Sommario: 1. Introduzione; 2. La dimensione biocentrica dello sviluppo sostenibile; 3. Il tramonto dell’approccio top-down alle politiche ambientali; 4. Conclusioni.
- Introduzione
Con l’avvicinarsi del 2030, anno fissato come traguardo per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile previsti dall’“Agenda 2030”, il dibattito ambientale si è concentrato sul bilancio delle politiche pubbliche attuate, portando a due principali considerazioni: la prima, di natura ontologica, richiede un ripensamento del rapporto uomo-natura in chiave biocentrica; la seconda, più pragmatica, propone un cambio di paradigma nell’applicazione delle politiche ambientali, promuovendo l’adozione di strumenti di governance collaborativa.
Entrambe tali direttrici evidenziano le fragilità insite nell’ideale di ‘sviluppo sostenibile’ – definito nel 1987 dal rapporto della Commissione Brundtland Our Common Future e recepito dall’Agenda 2030, oltre che dagli strumenti programmatici e normativi necessari alla sua attuazione – e sottolineano la necessità di stravolgere il nucleo antropocentrico della ‘sostenibilità’, termine che, per il processo di volgarizzazione subito, ha perso la sua forza concettuale ed è degradato a mero slogan. Segnatamente, il principio secondo cui è sostenibile lo sviluppo che “consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”1 , sia pur in una prospettiva che supera il presente ed abbraccia idealmente le future generazioni, ha attribuito un privilegio al benessere dell’uomo e non anche a quello degli ecosistemi intesi come beni assoluti2.
L’assimilazione del bene-ambiente a bene-relazionale, il cui valore è assegnato in proporzione al beneficio che l’uomo può trarne, ha informato il modo in cui il diritto ha concettualizzato e determinato le relative modalità di protezione, senza, tuttavia, considerare la natura asimmetrica del rapporto uomo-natura, per cui, solo l’una è essenziale alla sopravvivenza dell’altro, non viceversa3.
Dal momento che l’intero impianto normativo in materia ambientale poggia su una premessa sostanzialmente errata, è necessaria una vera e propria transizione ontologica che, come meglio si dirà in seguito, tenda verso una concezione biocentrica di sviluppo.
A questa necessità se ne affianca un’altra, differente seppur complementare, che riguarda l’approccio concreto con cui vengono affrontate le problematiche ambientali, trasversali ai più disparati settori produttivi. Tradizionalmente, Il legislatore ha imposto obiettivi e parametri da rispettare all’interno di un rigido corpus normativo, in una prospettiva ‘top down’ che si è dimostrata inadeguata a fronteggiare le sfide legate alla gestione e tutela delle risorse naturali.
Gli stakeholder hanno percepito le prescrizioni imposte “dall’alto” come limitazioni arbitrarie alla propria libertà di impresa, con l’effetto di accrescere il sentimento di sfiducia verso la narrativa della “sostenibilità”, la quale ha finito per essere aggirata attraverso il ricorso a pratiche di greenwashing o elusa a monte tramite la delocalizzazione degli impianti produttivi.
Come correttamente evidenziato, il diritto dell’ambiente si dimostra politicamente debole proprio nella misura in cui compete con altre aree del diritto “più potenti”, come il diritto proprietà individuale e i diritti di impresa4; tuttavia, adottando un approccio “bottom up”, che valorizza meccanismi di collaborazione tra la pubblica amministrazione e gli stakeholders, allineandosi a sistemi eco-sociopolitici del territorio, la normativa ambientale può assurgere a strumento di raccordo tra le esigenze contrapposte della tutela delle risorse e del progresso economico-sociale.
Ecco, quindi, che, se il concetto di sostenibilità deve essere epurato da ogni riferimento all’antropocentrismo, la gestione delle problematiche ambientali, al contrario, deve necessariamente essere orientata in senso antropocentrico, in modo da restituire centralità al contributo che la società civile può offrire, coerentemente con il principio solidaristico e di sussidiarietà.
