“Volgi gli occhi allo sguardo del tuo cane: puoi affermare che non ha un’anima?“[1]
Immaginiamo un mondo dove gli animali, come gli esseri umani, possano godere del riconoscimento relativo al principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione e possano fruire di un trattamento conforme ai principi di giustizia, avrebbero maggiore considerazione in un’ottica di diritti loro riconosciuti e di riguardo etico?
La risposta apparirà affermativamente chiara ai più e, proprio sulla scorta di tale quesito, il filosofo statunitense John Rawls sosteneva: “il nostro comportamento verso gli animali non è regolato da questi principi, o così si pensa generalmente. In base a quali ragioni facciamo distinzione tra genere umano e altri esseri viventi e consideriamo le restrizioni di giustizia valide soltanto nei nostri rapporti con le persone umane?”
Rawls proseguiva distinguendo tre livelli ai quali si applica il concetto di eguaglianza.
Il primo è quello dell’amministrazione delle istituzioni come sistemi pubblici di regole; il secondo, relativo all’applicazione dell’eguaglianza, si rivolge alla reale struttura delle istituzioni; il terzo, dove nasce il problema dell’eguaglianza.
In riferimento al secondo livello, John Rawls affermava: “qui il significato di eguaglianza è specificato dai principi di giustizia che richiedono che a tutte le persone vengano assegnati eguali diritti fondamentali.
Gli animali ne sono, presumibilmente, esclusi; essi godono di una qualche protezione, certamente, ma il loro stato non è quello degli esseri umani. Questa conclusione, però, resta ancora senza una spiegazione”.[2]
Alla luce di tali quesiti e considerazioni, appare opportuno partire dal rapporto che sussiste tra la Costituzione, madre di principi e regole, e la protezione giuridica più o meno riconosciuta agli animali.
La tutela degli animali costituisce la principale novità contenuta nel terzo comma dell’articolo 9 della Costituzione, introdotto dalla legge costituzionale n. 1/2022.
Prima della recente riforma, tra le disposizioni fondamentali, non vi era traccia di una esplicita tutela in favore degli animali, non risultando conseguentemente ricavabile neanche ricorrendo ad una interpretazione costituzionalmente orientata mancando la norma di riferimento.
La riforma arricchisce il citato articolo 9 di un nuovo terzo comma, a mente del quale la Repubblica tutela – accanto al paesaggio e al patrimonio storico e artistico della nazione – “l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”.
L’introduzione di tale garanzia – seppur palesemente riduttiva in quanto riferibile genericamente alla tutela degli animali, e non concretamente alla tutela dei diritti degli animali – era da tempo attesa, tanto da essere stata accolta in modo favorevole non solo dalle associazioni animaliste.
Piero Calamandrei, nel suo discorso ai giovani sulla Costituzione (Milano, 26 gennaio 1955), affermava che “La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità…rendersi conto che nessuno di noi nel mondo è solo, non è solo che siamo in più, che siamo parte, parte di un tutto, un tutto nei limiti dell’Italia e del mondo…” .
Questo breve stralcio del discorso pronunciato dal grande giurista fiorentino, nel suo approccio umano alla scienza e alla politica, colpisce ancora come un terremoto che scuote le nostre coscienze e conduce inevitabilmente ad una riflessione.
Calamandrei, con l’esclamazione “…nessuno di noi nel mondo è solo, non è solo che siamo in più, che siamo parte, parte di un tutto…”, sembra esortare ognuno di noi a riflettere sull’erronea tendenza dell’essere umano a concepire la propria realtà in senso individualistico, con una dose di noncuranza verso il prossimo e tutto ciò che ci circonda.
Come sarebbe la vita di ogni singolo individuo se avesse l’obiettivo di ridefinire il proprio grado di gentilezza intesa come sensibilità, cura, attenzione e rispetto nei confronti di tutti coloro che abitano questo mondo, ivi compresi gli animali non umani?
Nonostante la risposta appaia lapalissiana, la cronaca di oggi ci esorta – tenuto conto dei numerosi crimini nei confronti degli animali – a porre l’attenzione sulla protezione, seppur frammentaria, apprestata a questi ultimi.
Orbene, ci si chiede: anche gli animali hanno diritti? In che modo sono tutelati dal nostro ordinamento? Nella nostra tradizione civilistica, qual è lo status giuridico dei nostri “indifesi amici”?
Nel nostro codice civile, gli animali sono considerati “beni mobili”. Più nello specifico, l’articolo 812 individua i beni rientranti nel saeptum degli immobili, conseguentemente sono mobili tutti gli altri beni i quali sembrano dunque essere riconosciuti per esclusione.
