“…mi cercarono l’anima a forza di botte…”
Fabrizio De André
L’espressione “tortura” rievoca il concetto arcaico di una pratica coercitiva connotata da una pena corporale atroce. Una tradizione barbarica che sembra essere illusoriamente distante anni luce dai tempi odierni. Per molti, un anacronismo.
Tuttavia, ancora oggi sembra non esservi concreta fine a quella che potremmo definire un’interminabile strada universale, lastricata da episodi di torture. Una sorta di buco nero, un luogo dell’esecrabile che invoca umanità.
Non è possibile stabilire con certezza l’origine della tortura. Probabilmente si perde nella notte dei tempi…
Nell’antichità veniva esercitata sia come mezzo per ottenere valide testimonianze sia come modo di espiazione della pena.
Nel corso dei secoli sono stati ideati numerosi e sempre nuovi metodi di tortura, nel tentativo di renderla via via più tremenda ed efficace.
Nell’immaginario popolare, si considera ampiamente praticata nel Medioevo e, più nello specifico, nel periodo dell’Inquisizione. Di certo, i tribunali ecclesiastici medievali non contemplavano l’idea moderna di equo processo.
Il sistema accusatorio, di matrice romanistica[1], caratterizzato da un contraddittorio pubblico fra accusatore e accusato, a cui assiste il giudice e in cui l’onere probatorio è in capo all’accusatore, è soppiantato, nella struttura giudicante dell’Inquisizione, dal modello inquisitorio ove il giudice è anche accusatore.
Sulla scorta di una denuncia, anche generica, egli è tenuto ad un’istruttoria finalizzata a provare la colpevolezza dell’imputato, esperendo indagini segrete e presiedendo una tipologia di rito processuale in cui il pubblico non può assistere né è ammessa la presenza di un difensore.
Per addivenire alla condanna è sufficiente la testimonianza concorde di almeno due testimoni o la confessione dell’imputato, il quale resta custodito in carcere durante lo svolgimento del processo che, tra l’altro, non ha una durata predeterminata e si estrinseca mediante udienze che si celebrano a discrezione dello stesso giudice.
Ove la prova della colpevolezza non venga raggiunta e allo scopo di fugare dubbi o dissipare contraddizioni istruttorie, l’imputato è sottoposto a mezzi di costrizione fisica secondo la gradualità di efficacia che il giudice ritiene necessaria.
Ecco la tortura inflitta, con atroci modalità, ad eretici, colpevoli di blasfemia, streghe e stregoni, anche attraverso prove ordaliche.
In tale periodo storico, la tortura non è prevista nei confronti di vescovi, dottori, feudatari, soldati, nobili, donne in gravidanza, minori di 14 e maggiori di 70 anni. Tuttavia si tratta di prescrizioni disapplicate in presenza di determinati reati come i delitti contro lo Stato, la religione, o il sortilegio, la truffa, il veneficio, il falso.
La tortura, come preminente tecnica di ricerca della prova, in siffatto sistema processuale, presenta innegabili profili di criticità. Non di rado, le tribolazioni impartite al prigioniero generano una falsa testimonianza o una menzognera confessione, in merito a delitti non compiuti, con l’intento di porre fine ai trattamenti e alle sofferenze fisiche e mentali, che paradossalmente si rivelano un inutile criterio valutativo fondato sulla capacità di resistenza del prigioniero.
A tal proposito, si rammenti come Aristotele nella sua opera “Retorica” sosteneva che le persone sottoposte a tortura non sono esortate a raccontare più verità che menzogne, in quanto mentono senza difficoltà per abbreviare le proprie sofferenze.
Ricordiamo altresì come Cicerone, nella sua orazione “Pro Cluentio Avito”, smontava le accuse indirizzate al suo assistito, in quanto fondate tout court su una testimonianza estorta con mezzi violenti.
Nel mondo romano, l’individuo che riesce a resistere alla tortura deve essere assolto ipso facto: ciò sembra attribuire alla tortura giudiziaria un’indubbia ratio ordalica.