- La dimensione biocentrica dello sviluppo sostenibile
Pur manifestando un’attenzione crescente per la protezione dell’ambiente, gli accordi internazionali stipulati a partire dalla seconda metà del XX secolo non hanno considerano i limiti ecologici allo sviluppo negli stessi termini suggeriti dalla comunità scientifica, e, in particolare, dal celebre “Limits to growth – Rapporto sui limiti dello sviluppo”, commissionato al MIT dal Club di Roma5. Mentre gli autori del testo, consacrati alla storia con l’appellativo “The prophets of doom” (profeti dell’apocalisse), avevano compreso l’importanza di intervenire tempestivamente sul modello economico-produttivo nel senso di arrestare lo sfrenato consumo di risorse anche a scapito degli interessi economici, la Conferenza delle Nazioni Unite, con la Dichiarazione di Stoccolma del 1972, aveva adottato un’impostazione differente, tesa ad integrare le esigenze di tutela ambientale in un’ottica strumentale al benessere umano.
Ivi si afferma chiaramente che un ecosistema sano è funzionale alla fruizione di un ambiente salubre per l’uomo, omettendo di considerare il problema del superamento dei confini planetari quale conseguenza necessaria del modello di sviluppo economico lineare.
Tale prospettiva, che, come si è anticipato, è cristallizzata nella nozione di sviluppo sostenibile fornita dalla Commissione Brutland nel 1987, è stata confermata da un altro cornerstone del diritto internazionale dell’ambiente, ossia la Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo del 1992, in cui si ribadisce che “al centro delle preoccupazioni” c’è l’uomo inteso come titolare del diritto del bene – ambiente, ma non anche gravato dal dovere di tutelarlo adeguatamente. In sostanza, all’uomo competerebbe l’esercizio di un controllo sulla natura, diretto a massimizzarne il benessere nel lungo periodo, e presidiare tale prerogativa sarebbe compito solennemente affidato all’attività regolativa dei singoli Stati, cui spetterebbe la sovranità sullo sfruttamento delle risorse “secondo le loro politiche ambientali e di sviluppo” nonché il potere/dovere di vigilare affinché “le attività sottoposte alla loro giurisdizione o al loro controllo non causino danni all’ambiente di altri Stati o di zone situate oltre i limiti della giurisdizione nazionale”6.
Neppure la Dichiarazione di Johannesburg del 2002 ha emancipato il concetto di sviluppo sostenibile dalla sua originaria formulazione antropocentrica, limitandosi a rivitalizzarne il contenuto con il rimando ad una serie di obiettivi associati alla sostenibilità7.
Allo stesso modo, gli obiettivi dell’Agenda 2030, come confermato dalla centralità che il concetto tradizionale di sviluppo sostenibile assume nel documento8, sono concentrati sul progresso ed il miglioramento della condizione umana, vera e unica “stella polare” degli SDGs. Ed infatti, tutti i “goals”, a partire dai primi – relativi alla lotta alla povertà ed alla fame -, fino agli ultimi – che si focalizzano sulla convivenza pacifica e sulla inclusione – pur ispirandosi a principi nobili e di auspicabile attuazione, trascurano il riferimento ai “limiti della terra” come necessario confine alle possibilità di sviluppo.
Nessuna delle fonti menzionate si spinge oltre il riconoscimento dell’interdipendenza tra uomo e ambiente prescindendo da interessi utilitaristici. In quest’ottica, il diritto internazionale dell’ambiente – o, almeno quello effettivamente recepito a livello programmatico dalle istituzioni macroregionali o statali9 – non è ancora giunto ad affermare l’esistenza di un vincolo di difesa dell’ambiente in termini di dovere di protezione delle sole interdipendenze ecologiche necessarie al mantenimento dell’integrità del sistema terra.
Il problema non va attenzionato unicamente da un punto di vista etico-ambientale ma considerato, soprattutto, nei suoi risvolti applicativi: è, infatti, innegabile che il mancato riconoscimento del bene-ambiente come bene-assoluto abbia influenzato le scelte del decisore politico nel corso degli anni, fino a compromettere l’effettività e la reale portata innovativa delle stesse.
Ciò emerge chiaramente nel Manifesto di Oslo per il diritto e la governance ecologica, lanciato dalla Ecological Law and Governance Association (ELGA) nell’ottobre 2017 presso l’Università di Siena, in cui si prende atto che gli obiettivi prefissati di riconquista della integrità e sostenibilità sono ben lontani dall’essere raggiunti.