Stando ad un’interpretazione letterale dell’articolo in parola, l’assenza degli animali nell’elenco, porta pacificamente ad attribuire questi alla categoria residuale dei beni mobili potendo costituire oggetto di diritti reali o di rapporti negoziali.
Gli animali possono costituire oggetto di un contratto. È lo stesso codice civile a disciplinare la compravendita di animali all’articolo 1496 rubricato “vendita di animali”.
A dispetto di ciò, tuttavia, per la Cassazione è il codice del consumo, di cui al D. Lgs. n. 206/2005, a regolare l’acquisto di animali da compagnia o di affezione ove avvenga per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata dal compratore, mentre la disciplina del codice civile viene applicata solo in via suppletiva per quanto non previsto dalla disciplina consumeristica.
La Suprema Corte specifica altresì che, ove l’acquirente sia un consumatore, la denuncia del difetto della cosa venduta è soggetta, ai sensi dell’art. 132 codice del consumo, al termine di decadenza di due mesi dalla scoperta del difetto (Cass. Civ., Sez. II, n. 22728/2018).
Si pensi inoltre alla necessità di dover affidare momentaneamente il proprio animale ad un servizio di “pet sitting”.
Orbene, il rapporto giuridico che si crea tra il proprietario dell’animale e il pet sitter o pet host rientra nella tipologia del contratto di deposito a titolo oneroso, di cui all’art. 1766 codice civile, dove oggetto dello stesso è la cura dell’animale affidato in custodia.
Il pet sitter/pet host, in qualità di “depositario”, è tenuto a custodire l’animale con la “diligenza del buon padre di famiglia” e a restituirlo al depositante alla scadenza del termine pattuito.
Tale figura è responsabile di tutto ciò che accade all’animale in custodia e sarà tenuto al risarcimento dei danni subiti dall’animale in caso di lesioni, di smarrimento e di ogni altra spesa relativa per colpa del pet sitter/pet host nella custodia dell’animale, nonché responsabile dei danni provocati dall’animale a terzi durante il periodo di custodia.
Invero, l’art. 2052 codice civile stabilisce testualmente che “Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”.
Secondo un’interpretazione letterale, la norma in parola sembra evocare il principio “cuius commoda et eius incommoda”, per cui chi trae vantaggio dal bene ne sopporta anche i rischi.
Dunque, proprio in merito al concetto di animale come oggetto di contratto, riecheggiano le parole di John Rawls.
Il filosofo statunitense sostiene che “l’idea del contratto può essere estesa approssimativamente alla scelta di un intero sistema etico, cioè di un sistema che contiene principi non solo per la giustizia, ma per tutte le altre componenti morali.
Naturalmente, se la giustizia come equità si dimostrasse una teoria interessante, il passo successivo consisterebbe nello studio di una teoria più generale suggerita dall’espressione ‘giustezza come equità’. Ma anche questa teoria più ampia non sarebbe in grado di comprendere tutte le relazioni morali, poiché sembrerebbe includere soltanto le nostre relazioni con altre persone, tralasciando di render conto del modo in cui dobbiamo comportarci verso gli animali e il resto della natura”.[3]
Vieppiù. Sempre in tema civilistico si richiama altresì l’importante riforma del condominio attuata con la Legge n. 220/2012 che, all’art. 16 lett. b, ha aggiunto un ultimo comma all’art. 1138 codice civile, il quale prevede che “le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici”.
Quanto appena considerato non si traduce in una totale assenza di limiti relativi alla detenzione degli animali stessi.
Orbene, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 1823/2023, ha specificato – confermando l’orientamento giurisprudenziale in precedenza consolidato in tema di immissioni provenienti da animali domestici – la sussistenza di un limite relativo al numero di animali che un condomino può detenere nella propria abitazione, invero superata la soglia di normale tollerabilità menzionata dall’art. 844 codice civile.
La Corte, a tal proposito, ha specificato come tale limite non abbia carattere assoluto, ma che lo stesso possa variare in relazione alla situazione ambientale, in considerazione delle caratteristiche della zona e delle abitudini di vita delle persone che vi abitano e, sulla scorta di tali criteri, spetta al giudice di merito accertare in concreto il superamento della “normale tollerabilità” così da individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della stessa e, conseguentemente, a eliminare la situazione di pregiudizio.
Altresì, in relazione al risarcimento, il giudice può liquidare il danno in via equitativa sulla base della prova fornita anche con presunzioni (Cass. Civ., Sez.VI, n. 11930/2022), provvedendo anche sul risarcimento del danno non patrimoniale a favore del danneggiato, consistente nella lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della sua abitazione, tutelato anche dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani (Cass. Civ., SS.UU., n. 2611/2017).