Rimettere la sentenza alla capacità di resistenza dell’imputato piuttosto che al convincimento del giudice denota una sorta di deresponsabilizzazione morale del giudice. In qualche misura, vige la regola privando l’autorità punitiva del pieno controllo sull’esito del processo. L’eventuale assoluzione, in tale ottica, non risponde al giusto secondo diritto, ma al giusto secondo natura, che il processo viola e che la ratio assolutoria (cioè ordalica) della tortura va a ripristinare, finendo per assumere una funzione di tipo latamente.
Non mancano, nella storia, casi di tortura con finalità extragiudiziaria.
Nell’Antica Siria, il re Antioco IV Epifane, che regnò dal 175 a.C. fino alla morte, utilizzava brutali metodi di tortura, la cui descrizione è contenuta nella Bibbia (Maccabei 2, cap. 7), al precipuo fine di sradicare l’ebraismo.
Un giorno il Sovrano convocò una madre ebrea e i suoi sette figli, chiedendo loro di mangiare carne di maiale, al fine di rinnegare la loro religione. Dopo il rifiuto della famiglia di obbedirgli, il tiranno fece torturare il più grande dei fratelli, adoperando pratiche mostruose quali la mutilazione di braccia e gambe, uccidendo poi il ragazzo gettato in una grande pentola e fatto morire sul fuoco.
Il sacrificio del più grande dei figli non risparmiò le atroci sorti degli altri fratelli e della madre: quest’ultima infatti venne frustata, seviziata e bruciata sul rogo.
Anche la Persia non fu esente dall’espletamento di tali atroci fonti di tribolazione per le finalità più disparate. La tortura persiana più nota è lo scafismo: all’interno di una barca la vittima veniva legata, poi ricoperta di miele o lasciata nei propri escrementi e torturata attraverso insetti i quali si riversavano sulla vittima causando una morte lenta e dolorosa.
Il ricorso alla tortura, particolarmente pregnante in alcune fasi storiche, è sempre stato seguito dalla critica delle menti più libere, che riconoscono la fallacia del metodo sotteso e la sua sostanziale inutilità nel raggiungimento della verità.
Ebbene, solo all’epoca dei Lumi, si assiste al passaggio dalla mera critica ad un orientamento di pensiero che trova le sue radici su solidi argomenti di filosofia giuridica e morale, i cui padri fondatori – in Italia – si suole rinvenire in Manzoni, Verri e Beccaria.
Quest’ultimo, con il suo spirito illuminista, si rende fautore di una incisiva critica contro il sistema giuridico penale del suo tempo.
In particolare, nella nota opera “Dei delitti e delle pene” (1764), prende le mosse da una concezione contrattualistica per contestare la fondatezza giuridica e sociale della tortura.
Con la conclusione del contratto sociale, ogni individuo ha rinunciato solo ad una minima parte della piena libertà goduta nello stato di natura e in questa minima parte non è compreso il diritto irrinunciabile, inalienabile, intangibile, alla propria vita, la cui tutela è proprio il principale obiettivo che gli uomini hanno inteso conseguire con il patto.
Alla luce di ciò, nessun governo – sorto dal detto patto – potrebbe arrogarsi la potestà di infliggere tanto la pena capitale quanto la tortura, violando così il patto medesimo da cui, in ultima analisi, esso stesso tare origine e legittimazione.
Beccaria espone poi, in relazione alla norma penale, il suo sostegno per il principio di legalità: legittimata a stabilire quali azioni umane debbano essere condannate come crimini è solo la legge del sovrano illuminato.
Il giudice, dal canto suo, deve limitarsi ad applicare la legge, accertando il fatto criminoso senza pregiudizi: l’utilità della confessione, al pari dello strumento utilizzato per ottenerla, ovvero la tortura, appare a Beccaria altresì priva di utilità e contraria ad ogni principio umanitario.
Invero, la lotta dell’Illuminismo contro la tortura può farsi risalire a una tradizione millenaria che, in un’ideale linea temporale dal citato Cicerone a Thomasius, condannava la tortura come modo di assolvere i robusti e condannare i deboli attraverso un rapporto diretto tra la verità e la resistenza al dolore.