Tra le cause della recente crisi ecologica, gli esperti della ELGA annoverano le dinamiche della crescita economica, dello sviluppo della popolazione, del consumo eccessivo ma anche il carattere antropocentrico, frammentato e riduzionista del diritto dell’ambiente per come, ad oggi, concepito10. Ed infatti, l’impianto giuridico-normativo vigente non è stato in grado di rivoluzionare il modello di sviluppo economico nel senso auspicato dalla comunità scientifica già a partire dagli anni Settanta, contribuendo a produrre un insostenibile “deficit ecologico”11 gravante non solo orizzontalmente sulla popolazione presente (si consideri, ad esempio, le transazioni tra i Paesi “creditori” in surplus ecologico e i Paesi “debitori” in disavanzo ecologico), ma anche sulle generazioni future12.
In altri termini, “l’economia del cowboy”, così definita da Kenneth Boulding per indicare il modello lineare, che sfrutta indiscriminatamente le risorse, ha finito per abbracciare le istanze sociali e ambientali “tingendosi di verde”, senza trasformarsi in quella che lo stesso autore chiamava “economia della navicella”, imperniata sul rispetto dei limiti planetari13.
- Il tramonto dell’approccio top-down alle politiche ambientali
Storicamente, l’approccio d’elezione per le politiche ambientali si è imperniato sull’ipernormazione e sulla compartimentalizzazione dei settori coinvolti.
Secondo un modello “top down”, la legislazione, tanto internazionale quanto nazionale, ha imposto obiettivi e stringenti parametri da rispettare all’interno di un compatto corpus normativo, relegando ad un ruolo subalterno e sussidiario le iniziative della società civile e le forme di partenariato pubblico-privato. Una simile prospettiva si è dimostrata miope e non idonea a fronteggiare i problemi connessi alla gestione e alla tutela delle risorse naturali; problemi che, non a caso, sono stati definiti “wicked” – di difficile risoluzione – per la mancanza di una definizione univoca e per la pluralità di attori coinvolti14.
L’esempio più emblematico di questa tendenza va rintracciato tra le fonti di diritto internazionale, precisamente nel Protocollo di Kyoto. Fin dal 1995, con la prima Conferenza delle Parti (COP1) e l’adozione del cosiddetto “Berlin Mandate” -il quale affidava ad un gruppo ad hoc la negoziazione di un accordo vincolante per ridurre le emissioni di gas climalteranti-, l’approccio d’elezione fu quello di stabilire obiettivi rigidi a livello internazionale, screditando l’altra strada, consistente nella determinazione a livello nazionale degli obblighi secondo il sistema delle “pledge and review” (impegni e revisioni).
Tali obiettivi riguardavano esclusivamente i “Paesi Sviluppati”, esonerando i Paesi “in Via di Sviluppo” sulla scorta del principio “responsabilità comuni ma differenziate”, teso a riequilibrare le responsabilità storiche dell’inquinamento ambientale.
Ad ogni modo, la rigidità dei target gravanti sui “Paesi Sviluppati” veniva stemperata dall’ampia flessibilità operativa concessa, da una parte, dalla libertà di scelta rispetto alle misure e le politiche da adottare a livello nazionale, e, dall’altra, dalla possibilità di utilizzare i cosiddetti “meccanismi flessibili” per raggiungere gli obiettivi stabiliti. Senza alcuna pretesa di approfondire oltre il contenuto del Protocollo, pare necessario parlare del suo “peccato originario”, che ne ha determinato il sostanziale fallimento.
Tra le ragioni del mancato raggiungimento dei target del Protocollo di Kyoto c’è, infatti, una matrice comune, da rintracciare nell’impianto top down che lo ha ispirato. Una prima, la più evidente, risiede nella mancata considerazione della discrepanza tra l’ambizione degli obiettivi e la realtà economica-industriale dei Paesi a cui sono rivolti, spesso incapaci di implementare misure efficaci a ridurre le emissioni di gas GHG.
Una seconda ragione, strettamente correlata alla prima, si sostanzia nella mancanza di compliance degli stakeholder, che, non essendo stati coinvolti nella fase genetica dell’accordo, lo hanno percepito come un limite alla libertà di impresa, da aggirare ricorrendo alla delocalizzazione dei propri siti industriali. Una terza, infine, sta nella pretesa, di cui si è fatto cenno in precedenza, di riequilibrare le responsabilità dell’inquinamento estromettendo le economie emergenti dal conseguimento degli obiettivi.
Una soluzione, forse, sarebbe potuta scaturire da una lettura più moderata del principio della “responsabilità comune ma differenziata”, nel senso di ribaltare completamente la prospettiva originaria, partendo non più dai concetti di responsabilità (dei Paesi ricchi) e reciprocità (nei confronti dei Paesi poveri), bensì da quelli di limite (dello sviluppo) e di opportunità (della cooperazione)15.
