Sorto in età arcaica, dall’interazione tra mores maiorum, leggi delle XII Tavole e loro interpretazioni (interpretatio prudentium), sviluppatosi nel periodo preclassico ad opera dei giuristi, il jus civile costituisce un patrimonio di tradizioni intoccabili, pervase da un’aura di sacralità, da cui prende forma e si consolida un ordinamento che, proprio per tale genesi, è caratterizzato da un’elevata cifra di immutabilità. Non si esagera se si afferma che il jus civile è letteralmente venerato dai Romani.
Integra di fatto l’unica struttura normativa vigente, applicabile ai cives, almeno fin quando Roma non estenderà la sua dominazione – e con essa l’influenza politica, militare ed economica commerciale – sul Mediterraneo, soprattutto in esito alla definitiva disfatta dei cartaginesi.
In particolare, verso la metà del III sec. a.C., si assiste al progressivo incremento dei contatti con nuovi popoli, o perché assoggettati o quali partners nelle transazioni commerciali. L’emersione di una pletora di nuove situazioni e casistiche concrete innesca l’urgenza di una riforma nell’ordinamento giuridico che si presenta, in non pochi settori, ormai obsoleto e non funzionale alle recenti esigenze di tutela giuridica, nascenti dal cospicuo incremento dei rapporti economici e sociali con gli stranieri.
Si accentua nel tempo una vera e propria distanza tra la realtà dei fatti in celere divenire e l’immutabilità del jus civile che mostra crepe di inadeguatezza dinanzi all’occorrenza, sempre più sentita, di una più congrua regolazione di situazioni e tematiche nuove, proprie di una società in profondo e rapido mutamento.
In tale contesto, nel 242 a.C., viene istituito il praetor peregrinus che esercita la jurisdictio sulle controversie tra cives e peregrini e tra peregrini (inter cives et peregrinos vel inter peregrinos jus dicit).
Si tratta di un Magistrato non vincolato al jus civile né alla rigida procedura delle legis actiones: egli decide applicando i canoni di aequum, bonum e bona fides, mediante un iter procedimentale più celere e meno formale, quello per formulas.
L’aequitas è il principio che consente dunque al pretore – nella formulazione delle actiones contenute nel suo editto – di distaccarsi dal jus civile per elaborare soluzioni giuridiche più innovative e maggiormente rispondenti alla nuova coscienza sociale.
Si impone dunque come forza creativa del diritto ove le antiche determinazioni del jus civile non si rivelino più idonee a disciplinare gli attuali rapporti giuridico-economici. Il Savigny definisce l’aequitas come “l’attività giurisprudenziale romana che attinge i suoi concetti direttamente dalla realtà esterna”.
A partire dal II sec. a.C., con la lex Aebutia de formulis, viene concessa ai cives la possibilità di rivolgersi al praetor urbanus (qui jus inter cives dicit) utilizzando la procedura formulare in luogo di quello per legis actiones, sia in deroga che in assenza di un’apposita legis actio.
La frequente opera derogatrice del ius civile, mediante la predisposizione di nuove actiones ed exceptiones, conduce via via alla formazione di un inedito sistema giuridico, denominato jus honorarium.
Quest’ultimo non soppianta il jus civile, lo utilizza invero quale base di partenza per l’elaborazione di nuovi istituti e nuove tecniche, che trovano la propria legittimazione nell’imperium del Magistrato e la propria ispirazione nella dottrina e nelle opere dei giuristi più illustri (auctoritas prudentium).
L’aequitas, per quanto si mostri come un concetto evanescente dal punto di vista terminologico – evanescenza dovuta verosimilmente all’incontro tra le riflessioni della giurisprudenza, le speculazioni filosofiche greche e le applicazioni pratiche del jus honorarium e di quello imperiale – è inquadrabile nella sua precipua natura di principio che opera dentro il diritto positivo.
A tutti gli effetti, costituisce un mezzo di “integrazione del sistema giuridico” (Guarino). Dal periodo repubblicano in poi, si atteggia come un vero e proprio strumento o schema operativo finalizzato a garantire l’adeguamento delle soluzioni pratiche ai valori ed al comune sentire del momento, salvaguardando la parità di trattamento.
L’analisi dell’apparente coincidenza col concetto, di matrice aristotelica, di epieicheia consente di meglio connotare l’aequitas.