Jeremy Bentham (1748-1832), considerato teorico dell’utilitarismo e dei diritti degli animali, poneva un importante ed attuale interrogativo: “l’importante non è chiedersi ‘sanno essi (gli animali) ragionare?’, e neppure ‘sanno essi parlare?’, bensì ‘sanno essi soffrire?’‘”.
L’articolo 13 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Carta di Lisbona) stabilisce che “Nella formulazione e nell’attuazione delle politiche dell’Unione nei settori dell’agricoltura, della pesca, dei trasporti, del mercato interno, della ricerca e sviluppo tecnologico e dello spazio, l’Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti, rispettando nel contempo le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e il patrimonio regionale”.
Alla luce della norma de qua – che considera gli animali come esseri dotati di sensi e sensibilità e non meramente come cose mobili – occorre dunque tenere conto delle esigenze connesse al benessere degli animali, in quanto “esseri senzienti” ovvero dotati di consapevolezza e abilità cognitiva necessaria per provare stati affettivi e sensazioni.
Nel solco di tale logica, la Legge n. 86/2019, all’art. 19, esprime il principio di “benessere” in ordine agli animali occupati in attività sportive e il conseguenziale conferimento di un documento di identità anagrafica ad ogni essere animale impiegato nello sport.
Più di recente, il D. Lgs. N. 35/2021, di riforma dello sport, dedica completamente il Titolo IV alle “Discipline sportive che prevedono l’impiego di animali”.
Sempre in ambito internazionale, meritevoli di menzione, in tema di tutela degli animali, vi sono ulteriori riconoscimenti che, in tale sede, si segnalano sinteticamente.
In primis, la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Animale” – proclamata il 15 ottobre 1978 presso la sede dell’UNESCO a Parigi – che, pur non avendo valore giuridico, propone linee guida etiche finalizzate al rispetto degli animali e dell’ambiente.
I principi sanciti in tale documento sono così riassumibili: ogni animale ha dei diritti; il disconoscimento e il disprezzo di questi diritti hanno portato e continuano a portare l’uomo a commettere crimini contro la natura e contro gli animali; il riconoscimento da parte della specie umana del diritto all’esistenza delle altre specie animali costituisce il fondamento della coesistenza delle specie nel mondo; i genocidi sono perpetrati dall’uomo e altri ancora se ne minacciano; il rispetto degli animali da parte degli uomini è legato al rispetto degli uomini tra loro; l’educazione deve insegnare sin dall’infanzia ad osservare, comprendere, rispettare e amare gli animali.
In secundis, la “Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia”, in vigore dal 1° maggio 1992 e ratificata dall’Italia con la Legge n. 201/2010, che, nel preambolo, riconosce anche l’obbligo morale dell’uomo di rispettare tutte le creature viventi, i vincoli che sussistono tra l’uomo e gli animali da compagnia; l’importanza degli animali da compagnia a causa del contributo che essi forniscono alla qualità della vita e il loro valore per la società; la variazione dei comportamenti nei confronti degli animali a causa di mancanza di nozioni e consapevolezza e altresì detta “i principi fondamentali per il benessere degli animali” (art. 3).
In sede penale, la Legge n. 201/2010 che, all’art 4. ha introdotto la nuova fattispecie penale di “Traffico illecito di animali da compagnia”, ha previsto anche l’inasprimento di alcune misure di carattere penale relative alla uccisione ed al maltrattamento di animali già disciplinate dagli artt. 544-bis e 544-ter codice penale.
Orbene, alla luce di quanto fin qui esposto, sarebbe meramente formalistico affermare che solo gli esseri umani sono soggetti morali in quanto esseri umani. Se così fosse, molti di questi ultimi dovrebbero essere esclusi.
Gli aberranti e macabri fatti di cronaca contro gli animali possono evocano il seguente pensiero: i crimini perpetrati contro gli animali, da parte degli esseri umani, possono condurre a classificare questi ultimi come soggetti predisposti alla pericolosità sociale?
È dunque possibile definire l’abuso sugli animali un “crimine-spia”?
Sull’argomento, Robert K. Ressler – autore, ex agente FBI nonché uno dei primi criminal profiler statunitensi – dichiarava: “i Serial Killer sono bambini a cui non è mai stato insegnato che è sbagliato cavare gli occhi ad un animale. (…) Gli assassini molte volte cominciano uccidendo e torturando animali da bambini”.[4]
La questione è da tempo dibattuta in ambito giuridico e psichiatrico.