A partire dalla presa di coscienza del fallimento del Protocollo di Kyoto, la comunità internazionale, già dalla Conferenza di Copenaghen sul clima del 2009 (COP15), ha considerato l’implementazione di strategie bottom-up, valorizzando gli strumenti di governance multilivello (MLG). Tuttavia, è solo con l’Accordo di Parigi del 2015, che l’approccio decentrato e partecipativo nelle politiche ambientali trova un espresso riconoscimento: fin dal Preambolo, viene chiarito che l’obiettivo dell’Accordo è quello di “rispondere efficacemente e in maniera progressivamente crescente alla minaccia del cambiamento climatico sulla base della migliore conoscenza scientifica disponibile”.
A tal fine, non vengono fissati precisi target di riduzione delle emissioni, come avveniva nel Protocollo, ma si stabilisce solo un impegno a raggiungere il picco globale delle emissioni di gas serra “as soon as possible”16; questa finalità deve essere perseguita secondo il modello di “auto-differenziazione limitata”, che prevede l’impegno di tutti i Paesi ad intraprendere sforzi ambiziosi per raggiungere gli obiettivi di mitigazione, con l’obiettivo di aumentarli progressivamente.
Questa previsione rappresenta la base del nuovo modello di implementazione e decisione delle strategie di mitigazione, fondato sulla predisposizione di impegni volontari sottoscritti e comunicati attraverso gli INDC (Intended Nationally Determined Contributions), ossia dei target, auto-stabiliti, di riduzione delle emissioni sottoposti ad un processo vincolante di Misurazione, Rendicontazione e Verificazione (MRV) che teso a garantire compliance e accountability.
La preparazione, la comunicazione e il rispetto degli NDC riflette l’aspetto vincolante del trattato, il quale lascia, invece, libere le Parti di auto-definire l’entità del contributo di mitigazione e le modalità per perseguirlo. L’unico obbligo che ricade sui Paesi, da questo punto di vista, riguarda un aggiornamento quinquennale degli impegni, con l’aspettativa di una loro progressione17.
Al pari di quanto fatto con il Protocollo di Kyoto, non si intende, in questa sede, approfondire i meccanismi di funzionamento dell’Accordo di Parigi, per cui si rimanda ad altre fonti. È sufficiente evidenziare che il suo contenuto si pone in linea con la teoria dell’approccio policentrico formulata dal Premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom, il quale critica le politiche unitarie su scala globale – che difficilmente ottengono buoni risultati nella risoluzione dei problemi di azione collettiva in quanto inidonee a generare fiducia da parte dei cittadini e delle imprese – e predilige un approccio olistico, che considera i problemi ambientali su scala multipla e in maniera differenziata, restituendo centralità al governo del territorio e responsabilizzando le istituzioni vicine al cittadino18.
A questo punto, non resta che chiedersi se l’Accordo di Parigi e il cambio di paradigma proposto abbia prodotto effettivamente dei risultati o se, come sostenuto, sia stata “un’abile operazione di marketing climatico”19.
Ad avviso di chi scrive, l’Accordo di Parigi ha realizzato un’importante riforma del diritto internazionale in materia ambientale, anche considerando l’impatto prodotto negli accordi successivi; ad esempio, a partire dal Glasgow Climate Pact del 2021 (COP26), è stata ribadita a più riprese la centralità di azioni multilivello e multi-attore, con l’effetto di sollecitare le parti a rendere le strategie nazionali (NDCs) più ambiziose attraverso processi partecipativi per accelerare la transizione energetica.
Occorre prendere atto che i tempi non sono ancora, evidentemente, maturi per gestire problemi globali (come le esternalità negative ambientali) attraverso la creazione di istituzioni, altrettanto globali, che dispongano della capacità di produrre norme vincolanti, come pure -correttamente- auspicato20.
Pertanto, l’unica via al momento percorribile è quella del “multilateralismo”, che, sebbene sia un modello inadatto ad affrontare problemi di portata globale, può condurre una comunità di stati frammentata e diversificata dal punto di vista economico, politico e sociale a raggiungere gli obiettivi di mitigazione auspicati. Ciò sempre a condizione che non siano poste regole universali, calate dell’alto, con un approccio top-down ma che, attraverso una “spinta gentile” (c.d. “nudge”), tutti i livelli di governo, a partire dalla società civile, canalizzino il contributo del diritto internazionale verso azioni concrete21.
