Guerra in Ucraina: tra diritto internazionale e prospettive culturali

La vicenda

2014, l’Ucraina subisce, da parte della Russia, un atto di aggressione a Sud, in Crimea.

Mosca dapprima occupa Sebastopoli, poi, nelle settimane successive, organizza un referendum – dichiarato illegittimo dal governo ucraino – mediante cui la regione viene annessa alla Federazione Russa.

Per il diritto internazionale, l’annessione di un territorio non può avvenire tramite l’impiego della forza. È legittima solo ove rispetti la Costituzione dello Stato di appartenenza. Non avendo l’Ucraina autorizzato il referendum, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite lo dichiara illegittimo e condanna l’occupazione della Crimea come violazione della sovranità territoriale ucraina.

Otto anni dopo, il 21 febbraio 2022, il presidente russo Vladimir Putin annuncia il riconoscimento di due regioni dell’Ucraina orientale come stati indipendenti, Lugansk e Donetsk, territori di fatto controllati, sempre dal 2014, da forze separatiste sostenute dal governo russo.

Secondo il principio generale, decretato in una decisione della Corte internazionale di giustizia, il finanziamento, l’addestramento e comunque l’aiuto a gruppi armati non statali non costituiscono, di per sé, una violazione del divieto dell’uso della forza, ma rappresentano la violazione di un diverso obbligo, quello della non ingerenza negli affari interni di uno Stato. Non c’è dubbio pertanto che il riconoscimento dell’indipendenza delle repubbliche separatiste del Lugansk e del Donetsk, a seguito di un conflitto armato non internazionale (guerra del Donbass) tra forze governative e insorti separatisti sostenuti da Mosca, dia luogo ad un’inconfutabile violazione della sovranità territoriale dell’Ucraina e del principio di non ingerenza negli affari interni, sanciti nell’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite.

Questi due fatti – compiuti con l’uso della forza militare – l’annessione della Crimea e l’ingerenza finalizzata alla secessione del Lugansk e del Donetsk, sono tuttora sub judice dinanzi alla Corte internazionale di Giustizia, alla Corte europea dei diritti dell’uomo e alla Corte penale internazionale.

Non finisce qui. È ormai tristemente noto a tutti che, il 24 febbraio 2022, inizia quella che Putin definisce una “operazione militare speciale”, invero un’invasione armata, su larga scala, del territorio ucraino che, stante una strenua difesa, innesca un sanguinoso conflitto.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, riunitosi alcuni giorni dopo, non riesce ad adottare una risoluzione ad hoc, per il veto posto dalla Russia che ne frustra giuridicamente l’iniziativa. Deve dunque richiedere all’Assemblea generale di riunirsi, in sessione di emergenza, che, per la prima volta nella storia dell’ONU, – il 2 marzo – approva una risoluzione che dichiara l’aggressione perpetrata da un membro permanente del Consiglio di sicurezza contro un altro stato membro. Le risoluzioni dell’Assemblea generale certamente non sono vincolanti come quelle del Consiglio di sicurezza (e quindi non sottoposte al potere di veto dei membri permanenti) ma costituiscono pur sempre uno strumento politico influente sull’opinione dell’intera comunità internazionale.

L’azione militare della Russia ai danni dell’Ucraina, integra a tutti gli effetti un atto illecito, l’aggressione, nella puntuale ed articolata accezione giuridica adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1974 (risoluzione n. 3314) e che sostanzialmente corrisponde alle norme internazionali del diritto consuetudinario: invasione (articolo 3, lettera a), bombardamenti contro il territorio di un altro Stato (lettera b), blocco dei porti o delle coste (lettera c), attacco contro le forze armate di un altro Stato (lettera d), invio di gruppi armati o di mercenari (lettera g).

Ai sensi della risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 56/83 del 12 dicembre 2001, rubricata “Responsabilità degli Stati per atti illeciti a livello internazionale”, una seria violazione di una norma imperativa (jus cogens), quale è il divieto dell’uso della forza nelle relazioni tra stati,  importa che gli altri stati debbano cooperare per porre fine alla violazione (“States shall cooperate to bring to an end through lawful means any serious breach…”), secondo il puntuale disposto dell’art. 41, in virtù del quale sono altresì obbligati a non riconoscere la situazione come legittima e a non fornire assistenza allo stato responsabile (“No State shall recognize as lawful a situation created by a serious breach… within the, nor render aid or assistance in maintaining that situation”).

