Sommario
Introduzione
Nel panorama costituzionale italiano, una questione centrale è quella dei diritti sociali[1], che rappresentano il cuore pulsante della democrazia sostanziale.
Tuttavia, nonostante le previsioni della nostra Costituzione, il dibattito sull’effettiva attuazione di questi diritti è oggi più vivo che mai, complicato da crisi economiche, trasformazioni sociali e cambiamenti nel mondo del lavoro.
Perché, se è vero che la Costituzione italiana disegna uno Stato democratico che mira all’uguaglianza sostanziale, resta da chiedersi: quanto questa aspirazione sia davvero diventata realtà?
La risposta, come spesso accade in ambito costituzionale, è complessa e sfumata.
La riflessione sui diritti sociali va inevitabilmente ricondotta ai nostri padri costituenti, i quali attribuirono un ruolo determinante ai diritti sociali quali strumenti per promuovere la liberazione della persona umana da ogni forma di bisogno.
Come sancito nei principi fondamentali della nostra Costituzione, la tutela dei diritti sociali non condiziona soltanto il grado di democraticità del nostro ordinamento, ma incide sulla stessa essenza democratica della Repubblica.
In tale contesto, il modello di democrazia delineato dalla nostra Carta non si limita a garantire la partecipazione politica, ma si estende alla sfera economica e sociale, in una visione complessa e interdipendente della cittadinanza.
L’articolo 38 della Costituzione italiana[2], al primo e secondo comma, recita che “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.
I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
Sebbene sembri un principio semplice, invero nasconde un universo di tensioni, problemi e sfide che riflettono la vera natura dello Stato sociale in Italia.
Per comprendere appieno come la nostra Costituzione concepisca i diritti sociali, è fondamentale considerare l’idea di Stato che emerge dai suoi primi articoli.
Il secondo comma dell’articolo 3[3] funge da chiave di volta: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Questo richiamo all’uguaglianza sostanziale rappresenta l’anima della Costituzione, non limitandosi a un riconoscimento formale dei diritti, ma impegnandosi concretamente a garantire a tutti i cittadini le condizioni materiali per esercitarli.
Diritto al lavoro e sicurezza sociale: un’utopia realizzata?
L’articolo 38 della Costituzione, assieme ai principi sanciti dagli articoli 2 e 3, costituisce una delle basi dello Stato sociale italiano, un concetto che affonda le sue radici nelle profonde trasformazioni politiche ed economiche dell’Europa del secondo dopoguerra.
Tuttavia, già dagli anni cinquanta e sessanta del Novecento, studiosi come Gino Giugni e Giuseppe Dossetti avvertivano che la mera affermazione di diritti sociali nella Costituzione non fosse sufficiente.
La loro effettività dipendeva da come questi diritti sarebbero stati concretamente garantiti tramite leggi e politiche pubbliche.
La questione della previdenza sociale[4] – componente fondamentale della cosiddetta sicurezza sociale[5] mirata a proteggere lavoratori e famiglie dai rischi legati all’impossibilità di lavorare coprendo situazioni come la disoccupazione, le malattie, le disabilità e la pensione – ha assunto nel tempo connotazioni sempre più complesse.
Con il passare degli anni, il sistema pensionistico e di welfare è diventato un campo di battaglia politico, specialmente durante le crisi economiche.
Un esempio recente di intervento in materia di diritti sociali, che ha rappresentato una risposta parziale alla crescente disuguaglianza, è l’introduzione del Reddito di Cittadinanza[6] – di seguito RDC -, una misura pensata per garantire un sostegno economico a chi si trova in condizioni di povertà o disoccupazione.
Questa misura, introdotta nel 2019, ha suscitato un ampio dibattito sulla sua efficacia e sostenibilità.
Da un lato, i sostenitori del RDC lo considerano una concretizzazione dei principi sanciti dall’articolo 38 della Costituzione, che riconosce il diritto all’assistenza sociale per chi non è in grado di lavorare. Dall’altro, i suoi detrattori sostengono che si tratti di una misura temporanea, incapace di risolvere i problemi strutturali del mercato del lavoro italiano.