Sul punto, è di grande impatto la critica di Beccaria a che “il dolore divenga il crogiuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti”.[2]
Breviter, dall’opera di Beccaria affiora che la tortura – a parte la componente disumana – è sostazialmente priva di utilità in quanto inidonea a scoprire la verità e per di più implica il colossale rischio di far condannare un debole innocente e di far assolvere un uomo robusto, colpevole, soltanto perché più resistente al dolore.
Di fatto, nel 1740 Federico II di Prussia e nel 1788 Luigi XVI di Francia sono tra i primi sovrani ad abolire la pratica della tortura nei rispettivi Stati.
Più di recente, Michel Foucault[3] fornisce una ulteriore considerazione: nella tortura è insito un paradosso. Il carnefice utilizza la violenza fisica come modo per annichilire la violenza altrui, e quindi opera anch’egli come agente di una violenza applicata alla violenza causata dal reato finendo per condividerne l’infamia con il criminale.
Dunque, inutile, inefficace, paradossale, eppure perdurante nei secoli e diffusa nei luoghi di tutto il pianeta.
Ma cos’è tortura?
Il termine deriva etimologicamente dal latino torquere, ossia l’atto del torcere: è possibile torcere, cioè tirare piegandoli, avvolgendo su loro stessi, rami, tralci, tessuti, ma anche membra umane.
La parola, adoperata in ambito medico per indicare il metodo attraverso il quale si rimediava alle slogature, per l’appunto torcendo le ossa, indica essenzialmente lo stiramento e la torsione del corpo.
Il passaggio dalla torsione medica alla tortura giudiziaria – lo abbiamo visto – non è parso metaforico: nel diritto è stata considerata uno strumento processuale di cui avvalersi per la ricerca della verità, un vero e proprio mezzo istruttorio.
Oggi lo si considera a tutti gli effetti un infame esercizio di particolari forme di violenza fisica e psichica, che correla tra loro due esseri umani, il torturatore e il torturato; una strategia di controllo e sopraffazione mirante a manipolare corpo e mente della vittima, coartandone la volontà e, dunque, mortificandone la dignità.
Proprio la dignità – calpestata e annientata dalle violenze che la deprimono ed umiliano – assume un ruolo determinante nella libertà di autodeterminazione dell’individuo.
Una chiara e concreta definizione di tortura come fattispecie penale è rinvenibile nell’art. 1 della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti delle Nazioni Unite, approvata il 10 dicembre del 1984: la tortura è un “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito”.
Nel nostro ordinamento, dopo un’inerzia durata trent’anni e numerosi richiami della CEDU, l’attenzione e la tutela alle vittime di tortura non è più rimasta meramente incastonata nelle opere dei massimi rappresentanti dell’Illuminismo italiano, nei dibattiti, o nei versi di ribellione dei poeti.
Con la Legge, 14 luglio 2017 n. 110 – all’esito di un sofferto iter parlamentare – è stato introdotto il reato di tortura (art. 613 bis c.p.), unitamente al reato di istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura (art. 613 ter c.p.).
La scelta del legislatore di prevedere all’art. 613 c.p. sia la “tortura comune” (comma primo), commessa da chiunque, sia la “tortura di Stato” (comma due), in cui il soggetto attivo riveste una qualifica pubblica, nasce anche dall’esigenza di adempiere all’obbligo derivante dalla ratifica della citata Convenzione ONU del 1984 che, all’art. 4, impone agli Stati aderenti, un concreto obbligo di criminalizzazione degli atti di tortura con sanzioni adeguate.
È opportuno precisare che la Corte EDU si è espressa, dapprima nel 2015 (caso Cestaro contro Italia) e, successivamente, nel 2017 (Gallo e altri contro Italia), condannando lo Stato italiano per la violazione degli obblighi sostanziali e procedurali derivanti dall’art. 3 CEDU, censurando l’intollerabile assenza di una fattispecie di reato ad hoc, idonea a sanzionare ogni atto di tortura, nonché l’assenza della fase di indagine e di accertamento concernente le responsabilità penali dei soggetti coinvolti.