- Conclusioni
Sebbene il diritto internazionale rappresenti un pilastro indispensabile nella lotta ai cambiamenti climatici, affidarsi esclusivamente alla sua evoluzione rischia di condannare gli sforzi collettivi a una perenne attesa. Non deve sorprendere il dato, spesso contestato nel dibattito ambientale, che gli accordi internazionali si traducano in mere dichiarazioni di intenti: la multilateralità delle negoziazioni globali, le differenze economiche e sociali tra gli stati, le complesse dinamiche geopolitiche richiedono tempi spesso incompatibili con l’urgenza della crisi climatica e le soluzioni proposte, in assenza di un’istituzione globale che ne assicuri la concreta adozione, non possono che tradursi in mere esortazioni.
Solo gli stati, le amministrazioni locali e le comunità locali devono assumere un ruolo proattivo, agendo concretamente per tradurre gli obiettivi globali in azioni tangibili. È proprio l’auto-responsabilizzazione dei cittadini, sollecitata dai livelli di governo a loro più vicini, che può condurre ad una “rivoluzione copernicana” dell’approccio alle politiche ambientali.
In tal senso, il principio solidaristico e di sussidiarietà, diffusi nella gran parte delle Costituzioni degli Stati, pur presentando sfumature differenti, devono essere riscoperti ed adeguatamente valorizzati, in modo da dar vita ad un sistema di gestione delle problematiche ambientali che metta l’uomo al centro del dibattito.
Se questo “nuovo” antropocentrismo etico è auspicabile per affrontare le esternalità negative dello sviluppo economico lineare, il concetto di “sviluppo sostenibile” deve essere, come già ampliamente detto, svincolato da una visione antropocentrica strettamente utilitaristica, per preservare gli ecosistemi in quanto tali.
Queste due direzioni, contrarie ma convergenti, hanno la potenzialità di riscrivere l’assetto normativo vigente nel senso, da un lato, di massimizzare la tutela degli ecosistemi prescindendo dall’utilità che l’uomo può trarne e, dall’altro, di restituire centralità al singolo nella gestione del bene ambiente, non perché vanti qualsivoglia diritto verso lo stesso, ma in quanto titolare di un dovere di protezione che gli discende dall’essere, a tutti gli effetti, “una forza geologica in grado di manipolare la natura”22.
1 “Sustainable development is development that meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs”, UN, Report of the World Commission on Environment and Development Our Common Future, 1987, p. 37.
2 Sul punto v. MONTINI Massimiliano, VOLPE Francesca, Sustainable Development Goals: “molto rumore per nulla?”, in Rivista Giuridica dell’Ambiente, vol. XXX:3, 2015, p. 489.
3 Una simile riflessione è stata condotta da NATOLI Salvatore, “Il posto dell’uomo nel mondo. Ordine naturale, disordine umano”, Feltrinelli, Milano, 2022.
4 PIERRI Maurizia, Il limite antropocentrico dello sviluppo sostenibile nella prospettiva del personalismo costituzionale. Riflessioni a margine della riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione italiana, in Rivista Quadrimestrale di Diritto dell’Ambiente (ISSN 2239-964X), n. 2-2022, p. 255.
5 MEADOWS Donella H., MEADOWS Dennis L., RANDERS Jorgen, BEHRENS III William W., I limiti alla crescita, rapporto del System Dynamics Group Massachussetts Institute of Technology (MIT) per il progetto del club di Roma sulla difficile situazione dell’umanità, LuCe edizioni, Massa, 2018.
6 Principi n.ri. 1,2,3 della Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo interpretati alla luce di quanto sostenuto da YAMIN Farhana, Ethics, the environment and the changing international order, in International Affairs, 1995, 71(3), pp. da 529 a 534.
7 Come rilevato da PIERRI Maurizia op. cit., il pur encomiabile richiamo ad un necessario superamento della povertà (paragrafo 2) apparirebbe sostanzialmente allineato ai precedenti nel concentrare l’attenzione sui bisogni umani, per cui l’integrità del sistema Terra sarebbe riconosciuta come essenziale in quanto strumentale alla eradicazione della povertà e non come bene in sé.