Però non è soltanto una questione economica: la Corte Costituzionale, in diverse sentenze, ha riaffermato l’importanza della tutela dei diritti sociali anche in periodi di crisi.
Nella celebre sentenza n. 70 del 2015[7], la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 24, comma 25, del decreto-legge n. 201 del 2011 (il decreto “Salva Italia”), che aveva sospeso l’adeguamento automatico delle pensioni di valore superiore a tre volte il minimo I.N.P.S. per il biennio 2012-2013.
In quella occasione, la Corte ha ribadito che, nonostante i vincoli di bilancio, il diritto alla sicurezza sociale non può essere sacrificato in modo eccessivo e sproporzionato, trasmettendo dunque un messaggio chiaro: la crisi economica non giustifica la violazione indiscriminata dei diritti fondamentali.
Diritti sociali e bilancio: un equilibrio precario
L’Italia, come gran parte dell’Europa, ha affrontato una lunga stagione di austerità economica che ha sollevato nuove domande su come mantenere un equilibrio tra i diritti sociali e le esigenze di bilancio.
È vero che una gestione oculata delle finanze pubbliche è necessaria, ma non può avvenire a scapito dei principi di solidarietà e giustizia sociale.
Tuttavia, la tensione persiste.
Il rischio è che i diritti sociali diventino una specie di diritti deboli subordinati alla capacità dello Stato di finanziare il sistema di welfare.
In un’epoca in cui il debito pubblico e la stabilità finanziaria dominano il dibattito politico, ci si interroga su come garantire il rispetto dei diritti sociali.
Le nuove sfide dello stato sociale
Il modello di Stato sociale italiano, nato per rispondere alle esigenze di una società industriale, si trova oggi ad affrontare sfide inedite.
Il lavoro precario, la gig economy – cioè il sistema economico fondato su impieghi intermittenti, temporanei e su richiesta, anziché su occupazioni stabili e durature, generalmente accompagnate da maggiori tutele contrattuali – e l’automazione stanno erodendo le basi su cui si è costruito il sistema di welfare tradizionale.
In questo contesto, molti giuristi, tra cui Maurizio Ferrera – professore ordinario di Scienze politiche presso l’Università degli Studi di Milano -, hanno suggerito la necessità di un “nuovo patto sociale” capace di adattarsi a un mondo del lavoro in rapido mutamento[8].
La recente introduzione del salario minimo in vari paesi europei rappresenta un tentativo di rispondere a queste nuove sfide.
Tuttavia, in Italia, la questione è ancora oggetto di dibattiti politici e sociali accesi. Ci si domanda se il salario minimo possa realmente costituire una risposta adeguata o se rischi di essere un palliativo temporaneo.
Conclusioni: uno stato sociale per il XXI secolo
Alla luce di queste considerazioni, appare chiaro che il percorso verso una piena realizzazione dei diritti sociali in Italia sia tutt’altro che concluso.
Se da un lato la Costituzione ha posto le basi per uno Stato sociale solido e inclusivo, dall’altro le sfide attuali ci spingono a riconsiderare come tali diritti possano essere garantiti in un contesto economico e sociale radicalmente diverso rispetto al 1948.
La domanda che rimane è: siamo davvero pronti a ridefinire il nostro modello di welfare per adattarlo alle esigenze del XXI secolo, senza perdere di vista i principi fondamentali di uguaglianza e solidarietà su cui si fonda la nostra Costituzione? La risposta, come sempre, dipenderà dalla volontà politica e dalla capacità di bilanciare diritti e risorse, oltre che dalla capacità della società civile di far sentire la propria voce in difesa dei principi sanciti dai Padri Costituenti.