Tra l’altro, l’obbligo di incriminazione delle pratiche di tortura trova la sua fonte, nel nostro ordinamento interno, all’art. 13, comma 4, Costituzione, secondo cui “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.
Fino all’entrata in vigore della Legge n. 110/2017, la tortura era oggetto di repressione penale in quanto crimine di guerra (ai sensi dell’art. 185-bis del codice penale militare di guerra) ed entro i suoi limitati ambiti applicativi, con la conseguenza che, a seguito delle note vicende del G8 di Genova, lo Stato italiano era stato condannato numerose volte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per l’inaccettabile lacuna normativa.
La sedes materiae nella quale il reato di tortura è stato previsto è quello relativo al vasto genus dei delitti contro la persona (Titolo XII del libro II), tra i delitti contro la libertà individuale (capo III) e, più nello specifico, in chiusura della sezione relativa ai delitti contro la libertà morale (sezione III), indicando quale specifico bene giuridico tutelato la cosiddetta libertà morale o psichica da interferenze esterne, ovvero come libertà di autodeterminazione.
Secondo un’interpretazione estensiva relativa alla collocazione sistematica dell’art. 613-bis c.p. – norma che incentra il suo disvalore nelle “acute sofferenze fisiche” o in un “verificabile trauma psichico” – sarebbe pacifico affermare che la disposizione de qua tuteli non tanto la libertà morale quanto l’incolumità individuale, da intendersi come libertà della propria integrità fisica e psichica , facendo leva quindi su una lesione più grave rispetto alla limitazione della libertà di autodeterminazione: ovvero sulla sofferenza inferta alla vittima.
A supporto di tale considerazione, la Suprema Corte di Cassazione, Sez. Pen. III, nella sentenza n. 32380/2021, ha puntualizzato che, se la collocazione sistematica “induce a ritenere che l’oggettività giuridica criminosa ‘generica’ debba identificarsi nella tutela della c.d. libertà morale o psichica della persona, intesa come diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni fisiche e psichiche”, deve tuttavia considerarsi che “l’oggettività giuridica criminosa ‘specifica’, ossia il bene giuridico tutelato dall’incriminazione, ha un contenuto più pregnante […] il contenuto preciso dell’offesa penalmente rilevante sta nella lesione della ‘dignità umana’”.
Sul punto, un’altra parte della giurisprudenza della Corte di Cassazione, Sez. Pen. V, nella decisione n. 47079/2019, ha ritenuto che nella “libertà morale o psichica, comunemente intesa come diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente” risiede il bene giuridico tutelato dalla norma.
Il primo comma del reato in esame risulta essere un reato comune, in quanto realizzabile da “chiunque”. Invero com’è stato sottolineato da parte della dottrina “la tortura non è appannaggio esclusivo dei pubblici ufficiali”.[4]
La stessa giurisprudenza di legittimità ha mostrato come casi di tortura si verifichino nell’ambito privato giustificando la presenza del primo comma dell’art. 613-bis c.p., da un lato sulla scorta “dell’esperienza proveniente dalla realtà criminologica che dimostra come la tortura possa assumere anche una dimensione inter-privatistica”, e dall’altro poiché “coerente con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che interpreta il divieto di tortura di cui all’articolo 3 CEDU come riferito a tutti i soggetti dell’ordinamento, pubblici o privati che siano” (Cass., Sez. Pen. V, sentenza n. 47079/2019).
Tuttavia, appare fuorviante la lettera della disposizione, nella parte in cui si richiede che il soggetto passivo sia affidato alla “custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza” del reo.
Dunque, la norma in esame evidentemente restringe il novero dei soggetti attivi, imponendo così l’accertamento della sussistenza di un rapporto qualificato che implichi certi obblighi di tutela a carico del reo nei confronti della vittima.