In primo luogo, va rilevato che l’epieicheia si sviluppa in epoca seguente a quella che vede la concezione più arcaica dell’aequitas romana. Pertanto ne è improbabile un’influenza.
Nell’Etica Nichomachea (5.10), Aristotele afferma: “Quando, dunque, la legge parla in termini universali e si verifica in concreto qualcosa che da essa non è espressamente, allora è legittimo, in vece del legislatore, colmare l’eventuale lacuna o correggere l’eventuale difformità. L’epieicheia è appunto una manifestazione della giustizia, anzi un miglioramento di essa, perché serve a mitigare gli eccessi implicai dalla sua assolutezza: anzi la sua essenza risiede nell’adattamento della legge generale al caso concreto, nel surrogarsi al legislatore interpretandone la volontà e gli orientamenti”.
Breviter, per il filosofo stagirita i precetti normativi devono essere oggetto di un lavoro di adeguamento e adattamento continuo alle concrete situazioni di fatto.
La epieicheia non va ad adattare la norma al caso concreto ma crea, bensì, la norma del caso concreto; ciò avviene in applicazione di un principio etico, cercando di risalire allo spirito del legislatore da cui derivare una giustizia legale che non combacia con il diritto naturale (Silli).
Viceversa, l’aequitas non crea direttamente una nuova norma per il caso concreto né si pone come principio superiore al jus o in contrapposizione allo stesso ma che opera all’interno del jus e che, in qualche misura, mira ad adattare quest’ultimo, con maggiore precisione, alle specifiche esigenze del singolo caso concreto che, di volta in volta, si può presentare alla cognizione del Magistrato.
L’aequitas romana ha insomma una connotazione più ampia di produzione del diritto nell’ambito del diritto, senza porsi al di sopra.
Per quanto i due concetti possano apparire intimamente connessi, in realtà sono assolutamente autonomi e appare riduttivo, rispetto alla sua portata generale ed astratta, inquadrare l’aequitas romana unicamente come “giustizia del caso concreto”. L’aequitas romana è ontologicamente qualcosa di più lato e totalizzante: può essere anche epieicheia, ma “essa peraltro non è solo epieicheia” (Guarino). Più in dettaglio, nella visione aristotelica sembra mancare quel rapporto di influenza tra equità e diritto proprio dell’esperienza romana: l’epieicheia si atteggia esclusivamente quale strumento di correzione della legge quando essa si appalesa difettosa a causa dei suoi (tipici) caratteri di generalità e astrattezza.
L’aequitas romana coincide essenzialmente con la perfetta giustizia dalla quale l’ordinamento non deve mai distaccarsi e a cui invece deve sempre ispirarsi, modificando le proprie soluzioni qualora la coscienza comune e le nuove istanze sociali lo richiedano. Secondo l’opinione di Guarino, almeno fino all’età classica i termini aequum e iniquum designano la rispondenza o meno della norma alla coscienza sociale del momento storico in cui essa trova applicazione, pertanto ben può accadere che quanto è iustum (conforme a jus) può anche, al contempo, risultare iniquum, e viceversa.
L’equità così intesa costituisce un vero e proprio “principio informatore del diritto”, qualcosa che sta nello stesso tempo alla base della legge scritta, permeandola (aequitas constituta), e al di fuori di essa (ma non al di sopra), sospingendo verso innovazioni della norma o estensioni della stessa a casi simili (aequitas naturalis).
L’aequitas romana contiene altresì quell’elevata istanza di eguaglianza che non può accettare soluzioni diverse per casi identici. Essa “tende a ristabilire l’equilibrio turbato da una deviazione della norma giuridica all’ideale di perfetta giustizia” (Caron).
Per ultimo, l’equità vale anche come criterio ermeneutico della legge, come testimoniato da un passo del giurista romano del II sec. d.C., Ulpiano, il quale, in ordine alla necessità di discostarsi dal rigore della legge ove essa produca risultati iniqui, afferma: “In summa, aequitatem quoque ante oculos habere debet iudex” (D.13.4.4.1).
Orbene, il jus honorarium nasce sulla forza motrice dell’aequitas, grazie prevalentemente dall’attività di pretori (urbano o peregrino) ma anche degli edili curuli e dei governatori delle province (praefectus e procurator).
