La nuova riforma della Giustizia e l’abrogazione del reato di abuso di ufficio

Introduzione

Il 10 luglio 2024, il disegno di legge sulla giustizia (cosiddetto DDL Nordio), approvato in Consiglio dei ministri il 15 giugno 2023, ha ottenuto il via libera della Camera.

La nuova legge, ormai vicina, produrrà diverse modifiche al Codice penale, al Codice di procedura penale, al­l’Ordinamento giudiziario e al Codice del­l’ordinamento militare.

Tra le tante novità previste dai nove articoli di cui è composta la legge, spicca l’abrogazione dell’articolo 323 del Codice penale recante il reato di abuso di ufficio.

L’abuso di ufficio

L’articolo 323 collocato nel titolo II del secondo libro del Codice penale, dedicato ai “Delitti contro la pubblica amministrazione” ed, in particolare, compreso nel capo I tra i “Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione“, da sempre ha suscitato critiche per la sua formulazione non propriamente certa, oggetto di interpretazioni oltremodo estensive.

Il fine delle norme comprese in tale titolo è quello di tutelare il bene giuridico ravvisato nel buon andamento e nell’imparzialità della pubblica amminsitrazione, ai sensi dell’articolo 97 della Costituzione.

In particolare, con riferimento all’abuso di ufficio, l’orientamento maggioritario l’ha considerato una fattispecie plurioffensiva, in quanto il bene tutelato non concerne solamente quanto previsto dall’articolo 97 della Costituzione, bensì anche il patrimonio del terzo danneggiato, considerato persona offesa dal reato (Benussi).

Il reato in parola è stato inoltre oggetto di una triplice riforma, essendo stato modificato dalla Legge n. 86 del 1990, dalla Legge n. 234 del 1997 ed, infine, dal Decreto Legge n. 76 del 2020.

Analizzando la norma, ormai praticamente abrogata, emerge la configurazione di un reato proprio e di evento.

In primo luogo, la disposizione individuava, quali soggetti attivi, il pubblico ufficiale e l’incaricato di pubblico servizio nella loro veste pubblica, ravvisandosi l’espressione “nello svolgimento delle funzioni o del servizio”. Tale formulazione poteva peraltro essere interpretata in senso ampio, sicché era possibile ricomprendervi il riferimento a qualsiasi tipologia di atto posto in essere dal pubblico agente nell’esercizio delle funzioni, e non dunque solamente i tipici provvedimenti amministrativi.

In secondo luogo, invece, la fattispecie delittuosa veniva integrata nel momento in cui vi era una effettiva produzione di un ingiusto vantaggio patrimoniale o di un danno ingiusto, quali elementi necessari, in maniera alternativa, a ritenere consumato il reato.

È necessario chiarire come, se il vantaggio sarebbe dovuto essere solo patrimoniale, il danno poteva riguardare anche la sfera della personalità e, quindi, il pregiudizio arrecato a terzi poteva avere carattere sia patrimoniale che non patrimoniale, prevedendo, di conseguenza, una tutela più completa del privato (Fiandaca).

In entrambi i casi, ovviamente, doveva emerge il carattere dell’”ingiustizia”, introdotto con la Legge n. 86 del 1990, in virtù della quale sia il vantaggio sia il danno dovevano essere prodotti contra ius (in violazione dell’ordinamento giuridico) e non iure (senza la sussistenza di cause di giustificazione).

Tra le modifiche apportate alla norma, è stata particolarmente rilevante l’introduzione del parametro dell’abusività della condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato del pubblico servizio (ad opera della Legge n. 234 del 1997), la quale si concretizzava in due situazioni.

In primis, nel caso di violazione di norme di legge o di regolamento, comprese le disposizioni anche semplicemente procedimentali riguardanti la Legge n. 241 del 1990, grazie all’ampia formula prevista dalla norma, come introdotta dal Decreto Legge n. 76 del 2020 (“in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”). Inoltre, emerge che la norma trovava applicazione solo in ipotesi di abuso di poteri vincolanti, riservando pertanto l’opportunità, ai pubblici ufficiali, di mantenere una sorta di discrezionalità soprattutto nel compimento di scelte particolarmente complesse e rischiose.