Il secondo comma dell’art. 613-bis c.p., tutela beni anche di natura ultraindividuale quale il buon andamento della pubblica amministrazione posto che, in tale ipotesi, il reato è commesso da un agente che riveste una qualifica pubblica.
Sorge, a tal proposito, un quesito relativo alla natura giuridica del secondo comma della norma de qua: l’ipotesi, in cui il reato sia perpetrato da un soggetto che possieda una qualifica pubblica, integra una circostanza aggravante o un’autonoma fattispecie di reato?
Sul punto il legislatore nulla ha specificato, dando così adito ad una vexata quaestio.
Prima facie, tanto il rinvio espresso relativo alla descrizione della condotta al primo comma, quanto la collocazione nello stesso articolo della tortura comune e della qualifica soggettiva e la realizzazione della condotta mediante abuso di poteri e di qualifica, quali elementi specializzanti, porterebbe a propendere per la natura circostanziale.
Tuttavia, parte della dottrina tende a qualificare il secodo comma dell’art. 613-bis c.p. come una fattispecie autonoma di reato.[5]
A favore di tale tesi si sostiene: in primis, che il terzo comma – nel disporre che “il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti” – escluderebbe la natura circostanziale del secondo comma[6]; in secundis, chela circostanza aggravante di cui al quarto comma dell’art. 613-bis, nel prendere in considerazione l’ipotesi in cui dalla tortura derivino lesioni personali di differente gravità, stabilisce che i rispettivi aumenti di pena debbano essere computati tenendo conto del trattamento sanzionatorio “di cui ai commi precedenti”, quindi anche del secondo comma. Tale considerazione costituirebbe un inammissibile assurdo logico: invero, se il comma due configurasse un’aggravante, il quarto comma dovrebbe a sua volta qualificarsi come una “aggravante di un’aggravante”.[7]
Quando il reato di tortura può dirsi integrato?
È necessario che il soggetto agente ponga in essere una pluralità di condotte che si sostanziano nelle violenze, nelle minacce gravi o nell’agire con crudeltà, ma se queste ultime comportano un trattamento inumano e degradante può esserne sufficiente una sola.
Invero, secondo la Suprema Corte di Cassazione, nella pronuncia n. 47079/ 2019, ha ritenuto integrato il reato anche laddove la tortura sia stata determinata da un unico atto lesivo che comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
La Corte, allineandosi ad un filone giurisprudenziale consolidato, ha ribadito altresì che, ai fini dell’integrazione del primo comma dell’art. 613 bis c.p., la locuzione “mediante più condotte” non va riferita soltanto ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico (Cass., Sez. Pen. V, n. 36970/2023).
Il criterio della pluralità delle violenze o minacce consente di qualificare la tortura, qualora sia posta in essere con tali modalità, come reato eventualmente abituale, peraltro improprio, dato che le condotte di violenza e minaccia costituiscono di per sé reato.
Quindi le violenze o le minacce devono essere “gravi”; in alternativa, il reato in esame può essere commesso “agendo con crudeltà” (quest’ultima, a differenza delle condotte alternative di violenze o minacce, non presuppone una reiterazione).
Cosa vuol dire “agire con crudeltà”?
Sul concetto di crudeltà, annoverato nell’ambito delle circostanze aggravanti ex art. 61 n. 4 c.p., si è espressa la Suprema Corte, a Sezioni Unite, che, con sentenza n. 40516/2016, ha espresso il principio secondo cui la stessa aggravante dell’avere agito con “crudeltà” viene definita come circostanza “di natura soggettiva [ …] caratterizzata da una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole, che deve essere oggetto di accertamento alla stregua delle modalità della condotta e di tutte le circostanze del caso concreto, comprese quelle afferenti alle note impulsive del dolo”.
Pertanto, condizione essenziale è che l’azione crudele si sostanzi in una condotta eccedente rispetto all’eziologia tipica del reato e, più nello specifico, in “acute sofferenze fisiche” (inteso quale dolore fisico particolarmente intenso) o “verificabile trauma psichico”.