Si pensi ai più famigerati serial killer. Jeffrey Dahmer, Eric Harris, Ted Bundy e Dylan Klebold, sono solo alcuni dei celebri criminali in ordine ai quali sussiste un inquietante passato di terribili sevizie sugli animali.
Già, nel mondo romamo, in età Augustea, veniva conferita rilevante importanza al fenomeno in parola, tanto da avvertire la necessità di spiegare determinati atteggiamenti considerati preludio di pericolosità sociale.
Ovidio, nel 43 a.C., sosteneva “saevitia in bruta est tirocinium crudelitatis in homines“, ipotizzando che la crudeltà verso gli animali costituisce una forma di tirocinio funzionale al successivo esercizio della crudeltà verso gli esseri umani.
Oggi, gli animali – come sopra accennato – sono ancora prevalentemente considerati “beni mobili”, di fatto assimilati a oggetti inanimati o comunque a esseri viventi di serie B, privi di capacità giuridica.
È pacifico che gli esseri umani godano di uno status giuridico superiore rispetto agli animali.
Tale convinzione rischia però di sfociare nello specismo – ossia l’attribuzione di uno status superiore agli esseri umani rispetto alle altre specie animali – alla base del quale vi è senz’altro una visione antropocentrica che finisce essenzialmente per porre l’uomo in un livello di preminenza e dominio in ogni ambito di considerazione.
Ci si domanda – al di là dei sentimenti di tenerezza o compassione che possono indurre ciascuno di noi ad adottare una giusta condotta verso gli animali – se sussistano degli obblighi anche solo morali nei loro confronti.
“Anche se non ho sostenuto che la capacità per un senso di giustizia è necessaria affinché ci sia dovuta giustizia, sembra in effetti che non siamo obbligati a rendere giustizia in modo rigoroso alle creature che mancano di questa capacità. Ma questo non vuol dire che non si abbiano obblighi di nessun tipo nei loro confronti né che non ne esistano nel nostro rapporto con l’ordine naturale. È sicuramente un male essere crudeli con gli animali e la distruzione di una intera specie può essere un danno gravissimo.
La capacità per i sentimenti di piacere e di sofferenza e le forme di vita di cui sono capaci gli animali chiaramente ci impongono doveri di compassione e di umanità nei loro riguardi. Non tenterò di spiegare queste convinzioni. Una corretta concezione dei nostri rapporti con gli animali e con la natura sembrerebbe dipendere da una teoria dell’ordine naturale e del nostro posto all’interno di quest’ordine. È impossibile dire fino a che punto la giustizia come equità dovrà essere rivista per essere inserita in questa teoria più ampia”.[5]
Dunque, la capacità degli animali di provare sentimenti è percepibile da parte di chiunque abbia un minimo di predisposizione a osservarne il comportamento e a captarne la loro emotività.
Konrad Lorenz esprime così le sue idee circa il nostro rapporto con la sensibilità degli animali: “Quando ci sentiamo toccati emotivamente dal comportamento di un animale, ciò è sicuro indicatore del fatto che abbiamo scoperto intuitivamente una somiglianza tra comportamento animale e umano. […] L’accendersi della nostra risposta emotiva, della nostra ‘commozione’ è dunque un segno certo di una forte somiglianza tra comportamento animale e comportamento umano”.[6]
Tale riflessione implica una disamina in chiave penalistica di quelle che sono le norme poste a tutela degli animali, sebbene oggetto di numerose critiche a causa della scarsa incisività che le caratterizza.
Con la Legge n. 189/2004 – promotrice di un’evoluzione nel panorama normativo nazionale –, vi è un’evoluzione della sensibilità sociale verso l’uccisione ed ogni forma di maltrattamento degli animali, mediante la previsione espressa di una sanzione nei confronti di chi uccide un animale, riconoscendo quale bene giuridico tutelato, per l’appunto, il sentimento di pietà che la comunità prova per gli animali.
La legge de qua ha inserito, nel Libro secondo del Codice penale, il Titolo IX-bis, intitolato “Dei delitti contro il sentimento per gli animali” e, altresì, l’art. 19-ter delle Disposizioni di coordinamento al Codice.
Tale norma, in particolare, ha destato molte perplessità interpretative ed è stata sovente invocata come scriminante a fronte di alcuni comportamenti anche gravi in danno di animali.
L’art. 544-bis codice penale, rubricato “Uccisione di animali”, recita che “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale, è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni” (la sanzione, originariamente compresa tra i tre ed i diciotto mesi di reclusione, è stata inasprita dalla Legge n. 201/2010).
L’uccisione è punita pertanto solo se non necessaria o crudele.