[1] l diritti sociali sono definiti come “i diritti dei cittadini a ricevere determinate “prestazioni” dagli apparati pubblici: sono i diritti caratteristici dello ‘Stato sociale’ (…) Non v’è dubbio che i diritti sociali siano espressi in Costituzione come programmi la cui attuazione è rinviata alla attività successiva degli organi pubblici”. BIN Roberto – PITRUZZELLA Giovanni, Diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2013, pagg. 509-510.
Si veda anche Pietro Scoppola, il quale evidenzia il rapporto tra diritti sociali e democrazia, affermando che “la democrazia italiana, nell’immagine che ne ha offerto la Costituzione, si inserisce nella grande tradizione democratica europea e americana nella quale la democrazia stessa non è strumento per raggiungere un obiettivo predeterminato una volta per tutte, un modello predefinito di ordine sociale, ma un processo aperto per la verifica di spazi, via via possibili, di dignità e liberazione dell’uomo. E in questo contesto… i diritti sociali si saldano pienamente con la democrazia: i diritti sociali affermati nella nostra Costituzione sono il necessario sviluppo dei diritti civili e politici e non possono essere disgiunti da essi”. SCOPPOLA Pietro, La Costituzione italiana tra democrazia e diritti sociali, pagg. 125-140, in Cinquant’anni di Repubblica italiana a cura di Guido Neppi Modona, Einaudi, Torino, 1996.
[2] Costituzione della Repubblica Italiana, art. 38. disponibile su Normattiva.it.
[3] Costituzione della Repubblica Italiana, art. 3. disponibile su Normattiva.it.
[4] Occorre sottolineare che la previdenza sociale iniziò a prendere forma in Italia nella seconda metà del XIX secolo ed era inizialmente riservata ai dipendenti pubblici; con il tempo, durante il primo decennio del XX secolo, la copertura si espanse a specifiche categorie professionali, come i lavoratori ferroviari e quelli impiegati nei cantieri navali. Un cambiamento significativo, in seguito, avvenne nel 1919 quando un decreto estese le assicurazioni contro invalidità e pensionamento a tutti i lavoratori del settore privato. Negli anni tra il 1957 e il 1966, la protezione previdenziale si ampliò ulteriormente, includendo anche i liberi professionisti, come agricoltori, artigiani e commercianti.
Sul tema si veda inoltre l’articolo Previdenza Sociale, di Onorato Castellino, in Enciclopedia delle scienze sociali Supplemento I , Treccani, Roma, 1998.
[5] La vasta produzione giuridica e sociologica sull’argomento offre diverse prospettive teoriche. Un’analisi dettagliata delle principali teorie si trova in particolare in V. SIMI, Il pluralismo previdenziale secondo Costituzione, Milano, p. 18 ss.
[6] È un sussidio economico di integrazione del reddito volta ad aiutare chi si trova momentaneamente in difficoltà economica. Tale misura è prevista dalla Legge di bilancio per il 2019 (Legge, 30 dicembre 2018, n. 145) ed è disciplinata dal Decreto-Legge, 28 gennaio 2019, n. 4, recante Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni. In tale decreto tale prestazione economica è definita come “misura unica di contrasto alla povertà alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, a garanzia del diritto al lavoro, della libera scelta del lavoro”
Successivamente, durante la XIX legislatura, sotto il governo Meloni, la Legge di bilancio per il 2023 (Legge, 29 dicembre 2022, n. 197) prevedeva, all’articolo 1, comma 318, che dal 1º settembre 2023 il reddito di cittadinanza sarebbe stato limitato alle famiglie con membri disabili o over 60, con l’abolizione completa prevista a partire dal 1º gennaio 2024.
[7] Sentenza della Corte costituzionale n. 70/2015, pubblicata in Gazzetta Ufficiale e consultabile sul sito ufficiale della corte costituzionale www.cortecostituzionale.it.
[8] Si veda FERRARA Maurizio, Le politiche sociali, III ed., Il Mulino, Bologna, 2019.
Silvia Ramundo