8 Illustre dottrina internazionale – nella letteratura italianav. MONTINI Massimiliano, L’interazione tra gli SDGs ed il principio dello sviluppo sostenibile per l’attuazione del diritto internazionale dell’ambiente, in Federalismi.it (ISSN 1826-3534), 9/2019 – si è soffermata in modo critico sulla indeterminatezza del concetto di sviluppo sostenibile che, pur costituendo esplicitamente l’orizzonte finalistico dell’Agenda 2030, non trova al suo interno una definizione compiuta, restando fermo alle conclusioni della World Commission on Environment and Development, meglio nota come Commissione Brundtland.
9 Una prospettiva differente, che avrebbe potuto costituire un punto di riferimento etico, se non politico o addirittura giuridico, potrebbe essere rintracciata nella Carta della Terra, che sin dal preambolo sottolinea l’interdipendenza e la fragilità del mondo e di tutti gli esseri viventi e la responsabilità che grava sull’umanità nei confronti non solo delle future generazioni ma complessivamente verso la vasta comunità degli esseri viventi. Il contenuto del documento è vasto e profondo e abbraccia l’intero sistema pianeta, nella sua dimensione ecologica, sociale, etica, economica e politica ma ciò che qui preme sottolineare è il concetto di “responsabilità universale” che è coniugato alla umiltà riguardo al posto che occupa l’essere umano nello schema complessivo della natura.
10 Punto 4 del Manifesto di Oslo.
11 EUROPEAN ENVIRONMENT AGENCY, Ecological footprint of European countries, 2015: “il deficit ecologico […] si riferisce alla differenza tra la biocapacità e l’impronta ecologica di una regione o di un Paese. Un deficit ecologico si verifica quando l’impronta di una popolazione supera la biocapacità dell’area disponibile per quella popolazione. Al contrario, una riserva ecologica esiste quando la biocapacità di una regione supera l’impronta della sua popolazione”.
12 MONTEDURO Massimo, Le decisioni amministrative nell’era della recessione ecologica, in Rivista Associazione Italiana dei Costituzionalisti (AIC) (ISSN 2039-8298), 2018, n. 2-2018, pp. 7-8.
13 BOULDING Kenneth, The economics of the Coming Spaceship Earth, in H. Jarrett (editor), Environmental quality in a growing economy, Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1966, che, attraverso una suggestiva metafora, paragona l’economia lineare a quella dei cowboy americani, aperta e senza regole, dove le pianure sono immense, le risorse -apparentemente- illimitate e gli individui si caratterizzano per la condotta incosciente, violenta, predatoria. Contrariamente, l’economia del futuro dovrebbe ispirarsi ad una nave spaziale, per cui l’umanità sulla Terra è tenuta a comportarsi come un astronauta dentro una navicella, ove, per sopravvivere, deve garantire il moto perpetuo del ciclo ecologico di cui egli stesso fa parte.
14 Il termine wicked problems è stato usato per la prima volta nel 1967 da C. West Churchman, filosofo statunitense, in un editoriale scritto per la rivista Management Science.
15 NESPOR Stefano, Oltre Kyoto: il presente e il futuro degli accordi sul contenimento del cambiamento climatico, p. 795 e ss., 4, Il Mulino, Bologna, 2004.
16 “Il prima possibile” Art. 4, Accordo di Parigi.
17 BODANSKY Daniel et al., International Climate Change Law, Oxford University Press, Oxford, UK, 2017, pp. 231-232.
18 OSTROM Elinor, A Polycentric Approach for Coping with Climate Change, The World Bank Development Economics Office of the Senior Vice President and Chief Economist, October 2009.
19 OMPAN Emanuele, FERRARIS Sergio (a cura di), Il mondo dopo Parigi. L’accordo sul clima visto dall’Italia: prospettive, criticità e opportunità, Edizioni Ambiente, Milano, 2016.
20 LA SPINA Antonio, Postfazione: Per governare la globalizzazione servono istituzioni globali, in MAJONE, Gian Andrea, La Globalizzazione dei mercati: storia, teoria, istituzioni, Franco Angeli, Comunicazione Istituzioni Mutamento Sociale, Milano, 2004.
21 NESPOR Stefano, La lunga marcia per un accordo globale, in Rivista trimestrale di diritto pubblico (ISSN 0557-1464), n.1 – 2016, pp. 81-121.
22 GORE Al, Il mondo che viene. Sei sfide per il nostro futuro, Rizzoli, Milano, 2016, pp. 218, 387.
Domiziana Carloni