un quadro legislativo soddisfacente”.

Linguaggio che, si veda il paragrafo successivo, ove sia “colpevolizzante e moraleggiante (…) scoraggia la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario”; il che è esattamente quel che è accaduto nel citato caso J.L. c. Italia

Si legge, infatti, al § 142: “(…) la Corte ritiene che i diritti e gli interessi del ricorrente ai sensi dell’art. 8 non siano stati adeguatamente protetti alla luce del contenuto della sentenza della Corte d’Appello di Firenze. Ne consegue che le autorità nazionali non hanno protetto la ricorrente dalla vittimizzazione secondaria durante tutto il procedimento, di cui la redazione della sentenza costituisce una parte integrante della massima importanza, soprattutto in considerazione del suo carattere pubblico”.

Chapeau!     

Ma la sentenza non finisce qui e le opinioni dissenzienti meritano di essere citate.

O giù di lì.

Si perché se il cielo si tinge spesso di Viola, le parole del Giudice Wojtyczek risuonano (anche stavolta) come stridula pianola.

Questo in sintesi, sub §§ 4, 5 e 7, il suo pensiero: “(…) la Corte d’Appello ha dovuto valutare i fatti del caso nel loro specifico contesto culturale, quello della società italiana contemporanea (…).

(…), non si spiega quali pregiudizi sul ruolo delle donne siano trasmessi dalla Corte d’Appello. Noto, inoltre, che nel caso in questione la Corte d’Appello di Firenze si è pronunciata in un collegio di tre giudici che soddisfano i criteri di equilibrio di genere (due donne, compreso il giudice relatore, e un uomo) (…).

Se il diritto penale è uno strumento essenziale per combattere la violenza, il suo ruolo nell’affrontare la disuguaglianza non dovrebbe essere sopravvalutato (…)”.

Sic!  

Fortuna che lo Scranno poggiato sul velluto blu e di stelline cosparso si sia espresso diversamente e (appunto) quasi all’unanimità.

Ah, l’uguaglianza!

I have a dream!”

Nella danza universale il contatto sia ispirato dall’onore e dal rispetto.

Anche in lontananza.

Altresì dal Giudice che fair dev’esser.

Pure in lessicale sembianza.

(…) Il potere di giudicare i propri simili non può e non deve essere vissuto come potere. Per quanto possa apparire paradossale, la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio” (Leonardo Sciascia).       

La sfida romantica degli esordi è persa.

O forse no; sarà perché di Aequĭtas si annusa la fragranza.

È certo, però, che quella tesa a una definizione del caso, razionale e tecnicamente perfetta (soprattutto nella fase embrionale in cui si trova e, anzi, proprio per il peso specifico procedimentale/processuale che ne deriva), il G.I.P. di Torino l’abbia vinta.

Di ciò sono e resto contenta, oltre che fermamente convinta.  


[1] BETTIOL Giuseppe, Diritto penale, Parte generale, Cedam Padova, 1986, p. 493, nota 401.

[2] C.E.D.U., Sezione Seconda, Mengi c. Turchia, 27 novembre 2012 (definitiva 27 febbraio 2013), ric. nn. 13471/05 e 38787/07.

[3] Cass. pen., Sez. V, 31 gennaio 2019 (dep. 19 marzo 2019), n. 12180, rv. 276033-01.

[4] Cass. pen., Sez. V, 17 dicembre 2024 (dep. 30 gennaio 2025), n. 3878, Massima redazionale, 2025.

[5] Cass. pen., Sez. V, 27 settembre 2023 (dep. 9 gennaio 2024), n. 788, Massima redazionale, 2024.

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