La nozione di necessità che esclude la configurabilità del reato di uccisione di animali, comprende non soltanto lo stato di necessità previsto dall’art. 54 codice penale, ma anche ogni altra situazione che induca l’uccisione dell’animale per evitare un pericolo imminente o per impedire l’aggravamento di un danno alla persona propria altrui o ai propri beni, quando tale danno l’agente ritenga altrimenti inevitabile (Cass. Pen., Sez. III, n. 49672/2018).
Per crudeltà, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, deve intendersi la volontaria inflizione all’animale di gravi sofferenze per mera brutalità ed insensibilità dell’agente (Cass. Pen., Sez. V, n. 8449/2020).
L’art. 544-ter c.p., rubricato “Maltrattamento di animali” stabilisce che “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche, è punito con la reclusione da tre a diciotto mesi, o con la multa da 5.000 a 30.000 euro.
La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi.
La pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte dell’animale”.
La Suprema Corte, in tema di delitti contro il sentimento per gli animali, distingue le due figure di reato, stabilendo che è configurabile l’ipotesi di cui all’art. 544-ter, comma 3, quando la morte dell’animale, ancorché costituisca una conseguenza prevedibile della condotta dell’agente, non sia riferibile a un suo comportamento volontario e consapevole.
Mentre ricorre la fattispecie di cui all’art. 544-bis, allorquando si accerti che l’agente ha agito con la volontà, diretta o anche solo eventuale, di cagionare la morte dell’animale (Cass. Pen, Sez. V, n. 8449/2020).
Altra fattispecie delittuosa, introdotta nel corpo del codice penale dalla Legge n. 189/2004, è quella prevista dall’art. 544-quinquies, relativa al “Divieto di combattimento tra animali”. In merito, la Corte di Cassazione, nella pronuncia n. 42434/2015, ha precisato che,in tema di competizioni non autorizzate tra animali, il pericolo per l’integrità fisica di questi ultimi, che rende tali competizioni penalmente rilevanti, va valutato in concreto sulla base di un criterio “ex ante” in relazione sia alle peculiarità della gara, sia alle complessive condizioni in cui essa si svolge, con particolare riguardo, oltreché alle circostanze di tempo e di luogo, alle caratteristiche strutturali dell’impianto ed alla presenza di servizi atti a prevenire o comunque diminuire il rischio di pregiudizio per gli animali che vi prendono parte.
Al fine di rafforzare la tutela prevista per tutti gli animali – fin qui sinteticamente esposta – è stata introdotta nel codice penale un’altra norma posta a difesa degli animali “di affezione”, ferma restando la tradizionale impostazione che nega loro un certo grado di soggettività.
La norma in questione è quella di cui all’art. 727, rubricata “Abbandono di animali”: “Chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro.
Alla stessa pena soggiace chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze”.
In tema di delitti contro il sentimento per gli animali, sussiste un rapporto di continuità normativa tra le nuove fattispecie contemplate dal Titolo IX-bis del libro II del codice penale, inserito dalla Legge n. 189/2004, e le condotte prima contemplate dall’art. 727 (contravvenzione che oggi punisce il solo abbandono di animali), sia con riferimento al bene protetto sia per l’identità delle condotte (Cass. Pen., Sez. III, n. 44822/2007).
E certamente non occorre una fervida immaginazione, né uno studio matto e disperato delle materie giuridiche, per comprendere come la crudeltà sugli animali possa essere preludio di pericolosità sociale.
In definitiva, oggi, alla luce delle illustrate forme di tutela embrionale e frammentaria, accordate agli animali in quanto “esseri senzienti”, si assiste ai primordi di un processo di passaggio “da res a soggetti”.[7]
La protezione riconosciuta, in virtù del carattere “senziente”, agli animali non umani, che evoca l’antica pietas romana, si pone come fondamento per auspicare, de jure condendo, il varo di una disciplina organica della tutela animale che davvero non si profila, più troppo lontana, all’orizzonte.
[1] Victor Hugo (1802-1885), celeberrimo scrittore, poeta, drammaturgo francese, è stato fondatore della prima Lega antivivisezionista in Francia.
[2] RAWLS John, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 2017, pag. 474.
[3] RAWLS John, opera citata, pag. 37.
[4] RESSLER Robert, in Animal cruelty may be a warning, in Washington Times, 23 giugno 1998.
[5] RAWLS John, opera citata, pag. 481.
[6] LORENZ Konrad, Io sono qui, tu dove sei? Etologia dell’oca selvatica, Mondadori, 2007, pag. 279.
[7] RESCIGNO Francesca, I diritti degli animali. Da res a soggetti, Giappichelli, Torino, 2014.
Avv. Federica Corso