Relativamente a tale ultimo aspetto, è bene soffermarsi sul più ristretto concetto di “verificabile trauma psichico”, posto che l’integrità mentale è tutelata in modo meno pregnante rispetto alle “acute sofferenze fisiche”, come tali oggettivamente riscontrabili.
Invero, questo sbilanciamento di tutela che sussiste tra i due eventi alternativi, sembrerebbe condurre all’esclusione delle tecniche di tortura odierne, spesso connotate dalla generazione di stati intensi di panico, di ansia, di shock post traumatico difficilmente verificabili medicalmente, se non con esami medici scientifici.
Cosa si intende con “verificabile”?
In tema di tortura, il “trauma psichico verificabile“, così come codificato ex art. 613-bis c.p., non deve necessariamente tradursi in una sindrome duratura da “trauma psichico strutturato” (PTSD) e può consistere anche in una condizione critica temporanea che risulti, per le sue caratteristiche, non integrabile nel pregresso sistema psichico della vittima, sì da minacciarne la coesione mentale.
Di tale condizione la norma richiede l’oggettiva riscontrabilità, che non esige necessariamente l’accertamento peritale, né l’inquadramento in categorie nosografiche predefinite, potendo assumere rilievo anche gli elementi sintomatici ricavabili dalle dichiarazioni della vittima, dal suo comportamento successivo alla condotta dell’agente e dalle concrete modalità di quest’ultima (Cass., Sez. Pen. V, n. 47079/2019).
Vieppiù. L’aggettivo “verificabile” è stato oggetto di forte perplessità – da parte della Commissione Costituzionale e del Commissario per i Diritti Umani – già nel corso dell’iter parlamentare che ha condotto all’approvazione dell’art. 613-bis c.p..
Lo scetticismo che ruotava intorno alla portata del termine “verificabile” trovava affine anche il pensiero dei primi commentatori, i quali temevano che l’aggettivo in questione potesse essere inteso nel senso di imporre un accertamento del trauma psichico di natura tecnica da espletarsi tramite apposita perizia.[8]
Proprio in riferimento al “trauma psichico”, ci si potrebbe chiedere se la tortura psicologica sia così devastante da essere in grado di infliggere un danno finanche più duraturo della violenza fisica.
A tal proposito, lo psicoterapeuta Otto Dörr Zegers mise in luce come le vittime di tortura soffrano di “una mancanza di fiducia che sconfina con la paranoia e di una perdita di interesse che supera di molto ciò che si osserva nei disturbi ansiosi”. Il soggetto “rimane un essere umano stanco, relativamente disinteressato ed incapace di concentrarsi”.[9]
E quando sussiste la minorata difesa?
La condizione di minorata difesa è elevata dall’art 613-bis da circostanza aggravante comune (art. 61, n. 5 c.p.) ad elemento costitutivo del reato che viene posto in chiusura di un elenco di situazioni che, al contrario, presuppongono l’esistenza di un rapporto qualificato tra il soggetto attivo ed il soggetto passivo (“una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”).
La citata sentenza n. 47079/19 si è occupata anche della “minorata difesa”, ritenendola sussistente “ogni qualvolta la resistenza della vittima alla condotta dell’agente sia ostacolata da particolari fattori ambientali, temporali o personali”.
Stando alla terminologia comune, il concetto di sofferenze fisiche viene automaticamente accostato a quello di lesioni.
Sorge spontaneo dunque porsi il quesito: la nozione di “acute sofferenze fisiche” coincide con quella di “lesioni”?
Secondo un’interpretazione letterale dell’art. 613 bis c.p.le “acute sofferenze fisiche” provocate alla vittima non coincidono con la nozione di lesioni.
Invero, precisamente al quarto comma,troviamo la causazione di lesioni come circostanza aggravante (o come reato aggravato dall’evento, secondo quanto affermato dalla Suprema Corte nella sentenza 1243/2024) e dunque contemplano una sequenza di patimenti che non realizzano malattia ma appunto sofferenza.