La Russia, dal canto suo, invoca, a fondamento dell’azione militare intrapresa, due ordini di ragioni: l’uno riconducibile alla legittima difesa (preventiva), l’altro alla protezione delle popolazioni russofone, nell’Est dell’Ucraina, da un asserito (e non provato) genocidio ai loro danni ad opera del regime governativo ucraino.

In pratica, Putin ricorre a non meglio precisate minacce all’esistenza e sovranità della Russia, quasi si trattasse di una questione di vita o di morte per la nazione stessa, attribuendone formalmente la responsabilità, in ultima istanza, alla NATO. Egli sostiene il proprio diritto di agire in legittima difesa contro le politiche dello Stato ucraino, e, più in generale, del blocco politico occidentale, riportandosi giuridicamente all’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite (“Countermeasures must be commensurate with the injury suffered, taking into account the gravity of the internationally wrongful act and the rights in question”), per cui in caso di lesione di diritti, le contromisure devono essere commisurate alla lesione subita, tenendo conto della gravità dell’atto internazionalmente illecito e dei diritti stessi.

La genesi

Quali sono, in concreto, i diritti di cui si ritiene lesa la Russia?

La non meglio precisata minaccia all’integrità della Russia da parte dell’Ucraina e del blocco occidentale, e l’asserito e non provato genocidio nel Donbass.

Tali presupposti giustificano giuridicamente l’uso delle armi?

La risposta è no. L’uso della forza armata, nelle relazioni internazionali è vietato, secondo il diritto internazionale, salvo i casi eccezionali della legittima difesa e dell’autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Si può ipotizzare un’ulteriore eccezione, originata per via consuetudinaria, inerente all’urgenza di proteggere cittadini all’estero.

Le eccezioni al divieto sono ovviamente vincolate a tassativi presupposti.

In ordine all’ipotesi della legittima difesa, è ammessa l’azione militare solo se necessario per prevenire un imminente attacco armato. È evidente che nessun attacco imminente, contro la Russia, è mai stato sul punto di essere sferrato da parte dell’Ucraina.

La minaccia astratta, ipotetica e futura non costituisce valida giustificazione per una risposta armata a titolo di legittima difesa preventiva.

L’eventualità di un ingresso futuribile dell’Ucraina nella NATO non può considerarsi in re ipsa una minaccia di attacco imminente, idonea a legittimare un’azione militare preventiva. D’altro canto, l’ammissione dell’Ucraina nella NATO, al momento dell’attacco russo, è tutt’altro che all’ordine del giorno.

Occorre a tal punto una riflessione comparativa: non desta particolare preoccupazione, per leadership russa, l’adesione di Finlandia e Svezia alla NATO nel 2023, tanto vero che non è segnalata alcuna presenza militare russa lungo il confine. Se la Russia vedesse davvero la NATO come una minaccia, perché non risulta predisposto un incremento delle truppe russe o, quanto meno, una campagna di propaganda che dipinga la Finlandia come una minaccia militare e i finlandesi come pericolosi?

È abbastanza evidente che l’adesione della Finlandia alla NATO, nonostante i suoi oltre 1.300 km di confine con la Russia, non preoccupa più di tanto Putin.

L’Ucraina, invece, che illo tempore non era ufficialmente nemmeno candidata all’adesione alla NATO, è percepita così tanto ostile e pericolosa da dover essere distrutta militarmente. Per quale motivo?

Una possibile risposta sarà sviluppata subito dopo una brevissima digressione.

Va evidenziato che, proprio ai sensi dell’art. 51 richiamato da Putin, l’impiego della forza deve essere proporzionale e necessario. Il che non appare affatto nel caso di specie, dove l’azione militare russa, presentata come una reazione preventiva, è stata ed è tuttora foriera di distruzione a tutti i livelli, comprese le infrastrutture civili.

Vero che, a partire dalla fine della guerra fredda, la NATO, gli Stati Uniti d’America e alcuni stati europei hanno contribuito a svuotare, in una certa misura, la portata del divieto dell’uso della forza e dell’eccezione della legittima difesa, svilendole de facto, compiendo operazioni militari chiaramente in violazione del diritto internazionale, come il bombardamento della Serbia nel 1999 e l’invasione dell’Iraq nel 2003.