L’intensificarsi infatti delle relazioni economiche e commerciali comporta in re ipsa la necessità di regolare i rapporti tra i Romani e coloro che non lo sono (peregrini), sia attraverso l’applicazione di istituti prima riservati ai soli cives, sia mediante il riconoscimento di una tutela processuale basata sull’introduzione del processo formulare.
Il processo formulare, sviluppatosi grazie all’opera del praetor peregrinus che deve appunto giudicare nelle controversie tra cives e peregrini, non può utilizzare il rigido formalismo e la sacralità propri delle legis actiones.
La riforma del processo ha inizio, come detto, negli ultimi decenni del III sec. a.C. per culminare nel 17 a.C., con l’emanazione della Lex Iulia iudiciorum che abolisce formalmente il processo per legis actiones.
Il grande giurista Papiniano, nel II sec. d.C., evidenzia che il jus honorarium, come fonte di produzione del diritto, assume tre prerogative: adiuvandi vel supplendi vel corrigendi juris civilis gratia.
“Jus praetorium est, quod praetores introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam” (D.1.1.7.1).
Con la locuzione adiuvandi juris civilis gratia, si intende la facoltà il pretore di concedere rimedi e di facilitare l’applicazione del jus civile ove i mezzi risultino inidonei o insufficienti. Nell’alveo della funzione, a cui afferisce la formula supplendi juris civilis gratia, si rinviene la finalità di colmare le lacune del jus civile tutelando nuove situazioni o rapporti. Infine nell’esercizio dell’attività sintetizzata dall’espressione corrigendi juris civilis gratia, il pretore interviene per eliminare le iniquità del jus civile in attuazione del principio di aequitas, intesa in tal caso come giustizia del caso concreto.
Invero, l’iniquità non è affatto essenzialmente connaturata al jus civile ma può essere effetto della sua applicazione rispetto alla cognizione del caso concreto: è in tale contesto che interviene il praetor, il quale non potendo certo abrogare o negare il jus civile, elabora escamotages giuridici per disapplicarlo e addivenire comunque ad una giusta decisione.
La stessa evoluzione dei rimedi processuali risponde alla necessità di rendere aequum l’uso del diritto e ciò con specifico riferimento alla salvaguardia degli accordi conclusi sulla base della bona fides, ovvero di quei principi fiduciari che si sono attestati durante lo sviluppo del commercio mediterraneo.
La dicotomia tra jus civile e jus honorarium finisce per permanere durante tutto l’arco della storia di Roma, anche se, in epoca postclassica e quindi durante la vigenza del diritto giustinianeo, diviene progressivamente attenuata.
Gli istituti civilistici tradizionali vengono pertanto trasformati e modernizzati cercando, al contempo, di eliminare le sperequazioni createsi tra chi ha lo status di cittadino romano e chi no, in un dinamico sforzo di adattamento ed evoluzione degli istituti utilizzati fino a quel momento.
Questa continua attenzione all’attualità ed all’equità del sistema giuridico appare caratterizzata inoltre da una franca tensione verso l’affermazione di valori morali e rappresenta l’essenza dei concetti insiti nella nozione di aequitas. Tale traccia prende a dispiegare i suoi effetti a decorrere dall’età repubblicana generando esiti che si rinvengono tanto nelle fonti legislative e nella giurisprudenza, quanto nei senatus consulta e nelle stesse constitutiones imperiali dell’età classica.
La diffusione del processo formulare tende a costituire il momento evolutivo fondamentale verso la progressiva metamorfosi dell’originario tratto distintivo dell’ordinamento giuridico romano che, da rigido e formale, progredisce verso lineamenti di sempre maggiore elasticità, mobilità e novità, tanto da far conseguire particolare rilevanza all’elemento, fino ad allora non preso in considerazione, della voluntas e alla necessità di un’adeguata valutazione della stessa.
Nel contempo, in epoca imperiale, si assiste, con Celso e i giuristi severiani, alla fine della giurisprudenza creativa: da quel momento in poi la produzione del diritto è sempre più nelle mani di uno solo e l’aequitas tende, di pari passo, ad assumere un ruolo diverso, più tipicamente umano e gradualmente meno giuridico.
La lenta evoluzione dell’assetto socio-politico romano, da Repubblica ad Impero, consegue, oltre ai mutamenti istituzionali, il passaggio da un sistema creativo di produzione diritto ad uno chiuso.