Ed ancora, in ordine alla locuzione in parola, la Cassazione, deliberando la pronuncia n. 50208/2019, ha espressamente ritenuto che non sia necessario che la vittima abbia subito lesioni ai fini della configurazione del reato de quo.
Alla luce di quanto enunciato sul concetto di “acute sofferenze fisiche”, si rammentano – al fine di rendere palpabile la crudeltà di un simile martirio – le strazianti parole pronunciate da Paola Deffendi, madre di Giulio Regeni, il ricercatore friulano scomparso al Cairo il 25 gennaio 2016, il cui corpo esamine venne ritrovato martoriato per strada 9 giorni dopo.
Così la signora Regeni, nel corso di una conferenza stampa tenutasi il 29 marzo 2016 nella Sala Caduti di Nassiriya del Senato della Repubblica, descrive i tratti del volto di suo figlio all’obitorio:
“…il suo volto, come ci è stato restituito dall’Egitto, prima così bello, aperto, era diventato piccolo piccolo piccolo, che io e Claudio abbiamo baciato e accarezzato. Non vi dico cosa hanno fatto su quel viso. Su quel viso, ho detto, qui tutto il male del mondo si è riversato su di lui. Quando siamo andati in obitorio a Roma, perché in Egitto ci hanno detto che era meglio non vederlo, abbiamo trovato il coraggio di guardarlo in viso dopo tutto quello che ha subìto. L’unica cosa che ho detto a Claudio è stata: sì, è lui, lo riconosco dalla punta del naso. Per il resto non era più il nostro Giulio”.
È così che, attraverso le parole di questa madre, sembra di vedere davanti agli occhi la pietà di Käthe Kollwitz, nella sua scultura raffigurante lo strazio di una madre che piange il figlio morto.
Oggi, qual è il fine ultimo della tortura?
La tortura, nei tempi odierni, non ha più tanto il fine del raggiungimento della verità, della raccolta di informazioni o, tantomeno, dell’ottenimento di una confessione.
Appare lampante come la sua attuale ragione d’essere non risieda in una dimensione processuale, ancillare all’istruttoria, ma quanto in una connotazione eminentemente punitiva.
E allora, la risposta alla domanda è probabilmente rinvenibile nell’estrinsecazione di un abuso di potere al cospetto del quale il torturato è vittima dell’annientamento della sua stessa identità attraverso uno stato di soggezione che ne annichilisce la soggettività stessa.
Del resto, è la stessa la Convenzione ONU del 1984 tende a configurare la tortura come un vero e proprio abuso di potere. Ciò è desumibile ove stabilisce che si ha tortura “qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il consenso espresso o tacito”.
Anche tale circostanza, esorta a riflettere sulla considerazione della tortura come “reato proprio”.
L’uso della tortura accompagna da millenni l’umanità e tale reato, previsto dal nostro codice penale con la sua formulazione contraddittoria, non consente di annientare la sopraffazione – aspetto pregnante della tortura – spesso perpetrata dall’autorità pubblica nei confronti di persone detenute o comunque in stato di soggezione rispetto ai medesimi poteri pubblici che non agiscono nel rispetto della legge.
Solo recentemente l’ennesimo caso di torture avvenuto presso l’Istituto di pena Pietro Cerulli di Trapani da parte degli agenti penitenziari, ignari di essere ripresi dalle microspie collocate al fine di dare risposte all’indagine in corso.
Nel famigerato “reparto blu”, descritto come un girone infernale dantesco, una ventina di detenuti sia italiani che stranieri, descritti dal Procuratore della Repubblica di Trapani, dott. Gabriele Paci, come “detenuti fragili per le loro condizioni psicofisiche, psichiatriche, persone vulnerabili…venivano fatti spogliare, colpiti con lanci di acqua e urina. Senza aver fatto nulla venivano malmenati…violenze gratuite e sproporzionate sono state messe in atto”.
Così in conferenza stampa il Procuratore Paci ha espressamente indicato il reparto in parola come una sorta di “lager”, “una zona franca dove tutto quello che di peggio si poteva fare veniva fatto”.