Probabilmente, volendo, per mera ipotesi di studio, escludere una pretestuosità a fini eminentemente espansionistici in capo alla Russia, una lettura culturale della vicenda potrebbe spiegarne meglio la genesi.

Alcuni autori parlano di “sindrome da accerchiamento”, come un quid onnipresente nella retorica russa, più o meno alimentato dalle scelte strategiche della NATO (allargamento ad alcuni paesi ex sovietici), nel corso dei decenni dopo la caduta del muro di Berlino del 1989.

L’escalation della crisi in Ucraina trova origine nel discorso alla nazione di Putin, alcuni giorni prima dell’invasione del 2022, in cui una serie di false rappresentazioni sono prospettate ad arte per giustificare il casus belli.

Elaborando un’inedita rivisitazione delle teorie di Lenin, Putin perviene a imputargli di avere promosso un processo di “autodeterminazione” delle nazioni all’interno dell’Unione Sovietica, specie per l’Ucraina che “è stata creata dalla Russia e ne è parte integrante, per la sua storia e la sua cultura”, concludendo che “l’Ucraina non esiste se non all’interno della Russia”.

Del resto, già alcuni mesi prima, Putin pubblica un articolo dall’eloquente titolo “Sull’unità storica di russi e ucraini”. In tale lavoro, è possibile rinvenire tutto il magnificat dell’impero zarista, del mito del panslavismo, dell’idea escatologica della “Terza Roma” cristiano-ortodossa, della mistica personificazione nella “Grande Madre Russia” (Matushka Rossiya), dell’unità linguistica e culturale.

Russi, ucraini e bielorussi sono tutti discendenti dell’antica Rus’, che era il più grande stato d’Europa” (Putin).

Essi sarebbero intimamente legati da una lingua comune e da una comune fede ortodossa che risale all’epoca del battesimo di Vladimir I (956-1015), detto il Grande o il Santo, nel 988, noto come il Principe che ha cristianizzato la Rus’.

Lo scritto di Putin descrive la disintegrazione dell’antica Rus’ e le sue sofferenze fino a quando “Mosca divenne il centro della riunificazione, proseguendo la tradizione dell’antica nazione russa. I príncipi di Mosca – i discendenti del principe Aleksandr Nevskij – si liberarono dal giogo straniero e incominciarono a riunificare le terre russe”. Nella narrazione, ricorre il tema della lotta contro le potenze occidentali, primo fra tutti il Commonwealth polacco-lituano e poi gli Asburgo, che hanno cercato di perpetuare la divisione della “Malorossija” (Piccola Russia) e di introdurre il cristianesimo romano.

Si finisce per teorizzare l’idea che “una parte di un popolo nel processo del suo sviluppo – influenzato da una serie di ragioni e circostanze storiche – in un determinato momento può percepire, riconoscersi come una nazione separata”. Ma alla fine conclude: “Sono sicuro che l’autentica sovranità dell’Ucraina è possibile solo in collaborazione con la Russia. I nostri legami spirituali, umani e culturali si sono formati per secoli e hanno origine dalle stesse fonti, sono stati temprati dalle comuni prove, conquiste e vittorie. La nostra parentela si è trasmessa di generazione in generazione. È nei cuori e nella memoria delle persone che vivono nella attuale Russia e in Ucraina, nei legami di sangue che uniscono milioni delle nostre famiglie. Insieme siamo sempre stati e saremo incomparabilmente più forti e vincenti. Perché siamo un unico popolo”.

Ma proprio sulla cultura della grande Rus’, gli storici più rigorosi sottolineano che questa è nata a Kiev nel Medioevo, per poi diffondersi nel resto dell’Est: in sostanza, prima si è affermata Kiev, e solo dopo è venuta Mosca, non il contrario.

Lo stesso Valdimir I, citato da Putin, ordina il battesimo di tutta la popolazione nelle acque del fiume Dnepr, a Kiev. La scelta è probabilmente dettata più da considerazioni di carattere strategico e opportunistico che da autentica aderenza religiosa, e rappresenta storicamente il primo passo per consolidare le relazioni con la capitale dell’impero romano d’Oriente. In seguito, il Gran principe sposerà Anna Porfirogenita, figlia dell’imperatore bizantino. L’arrivo a Kiev di sacerdoti al seguito di Anna favorirà l’istituzione della Chiesa ortodossa determinando la diffusione del cirillico, un alfabeto ideato per diffondere la parola di Dio nelle terre slave, sancendo un ulteriore allontanamento tra la nuova Chiesa orientale e quella cattolica europea, ancorata all’utilizzo dell’alfabeto latino.

