Donne e Istituzioni: la Costituzione “inattuata”

Le donne al parlamento” è il titolo di una commedia di Aristofane andata in scena, per la prima volta, ad Atene nel 393 a.c.

In un contesto storico in cui le scelte politiche compiute dagli uomini si erano palesate deludenti e avevano portato alla completa distruzione della polis, il principale rappresentante della Commedia antica realizza un’opera in cui la guida della città è affidata ad un gruppo di donne, alle quali si riconosce il grande merito di aver adottato un ventaglio di provvedimenti eterogenei.

Sebbene l’intento di Aristofane fosse quello di deridere le dottrine filosofiche in voga al suo tempo, la risalente commedia lancia un messaggio sempre valido: l’incremento della rappresentanza politica femminile incide positivamente sul benessere della società nel suo complesso.

La lunga e travagliata strada per l’affermazione dell’eguaglianza di genere è un processo in continua evoluzione che, pur registrando sostanziali progressi, non manca di mostrare contraddittorie flessioni.

I dati attinenti alla presenza femminile nelle nostre Istituzioni[1] continuano a indicare una partecipazione contenuta nei numeri e piuttosto ridotta in ordine alle posizioni di vertice.

Entrando nel dettaglio, il Governo in carica – il primo nella storia repubblicana ad essere guidato da un Presidente del Consiglio dei Ministri donna – prevede la partecipazione di 6 figure femminili (25%) nell’unità dei 24 ministri (Lavoro e Politiche sociali; Università e ricerca; Turismo; Riforme istituzionali e semplificazione normativa; Famiglia, Natalità, Pari opportunità; Disabilità); le altre cariche di viceministro e sottosegretario ricoperte da donne sono 11 (28,9%) su un totale di 38.

Si rileva invece un significativo aumento della dimensione femminile in Parlamento: la percentuale supera il 33%, con lievi differenze tra le due Camere.

In particolare, la presenza delle donne è più alta tra gli eletti nei collegi uninominali (45%) in Senato, mentre alla Camera è più elevata nei collegi plurinominali (34%).

Tuttavia, ponendo a confronto il numero delle candidate (3.005) con quello delle elette nei due rami (199), emerge chiaramente come le stesse abbiano maggiore difficoltà rispetto alla componente maschile nel conquistare un seggio.

A ciò deve aggiungersi che la carica di Presidente della Camera è stata ricoperta da una donna in sole 5 legislature su 19; al Senato, la prima Presidente è stata eletta in tempi recenti, nella XVIII legislatura.

A livello europeo, la situazione non presenta notevoli miglioramenti: le donne elette sono 25, pari al 32,9% del totale dei seggi spettanti all’Italia, in calo rispetto alle due legislature antecedenti.

Analogamente, la composizione della Corte costituzionale è prevalentemente maschile: le uniche donne a ricoprire la più alta carica sono state elette negli ultimi tempi (2019 e 2022).

La questione dell’incidenza femminile nelle sedi istituzionali si ripropone anche in campo regionale e locale. Allo stato attuale, su 20 Regioni soltanto due risultano guidate da donne (Umbria e Sardegna); la presenza femminile nelle assemblee regionali si attesta in media intorno al 24,4% a fronte della media registrata a livello europeo, pari al 35,7%.

Sul versante interno, la percentuale di donne che rivestono la carica di Sindaco si ferma al 15,3%; la rappresentanza femminile è pari a circa il 34% nelle assemblee dei comuni.

Lo scenario appena delineato tende a svelare la mancata o parziale attuazione delle norme costituzionali investite: in primis, l’art. 3 Cost. sull’uguaglianza formale e sostanziale, ma soprattutto gli artt. 37 e 51 rispettivamente sulla parità di diritti fra lavoratrici e lavoratori a parità di mansioni e sul diritto delle donne di accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive.

La disapplicazione o parziale applicazione delle medesime ha prodotto due effetti deleteri[2].

Il primo è quello di aver acuito la continuità tra Stato monarchico e Repubblica; nella visione dei Padri, la Carta costituzionale rappresentava una definitiva cesura rispetto alla rigidità dello Statuto del Regno. Così procedendo, la storia repubblicana ricalca taluni caratteri dell’assetto albertino, dimostrando dunque di non aderire totalmente al progetto costituzionale.

Il secondo effetto collaterale è quello di aver posto in primo piano lo Stato rispetto alla società. In tale senso, si rileva uno sbilanciamento dell’ordinamento a favore dello Stato con contemporanea perdita di peso della comunità.   