In secondo luogo, nell’ipotesi di violazione dell’obbligo di astensione del pubblico funzionario, ossia quando il pubblico agente agiva “in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti”.

Quanto all’elemento soggettivo, l’abuso di ufficio, quale reato di evento, richiedeva il dolo generico, caratterizzato dal requisito dell’intenzionalità che esclude dunque la rilevanza del dolo eventuale.

Un’altra caratteristica della norma, era presenza della clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, la quale induceva la sussidiarietà della disposizione rispetto a delitti più gravi.

Il trattamento sanzionatorio prevedeva la pena edittale della reclusione da uno a quattro anni, salvo l’incremento dovuto all’aggravante di cui al secondo comma nel caso di vantaggi o danni di “rilevante gravità“.

Le motivazioni a sostegno dell’abrogazione

L’articolo 1 della nuova legge, dedicato all’abrogazione del reato di abuso di ufficio, origina dalla considerazione secondo cui tale figura criminosa abbia visto, nelle aule di giustizia, un’applicazione pressocché minimale.

In particolare, la norma spiega come, negli ultimi anni, vi sia stato uno squilibrio significativo tra le iscrizioni della notizia di reato e le decisioni di merito, nonostante i molteplici interventi che hanno cercato di dare maggiore determinatezza alla disposizione.

Inoltre, la norma rassicura che, nel caso in cui i delitti contro la pubblica amministrazione vengano commessi con abuso di potere o con violazione di doveri inerenti alla pubblica funzione o al pubblico servizio, la pena applicabile è comunque più grave, quale conseguenza dell’aggravante comune prevista nell’articolo 61, comma 1, n. 9, del Codice penale.

Vi è da rammentare altresì che la disciplina volta alla prevenzione delle malpractice nel settore pubblico è ampiamente prevista dalla Legge n. 24 del 2023, in attuazione della Direttiva Europea n. 2019/1937, riguardante la protezione delle persone in caso di comportamenti, atti od omissioni che ledono l’interesse pubblico o l’integrità dell’amministrazione pubblica o dell’ente privato.

Conclusioni

L’abrogazione dell’art. 323 del Codice penale risponde, invero, ad un orientamento diffusosi nel corso del tempo, concernente un paventato rischio di paralisi o mitigazione del funzionamento della pubblica amministrazione nelle sue varie articolazioni.

Di fatto, funzionari amministrativi e pubblici ufficiali, temendo il rischio di coinvolgimenti in procedimenti penali e in giudizi risarcitori, hanno incrementato i tempi per le decisioni, spesso omettendo di decidere.

La carenza di una perimetrazione chiara e puntuale del reato avrebbe indotto il cosiddetto “timore della firma” conducendo ad evitare a monte l’adozione stessa dei provvedimenti amministrativi.

È ciò che ha spinto, in sostanza, più volte nel tempo, il Legislatore ad intervenire per limitare il controllo penale sull’attività dei pubblici amministratori entro confini compatibili con il principio costituzionale della separazione dei poteri, per evitare, in definitiva, forme più o meno esplicite di sconfinamenti da parte del giudice penale.

La nuova legge, peraltro, non esclude il ricorso a futuri specifici interventi volti a sanzionare, con formulazioni circoscritte e specifiche, condotte meritevoli di pena che integrino fatti connotati da abuso di potere o violazione di doveri inerenti alla pubblica funzione o al pubblico servizio, qualora dovessero sopravvenire eventuali indicazioni di matrice euro-unitaria.


Bibliografia essenziale

BENUSSI Carlo, Diritto penale della pubblica amministrazione, Cedam, Padova, 2016.

FIANDACA Giovanni, MUSCO Enzo, Diritto penale. Parte speciale (Vol. 1), Zanichelli, Modena, 2021.

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