Negli anni successivi alla conversione dei rus’ e corrispondenti al governo di Jaroslav il Saggio (1019-1054), figlio di Vladimir, lo stato kievano raggiunge l’apice della sua estensione e della sua rilevanza politica, artistica e culturale per poi avviarsi verso un graduale declino. Il diritto consuetudinario slavo di successione entra in collisione con il nuovo codice legislativo, finendo per inaugurare una lunga serie di guerre civili che finiranno per dilaniare la tanto agognata unità politica degli slavi orientali. Poco alla volta, la Rus’ giungerà a dividersi in una federazione di principati sempre più indipendenti.

Nel XIII secolo d.C., le invasioni tartaro-mongole dalle steppe orientali sanciscono l’epilogo definitivo dello stato della Rus’ di Kiev. Dalla sua disintegrazione, si costituiscono diversi principati, tutti derivanti da quella che è stata una grande entità statale slava e che distillano, nei secoli a venire, una propria storia e cultura distinta (Cella).

È noto alla storiografia che i riferimenti storici sulle origini e le identità delle Nazioni costituiscono sempre un terreno minato, specie se strumentalizzati al fine di tentare una destrutturazione dello status quo, inteso soprattutto in senso giuridico.

Sarebbe come richiamarsi, per ipotesi, alla grandezza dell’Impero Romano per rivendicare ad oggi porzioni di territorio o culture identitarie.

Perché quindi l’Ucraina è diventata l’obiettivo dell’aggressione russa?

In primo luogo, l’Ucraina è uno dei pochi stati nell’ambito dello sterminato spazio post-sovietico in cui una rivoluzione popolare non è stata seguita dal ritorno al potere di forze politicamente ed economicamente legate alla Russia.

Inoltre, l’Ucraina è un Paese con cui i russi comuni condividono, in effetti, una notevole attinenza culturale e linguistica. Probabilmente se un Paese simile per molti aspetti al loro riesce a costruire uno Stato democratico, liberale e, in qualche misura, prospero, perché i russi non potrebbero altrettanto ambire a riuscirvi? Questo sillogismo sembra far paura: se vi sono riusciti gli ucraini che sono uguali o molto simili ai russi, possono farcela anche questi ultimi, invece di restare avvinti in uno Stato autocratico e illiberale.

Inoltre, va aggiunto che l’Ucraina, nella qualità di ex repubblica sovietica più potente dopo la Russia, presenta ragguardevoli risorse strategiche, dalla posizione geografica al terreno particolarmente, dalle risorse naturali (carbone, ferro, gas naturale, grafite, legname, magnesio, manganese, mercurio, nichel, olio, sale, titanio, zolfo) ad un’industria relativamente sviluppata e ad una forza lavoro qualificata ed efficace.

Mosca sostiene che l’integrazione dell’Ucraina, in un’alleanza politica con la Russia e la Bielorussia, renderebbe il blocco una grande potenza nella politica mondiale. Putin evoca regolarmente tale idea quando si rivolge agli ucraini, enfatizzando che “insieme siamo sempre stati e saremo molto più forti”.

Tuttavia, la spinta a mantenere il controllo sull’Ucraina affonda le sue radici in motivazioni ancora più profonde.

Il presidente russo è fermamente convinto che la distinta identità nazionale degli ucraini sia una costruzione artificiale creata dai nemici. Una volta separato dalla Russia, lo Stato ucraino, a suo avviso, diventa inevitabilmente una base strategica per le forze ostili in Occidente, che lo usano come ariete o cavallo di Troia per inficiare il legittimo dominio russo e minare la Russia stessa, dall’interno, mediante contagi ideologici sovversivi, così intralciando in nuce le aspirazioni e gli interessi della Russia – ossia del suo Presidente Putin – di occupare il posto che le spetta nel mondo.