Con specifico riguardo alla rappresentanza di genere nelle sedi istituzionali, le resistenze nell’attuazione delle disposizioni costituzionali si intensificano, specialmente in relazione all’implementazione del principio dell’eguaglianza dei sessi, collidendo quest’ultimo conla discrezionalità politica.

Oggi, urge chiedersi su quali attori gravi l’obbligo di attuazione del predetto principio.

Chi scrive ritiene che la quota di maggiore responsabilità incomba sui titolari degli organi di indirizzo politico, chiamati a perseguire l’obiettivo della parità quale interesse di tutti, nel segno di quella compiuta democrazia tanto auspicata da Teresa Mattei nella seduta del 18 marzo 1947 (“non vi può essere … un solo passo sulla via della democrazia, che non voglia essere solo formale ma sostanziale, non vi può essere un solo passo sulla via del progresso civile e sociale che non possa e non debba essere compiuto dalla donna insieme all’uomo, se si voglia veramente che la conquista affermata dalla Carta costituzionale divenga stabile realtà per la vita e per il migliore avvenire d’Italia”. […] “nessuno sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se esso non sia accompagnato da una piena emancipazione femminile”).

Lo scenario odierno necessita di essere valutato proprio alla luce dell’incidenza dell’apporto femminile in Assemblea Costituente e, in generale, rispetto ai contenuti della politica di quel tempo.

Nell’aspirare alla realizzazione di una democrazia “piena”, le 21 Costituenti non intendevano rappresentare se stesse; in linea di principio, la competenza di una donna in politica non si esaurisce nel migliorare la condizione femminile nella società.

Oltre ad intaccare la funzionalità degli organi[3], la discriminazione verso il genere femminile nella vita civile “rappresenta una diseconomia, perché comporta la rinuncia a metà delle risorse disponibili” (Consiglio di Stato, Parere n. 1801/2014).

Spetta altresì al diritto e alla Corte costituzionale, nella sua leale collaborazione con il legislatore, procedere nell’attuazione del principio dell’eguaglianza di genere, nella ferma consapevolezza che il cambiamento “formale” deve essere accostato da un processo “sostanziale[4].

Sotto tale profilo, occorre prendere atto che “se il portatore di interesse è sempre lo stesso o se è la stessa la retorica che lo sostiene, anche se si cambia il genere al comando, la mutazione non avviene perché tutto è teso alla conservazione di parte[5].

I dibattiti più articolati sulla parità di genere, avviati spesso in occasione della compagna elettorale, tendono ad inquadrare il tema dello squilibrio di genere nelle sedi istituzionali da un mero punto di vista quantitativo.

In realtà, l’incremento della percentuale femminile  non costituisce una soluzione al problema; ciò trova conferma nello stesso meccanismo delle quote, quale criterio di selezione delle candidature.

Alla base della parità di genere nelle Istituzioni vi è invece un progetto più ambizioso, imperniato sulla cogestione delle responsabilità ai fini dell’adozione di cruciali decisioni coinvolgenti tutti, uomini e donne.

Si è dunque ancora lontana da quella agognata “rivoluzione permanente[6], nonché dalla realizzazione di una società intrinsecamente più equa e rappresentativa.


[1] La partecipazione delle donne alla vita politica e istituzionale – seconda edizione. Dossier n° 26, 31 luglio 2024, Camera dei Deputati.

[2] In linea con CASSESE Sabino, La Costituzione “dimenticata”. Introduzione, in ID. (a cura di) La Costituzione “dimenticata”, Giuffrè, Milano, 2021.

[3]Soltanto l’equilibrata rappresentanza di entrambi i sessi in seno agli organi amministrativi, specie se di vertice e di spiccata caratterizzazione politica, garantisce l’acquisizione al modus operandi dell’ente, e quindi alla sua concreta azione amministrativa, di tutto quel patrimonio, umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità del genere” (TAR Lazio, sent. n. 6673/2011).

[4] D’AMICO Marilisa, Audizione sul Disegno di legge n. 1785, Norme per la promozione dell’equilibrio di genere negli organi costituzionali, nelle autorità indipendenti, negli organi delle società controllate da società a controllo pubblico e nei comitati di consulenza del Governo, in Osservatorio AIC, n. 3, 2021. Sia consentito il richiamo a LEO Luana, Il marcato divario di genere nel contesto educativo (Nota a Corte cost. 4 gennaio 2022, n. 1), in Amministrazione in cammino, 22 aprile 2022, pag. 17.

[5] Così, APOSTOLI Adriana, La parità di genere nel campo “minato” della rappresentanza politica, in Rivista AIC, n. 4, 2016, pag. 42.

[6] RODOTÀ Stefano, Repertorio di fine secolo, Laterza, Roma, 1992.

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