In conclusione, sulla scorta di quanto fin qui esposto, si vuole concludere con i suggestivi versi della poetessa polacca Wislawa Szymborska la quale, con la sua poesia Tortüre, dona forse la definizione più esatta e spietata di tortura, tanto da riuscire a far sentire le ferite inferte sulla pelle e la flagellazione dell’anima:
“Nulla è cambiato. Il corpo prova dolore, deve mangiare e respirare e dormire, ha la pelle sottile, e subito sotto – sangue, ha una buona scorta di denti e di unghie, le ossa fragili, le giunture stirabili. Nelle torture di tutto ciò si tiene conto. Nulla è cambiato. Il corpo trema, come tremava prima e dopo la fondazione di Roma, nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo, le torture c’erano e ci sono, solo la Terra è più piccola e qualunque cosa accada, è come dietro la porta.
Nulla è cambiato. C’è soltanto più gente, alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove, reali, fittizie, temporanee e inesistenti, ma il grido con cui il corpo ne risponde era, è e sarà un grido di innocenza, secondo un registro e una scala eterni.
Nulla è cambiato. Tranne forse i modi, le cerimonie, le danze. Il gesto delle mani che proteggono il capo è rimasto però lo stesso, il corpo si torce, si dimena e si divincola, fiaccato cade, raggomitola le ginocchia, illividisce, si gonfia, sbava e sanguina. Nulla è cambiato. Tranne il corso dei fiumi, la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai. Tra questi paesaggi l’anima vaga, sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana, a sé stessa estranea, inafferrabile, ora certa, ora incerta della propria esistenza, mentre il corpo c’è, e c’è, e c’è e non trova riparo”.
È vero, accostare la parola tortura, col suo pesante fardello di obbrobrio e crudeltà, alla parola poesia, evocativa per antonomasia di bellezza e sensibilità, sembra suggerire un inaccettabile paradosso, eppure questi struggenti versi permettono di evocare suggestive e mostruose immagini che restituiscono l’intima essenza della tortura e la sua cruda disgustosa disumanità.
[1] Nel diritto romano, la più antica procedura delle quaestiones era di tipo accusatorio: spettava cioè al privato cittadino avviare il processo, presentare il libellus inscriptionis con l’indicazione del nome dell’accusato e del capo d’imputazione, svolgere le indagini, fornire le prove e sostenere le proprie tesi accusatorie. Secondo una consolidata revisione storiografica, profili sempre più marcati di processo inquisitorio sarebbero rinvenibili nella cognitio extra ordinem, la procedura più elastica affermatasi in età augustea e poi sviluppatasi nel basso impero fin quasi a soppiantare l’ordo iudiciorum.
[2] BECCARIA Cesare, Dei delitti e delle pene, Roma, p. 48.
[3] FOUCAULT Michel, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976.
[4] VIGANÒ Francesco, Sui progetti di introduzione del delitto di tortura in discussione presso la Camera dei Deputati, Parere reso nel corso dell’audizione svoltasi presso la Commissione giustizia della Camera dei Deputati il 24 settembre 2014, Camera dei deputati, Resoconto stenografico – Indagine conoscitiva, p. 6.
[5] LOBBA Paolo, Obblighi internazionali e nuovi confini della nozione di tortrura, in Diritto Penale Contemporaneo (ISSN 2240-7618), 16 aprile 2019.
[6] COSTANTINI Anna, Il nuovo delitto di tortura (art. 613-bis c.p.), in Studium Iuris (ISSN 1722-8387), n. 1, Pacini Editore, Pisa, 2018, p. 12.
[7] VIGANÒ Francesco, cit., p. 5.
[8] PREZIOSI Stefano, Il delitto di tortura fra codice e diritto sovranazionale, in Cassazione Penale (ISSN 1125-856X), n. 4, 1 aprile 2019, p. 1766.
[9] McCOY Alfred W., Una questione di tortura, Ed. Socrates, Roma, 2008.
Federica Corso