Alla luce di tale concezione, un’Ucraina indipendente, semplicemente in virtù della sua esistenza politica separata, ma molto probabilmente assistita e veicolata dagli Stati Uniti (rivoluzione di Maidain e caduta del governo ucraino filorusso nel 2014), si trasforma di per sé stessa in una sorta di progetto anti-russo, conseguendo dunque lo status di minaccia immediata alla sopravvivenza stessa della Russia, la Grande Madre Russia che, nella visione culturale russocentrica, può esistere e resistere solo come grande potenza.

Le dette argomentazioni storico-nazionalistiche, più volte enucleate da Putin nei suoi pubblici discorsi, non vanno viste come ideologia strumentale all’adozione di scelte politiche opportunistiche e di interesse personale. Hanno origine nell’immaginario antropologico collettivo, plasmatosi nel corso del tempo.

Il ruolo di primo gregario dell’Ucraina, nella narrazione culturale-identitaria delle élite statali russe, è stato modellato e affinato nel XIX secolo.

Putin si percepisce come uno zar e come Stalin, nel senso che anche la leadership russa dell’epoca zarista ha sempre percepito l’assimilazione dell’Ucraina come essenziale al processo di rafforzamento della sovranità, sia nel senso di potere esterno, verso il mondo intero, sia come solida base di una stabilità interna tetragona e inattaccabile.

Per poter competere con i moderni imperi coloniali, dal mero Commonwealth all’espansionismo commerciale e finanziario; dall’esportazione, anche con la forza, della democrazia liberale americana per fini di controllo internazionale alle derive terroristiche in chiave di jihad estesa e diffusa; la Russia ha avvertito e avverte tuttora l’urgenza di creare e mantenere autocraticamente, consolidando anche con la repressione e il terrore, una comunità nazionale, una nazione russa composta da slavi orientali ortodossi, ossia grandi russi, piccoli russi (ucraini) e bielorussi. L’integrazione degli ucraini in questa struttura di nazione costruita dall’alto è pertanto sentita come un passo fondamentale per mantenere, se non accrescere, il potere della Grande Russia sulla scena internazionale.

Già le élite zariste hanno cercato di preservare il loro regime autocratico in un mondo sconvolto dai movimenti democratici, liberali e libertari, dopo la rivoluzione francese del 1789 e i moti rivoluzionari risorgimentali del 1848 che hanno profondamente scosso il vecchio continente, creando le basi per i moderni stati costituzionali. 

In tale logica, la russificazione delle popolazioni della frontiera occidentale è stata sentita ed è tuttora sentita come modalità di sicurezza, per proteggerle cioè dall’influenza di ideologie sovversive, contribuendo così alla stabilità interna del regime.

Infine, come impero continentale in continua espansione, la Russia si è trovata a far fronte ad una cronica carenza di popolazioni fedeli in grado di abitare, in maniera cospicua e diffusa, le regioni appena colonizzate dell’Asia e del Caucaso. Pertanto, l’assimilazione di una vasta riserva demografica di ucraini diventa cruciale per mantenere la coesione di questo impero così tanto eterogeneo.

Così probabilmente si spiega come la Russia abbia tentato più volte di annientare e asservire l’Ucraina sin dal 1800 (zar), poi sotto i Bolscevichi (Lenin), e oggi (Putin).

Alla stregua di quanto sopra, va chiarito che non appare possibile comprendere appieno, per la cultura occidentale, l’attuale guerra della Russia in Ucraina, se il ragionamento sulle cause si limiti unicamente agli aspetti militari ed economici.

In una parola, ciò che è principalmente in gioco è la sicurezza ontologica dell’autorità dominante russa, con l’Ucraina che occupa, strumentalmente, una posizione di garanzia, centrale per la sua identità e per la sua rappresentazione del mondo.

Tuttavia, Putin è probabilmente consapevole della insufficiente captazione ideologica ex adverso o, quanto meno, della carente percepibilità culturale da parte della comunità internazionale delle sue pretese – incomprensibili al mondo extra-russo – e allora vi aggiunge un elemento, a suo dire, degno di rilievo giuridico in sede internazionale. Mediante una fine operazione di dezinformatsiya, introduce surrettiziamente un argomento volto a discreditare, di fronte al mondo, il governo ucraino.