Con il consolidarsi del potere monocratico del Princeps prima e dell’Imperator poi, si realizza un profondo mutamento sia di regime che di concezione dell’aequitas. Infatti, con il progressivo accentramento di tutte le funzioni in capo ad un unico soggetto legittimato, il diritto tende a cristallizzarsi.
Tale accentramento costituisce uno dei fattori che conducono alla progressiva burocratizzazione della giurisprudenza: i migliori giuristi vengono ingaggiati dalla cancelleria imperiale col primario incarico di suffragare e conferire solidità alle decisioni imperiali. Progressivamente, si assiste all’emersione di un ruolo di prevalenza dell’aequitas sul diritto positivo, definito jus strictum. Tale tendenza si evince, in maniera esplicita, in una nota costituzione di Costantino del 314 d.C., ove testualmente si afferma: “Placuit in omnibus rebus praecipuam esse iustitiae aequitatisque quam stricti juris rationem”.
È sempre preferibile far prevalere le ragioni della giustizia e dell’equità su quelle dello stretto diritto.
Nella successiva era giustinianea, anche per via dell’influenza del Cristianesimo, l’equità romana conosce un’ulteriore modificazione, finendo per identificarsi, secondo le circostanze, con i nuovi principi di matrice religiosa, fondati eminentemente sui valori di benignitas, caritas, misericordia, e perdendo il proprio ruolo di terzietà.
Ciò di fatto avviene nelle cosiddette actiones arbitrariae, in cui “permittuntur iudici ex bono et aequo aestimare”. I Magistrati, sempre più di frequente, decidono le controversie secondo i suddetti principi teologici, dando vita a quell’aequitas che in tempi più tardi verrà definita sprezzantemente come cerebrina (contenuta nel cervello del singolo giudice, nel suo capriccio personale, cervellotica) e bursalis (che si tira fuori dalla borsa all’occorrenza). L’equità diviene come un’applicazione benevola della legge, quando invece in epoca classica poteva benissimo essere anche un’aequitas severitatis, portata a soluzioni più severe di quelle previste dalla legge.
L’aequitas naturalis, d’altro canto, tende a sovrapporsi al jus naturale che, in tale epoca, inizia a
essere inteso come l’ordine naturale delle cose prestabilito da Dio.
Il livellamento della nozione di aequitas, in uno alla sempre più scarsa e diversificata preparazione dei giuristi dell’epoca, tende inevitabilmente a moltiplicare le accezioni che l’aequitas medesima ha conosciuto in epoca preclassica e classica, accrescendone a dismisura l’evanescenza e l’indeterminatezza semantica.
Ha inizio una profonda crisi sia nella produzione del diritto che nell’utilizzo dell’equità come strumento di correzione ed integrazione della norma positiva. Tale fase terminerà solo col battesimo del Medioevo, durante il quale rinascerà il concetto di aequitas nei paesi anglosassoni di common law e nel diritto canonico.
Si tratta dei cosiddetti sistemi aperti, ove prevale la formazione del diritto casistico-giurisprudenziale e all’interprete giudicante viene affidato un ruolo fondamentale nello sviluppo creativo del diritto.
In definitiva, a ragione si può concludere che, durante la parabola evolutiva illustrata, mediante la funzione svolta dall’aequitas, è stato possibile, nel tempo, garantire tutela a soggetti dapprima sguarniti, adattare soluzioni del ius civile e attualizzarle, concepire ex novo strumenti giuridici come la restitutio in integrum che tuttora risulta essere un mezzo liberatorio, posto alla base della disciplina della risoluzione per inadempimento ex art. 1458 dell’attuale codice civile.
L’aequitas si pone come un principio giuridico utilizzabile in tutte le situazioni in cui il diritto si rivela fallibile potendo assicurare quel grado di giusta elasticità non solo negli ordinamenti a base casistica ma anche in quelli codificati che talvolta, per effetto della rigidità normativa, rischiano di non realizzare le soluzioni più giuste o più adeguate ai tempi.
Del resto, va sempre tenuta a mente la celeberrima definizione di Celso (II sec. d.C.) – riportata da Ulpiano in apertura del Digesto – secondo cui “jus est ars boni et aequi”. Ancora oggi, il diritto non può e non deve prescindere da uno stretto e perpetuo nesso con i valori di giustizia e di equità.
Avv. Luigi Zito