Egli accusa l’Ucraina di aver posto in essere un’azione politica e di polizia persecutoria nei confronti delle minoranze russe del Donbass, di avere un governo corrotto e fascista, “in mano a degli oligarchi anti-russi”, e a gruppi di “neo-nazisti e terroristi anti-russi”. Sulla base di tali premesse, enfatizzando anche l’esodo dei civili dal Donbass diretti in Russia, Putin quindi dichiara formalmente il riconoscimento unilaterale delle “Repubbliche Popolari” di Donetsk e di Lugansk, e dispone il dispiegamento delle forze russe in un’operazione di “peacekeeping”, concordata con i due autoproclamati leader dei territori secessionisti.

A ben vedere, tale argomento, fondato sull’urgenza di una protezione delle popolazioni russofone nell’Est dell’Ucraina, non pare solidamente sufficiente, in punto di diritto, per giustificare un attacco armato.

Invero, negli ultimi anni, la cittadinanza russa è stata generosamente concessa agli abitanti russofoni dell’Ucraina, specie nella parte orientale, il che fa ipotizzare una sotterranea premeditazione.

Altrettanto riscontrabile un’evidente miopia nella leadership russa post-sovietica nella difficoltà a concepire che, a prescindere da una comunanza culturale e linguistica con una parte della popolazione, gli abitanti del Donbass, pur sé russofoni, possano avvertire comunque un attaccamento al proprio Paese di appartenenza, senza per ciò ambire all’annessione alla Russia. Sintomatiche, in questo senso, sono le vicende riguardo il reclutamento forzato russo di uomini nella regione, nelle prime fasi del conflitto, a conferma della malcelata renitenza degli abitanti delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk – sotto controllo russo e generalmente considerate prorusse – a lottare contro le forze ucraine. Si appalesa drammaticamente paradossale la constatazione per cui, da un lato, le comunità russofone, tra tutte gli abitanti di Mariupol, resistono e si oppongono disperatamente all’invasione russa, e dall’altro, contemporaneamente, il Cremlino impone al suo esercito la distruzione e l’uccisione di quelle stesse popolazioni che ufficialmente sarebbe stato mandato a proteggere.

In ogni caso, presupposto formale e sostanziale per ricorrere all’uso della forza, come extrema ratio, è la situazione di estremo pericolo per la vita dei concittadini minacciati. Breviter, il ricorso della forza armata è giuridicamente possibile solo ove sia esaurita ogni altra opzione e a fronte dell’inerzia dello Stato territoriale. Tale uso della forza va comunque confinato entro i limiti dello stretto necessario e proporzionato rispetto alla finalità perseguita.

Pertanto, pur ipotizzando astrattamente – come asserito dalla Russia – che le forze ucraine stessero preparando un’offensiva per recuperare i territori separatisti nel Donbass e a prescindere dalle questioni giuridiche relative a un’eventuale azione armata ucraina del genere, l’azione armata russa, estesa com’è noto all’insieme del territorio ucraino, fino addirittura a minacciare la stessa capitale Kiev, si è rivelata da subito manifestamente sproporzionata rispetto alla pretesa finalità di proteggere persone aventi anche la cittadinanza russa, abitanti nelle regioni separatiste, quand’anche queste fossero state realmente esposte a un pericolo imminente per la loro vita, il che peraltro avrebbe dovuto essere previamente comprovato.

Va fatta una riflessione a margine, a questo punto. Per la pretesa necessità di proteggere le popolazioni da un asserito genocidio, la Russia ha – seppure indirettamente – invocato il diritto di intervento umanitario, che gli stessi Paesi occidentali avevano invocato, già in passato a sostegno di azioni armate unilaterali (si pensi ai bombardamenti aerei contro la Serbia del 1999, in reazione alle persecuzioni inflitte alla popolazione del Kosovo di etnia e lingua albanese). Anche tale argomento appare altrettanto privo di pregio giuridico per un duplice ordine di ragioni. In primis, il diritto di intervento armato a fini umanitari non risulta ancora codificato da alcuna norma di diritto internazionale ed è controverso tra i giuristi. In secondo luogo, difetta del tutto il presupposto materiale per un intervento del genere: la popolazione russofona dell’Est dell’Ucraina non era e non risulta affatto vittima né minacciata di genocidio.

Sul punto, la Corte internazionale di giustizia, in relazione all’istanza di misure cautelari avanzata dall’Ucraina nell’ambito del ricorso intentato contro la Russia, in base alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, ha esplicitamente affermato che non risultano evidenze idonee a suffragare la tesi russa di un genocidio in atto in Ucraina, nelle regioni orientali, ai danni della popolazione russofona. La stessa Corte ha altresì espresso dubbi circa la fondatezza giuridica che la detta Convenzione autorizzi il ricorso unilaterale (quindi, in assenza di un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza) alla forza armata nel territorio di un altro Stato allo scopo di prevenire o punire un preteso genocidio.

La decisione della Corte non è l’unica presa di posizione istituzionale internazionale avverso l’aggressione russa contro l’Ucraina. Vanno ricordate, fra le altre, la sopra citata risoluzione di condanna da parte dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e la decisione della stessa Assemblea generale di sospendere la Russia dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite.

A tutto ciò si aggiunga la pletora di misure restrittive o coercitive unilaterali (comunemente denominate “pacchetti di sanzioni”), adottate dell’Unione europea e da un certo numero di Stati, nei confronti di Mosca.

In punto di diritto, occorre infine aggiungere due osservazioni complementari.

Poiché la Bielorussia ha messo il proprio territorio a disposizione delle forze russe per lanciare operazioni armate in territorio ucraino, tale Stato si è reso corresponsabile di aggressione (art. 3, lettera f della citata definizione di “aggressione”). Inoltre, nel caso di una violazione grave di una norma imperativa, cui certamente corrisponde l’aggressione contro l’Ucraina, l’art. 41, comma 2, inerente alla responsabilità internazionale degli Stati impone, come sopra detto, agli Stati terzi di non riconoscere la situazione creatasi in seguito a una violazione grave e vieta altresì di prestare aiuto o assistenza nel mantenere tale situazione. Ne consegue, tra l’altro, che è fatto divieto di fornire alla Russia assistenza militare che possa essere utilizzata per portare avanti l’aggressione contro l’Ucraina.

Detto tutto quanto precede, è opportuno, d’altro canto, rilevare critiche su alcune condotte messe in atto da Paesi occidentali, negli ultimi decenni, in violazione del divieto di uso della forza armata nelle relazioni internazionali. Ci si riferisce alla già menzionata campagna di bombardamenti aerei contro la Serbia (1999), all’invasione dell’Iraq (2003) e all’utilizzo dell’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza all’uso della forza per proteggere la popolazione civile libica, in particolare nell’area di Bengasi, allo scopo di perseguire in realtà l’obiettivo di rovesciare il governo di Gheddafi (2011).

Il richiamo a tali vicende serve a evidenziare come la disinvoltura mostratavi dai Paesi occidentali abbia, in qualche misura, contribuito a ledere la qualità stessa della cooperazione in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite –  elemento essenziale per la sua efficacia – e come abbia ulteriormente rafforzato una tendenza cominciata in realtà nell’ultimo scorcio del XX secolo, ovvero una certa graduale  erosione del divieto dell’uso della forza armata nelle relazioni internazionali, dando vita a pericolosi precedenti che la Russia – come potrebbe farlo qualsiasi altro stato – strumentalizza ampiamente per i propri interessi e obiettivi. I bombardamenti sulla Serbia, in relazione alle violazioni massicce dei diritti umani in Kosovo, costituiscono fonte di recriminazione ricorrente nella retorica russa e il riferimento al Kosovo è ben presente nelle argomentazioni relative alla “operazione militare speciale” contro l’Ucraina.

La stressa qualificazione giuridica dell’azione russa quale “aggressione” o “attacco armato” rileva anche in ordine alla fornitura di armi all’Ucraina.

I Paesi occidentali, tra cui l’Italia, sono Stati terzi, non belligeranti, rispetto al conflitto in corso in Ucraina. Il diritto tradizionale di neutralità, parte del diritto internazionale dei conflitti armati, impone una serie di obblighi di neutralità rispetto ai belligeranti, anche per quanto concerne la fornitura diretta di armi.

Tuttavia, gran parte della dottrina ritiene ormai che, nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite, le norme tradizionali sulla neutralità subiscano una deroga nel caso di aggressione. Laddove intervenga un accertamento istituzionale a livello delle Nazioni Unite dell’avvenuta aggressione (nel nostro caso la già citata risoluzione del 2 marzo 2022, vista l’impossibilità per il Consiglio di Sicurezza di pronunciarsi per via del veto della Russia del 26 febbraio 2022), gli obblighi di neutralità cedono il passo al diritto di assistere lo Stato aggredito, sempre che quest’ultimo non richieda un intervento diretto a titolo di legittima difesa collettiva da parte di Stati terzi disposti a prestare il loro aiuto, opzione sin qui esclusa nel caso del conflitto in Ucraina.

La fornitura di armi da parte della stessa Italia va dunque inquadrata in questo contesto giuridico, senza violare l’art. 11 della Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa”).

Brevi cenni di diritto internazionale

I principi fondamentali da richiamarsi sono innanzitutto riconducibili alla norma consuetudinaria del rispetto della “sovranità territoriale” di uno Stato. In tale ottica, l’Ucraina, soggetto autonomo e distinto di diritto internazionale, è riconosciuto nella sua piena integrità territoriale e dei confini dalle Nazioni Unite, dalle altre principali organizzazioni internazionali e dalla comunità degli Stati. La Carta delle Nazioni Unite all’articolo 2 paragrafo 4 impone agli Stati, come detto, di astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza dirette “contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”.

La retorica delle rivendicazioni storiche sulla comune “madre Russia” e le narrazioni sulla difesa delle minoranze di etnia russa non possono giustificare alcun legittimo casus belli, neanche in nome di un supposto principio di “autodeterminazione dei popoli”. Nel diritto internazionale il richiamo a tale principio, che legittima le cosiddette “guerre di liberazione nazionali”, è ammesso solo in determinate circostanze, ovvero quando risulta acclarato che i popoli sono costretti a resistere e combattere “contro la dominazione coloniale e l’occupazione straniera e contro regimi razzisti”. La regola si rinviene in particolare nel I Protocollo addizionale del 1977 alle Convenzioni di Ginevra, all’articolo 1 del paragrafo 4, e nel Patto sui diritti civili e politici del 1996, all’articolo 1.

Il riferimento alla nozione di “popolo” e il richiamo specifico ai soli casi indicati esclude pertanto che il “diritto di autodeterminazione” possa essere invocato a beneficio di minoranze etniche che, peraltro, ben potrebbero reclamare, all’occorrenza, diritti civili e politici in forme di autonomia amministrativa e rappresentanza politica, senza porre però in discussione l’integrità dello Stato di appartenenza.

A stretto rigore, dunque, salvo i casi citati di dominazione coloniale, regime razzista, o occupazione straniera, nel diritto internazionale rimane inviolabile il principio della sovranità e della integrità territoriale degli Stati, e non può declinarsi, in nessuna forma, un “diritto alla secessione”.

L’autodeterminazione non è riconoscibile nemmeno a “movimenti secessionisti che facciano capo ad un popolo che coesiste insieme ad altri in uno Stato federale indipendente” (Ronzitti). Se c’è un diritto di autodeterminazione da tutelare dunque è proprio quello dalla popolazione dell’Ucraina vittima dell’aggressione russa.

Tali principi sono inoltre affermati nel disposto dell’articolo 8 bis dello Statuto della Corte penale internazionale, come emendato a decorrere dal 2012.  Tale norma individua il crimine di “aggressione internazionale”, come “l’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato, o in qualunque altro modo contrario alla Carta delle Nazioni Unite”.

Negli stessi Accordi di Helsinki del 1972, è stato pattuito un sistema permanente di “misure di fiducia e sicurezza” per la pace “da Vancouver a Vladivostok”, con indicazione concordata dei principi di eguaglianza sovrana, rispetto dei diritti inerenti alla sovranità; non ricorso alla minaccia o all’uso della forza; inviolabilità delle frontiere; integrità territoriale degli Stati; risoluzione pacifica delle controversie; non intervento negli affari interni.


Bibliografia essenziale

CELLA GIORGIO, Storia e geopolitica della crisi Ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi, Carocci, Roma, 2021.

CONFORTI BENEDETTO, Diritto internazionale, Edizioni Scientifiche, Napoli, 1993.

GRANDI BRUNO, L’uso della forza nelle relazioni internazionali, Giuffré, Milano, 2018.

RONZITTI NATALINO, Diritto internazionale dei conflitti armati, Giappichelli, Torino, 2017.

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