Sommario
Introduzione
Da qualsiasi angolazione lo si voglia analizzare, il femminicidio non evoca un accadimento unitario ma un complesso di accadimenti interconnessi, culminanti con il femminicidio stesso.
Può sembrare un gioco di parole. Non lo è affatto. Di gioco non vi è nulla, né l’allegria nè la leggerezza.
Piuttosto, con leggerezza, si tende, da più parti, a semplificare troppo.
La violenza di genere rappresenta ogni forma di sopraffazione e discriminazione perpetrata nei confronti di una donna, ed è in primis femminicidio come fenomeno socio-antropologico.
Quando raggiunge il suo apice, provocando la morte della malcapitata di turno, ecco che si integra il femminicidio nell’accezione di femicidio, inteso quale condotta specifica di omicidio di donna.
In breve, dietro al lessico concettuale riconducibile al termine femminicidio, si ricomprende sia ogni violenza inflitta nei confronti di una donna “in quanto donna” sia ogni uccisione di una donna “in quanto donna”.
Entrambi i significati, sussunti nell’identico termine, hanno in comune l’oggetto dell’azione e, nella locuzione “in quanto donna”, ne è compendiato il terribile senso profondo.
Sia ben chiaro, non si vuole sminuire il lavoro della criminologa Diana H. Russell che ha coniato il termine femminicidio certamente non per una questione di riduzionismo e di comodità analitica del fenomeno.
Il punto è che “in quanto donna”, a parer di chi scrive, non è la visione o conclusione corretta.
“In quanto donna” secondo l’impostazione dominante rappresenta la causa dell’azione violenta, il movente del “femicidio“.
A voler ragionare seriamente sul problema del genere, come fattore causale, emerge ben poco a fronte dell’abisso da cui si origina il fenomeno.
In altre parole, la violenza di genere è solo una porzione del problema violenza e relegare ogni forma di abuso e angheria, commessa nei confronti di una donna, al genere, contribuisce a complicare le chance di prevenzione proprio perché molte volte la violenza di genere è solo l’effetto e non certo la matrice causale.
Si è al cospetto di una questione culturale piu complessa e variegata.
Dilaga l’abitudine a classificare e a catalogare seguendo l’onda dell’enfatizzazione, finendo per cadere nell’inefficacia del riduzionismo e della dannosità del superficialismo.
Da una parte, l’uomo patriarca e maschilista che domina e sottomette, dall’altra la donna debole e servizievole.
L’uomo lavoratore, la donna casalinga. L’uomo libero di uscire, la donna che deve chiedere il permesso.
Il punto è che tale modo di ragionare è esso stesso stigmatizzazione della realtà sociale riducendola a stereotipi culturali primitivi che nulla realmente spiegano in ordine al problema.
E che nulla chiariscano è confermato dalla natura stessa degli stereotipi, in quanto rigidi legacci che incatenano il pensiero e con esso il progresso e pertanto, in ultima analisi, le possibili soluzioni.
Si evochi alla mente la figura del noto criminale Jack lo Squartatore, forse colui che può essere riconosciuto come il primo e feroce serial killer di donne!
Non si può non riconoscere che costui non uccideva le donne in quanto tali, ma invero in quanto prostitute.
Tuttavia non sembra necessario scomodare la storia.
È sufficiente purtroppo pensare ai recenti casi di cronaca in cui si continuano a riscontrare omicidi di donne per mano di ex fidanzati, fidanzati, mariti, amanti.
Davvero si tratta di violenze culminate con l’assassinio, più o meno brutale, di donne in quanto tali, o sarebbe più realistico parlare di rabbia repressa, senso di frustrazione, solitudine, incapacità emotiva, apatia, dissociazione, fino a forme di psicopatia?
Certo, generalizzare serve a poco, non solo dal punto di vista conoscitivo ma anche e soprattutto dal punto di vista psicologico e legale.
Il fine di questo contributo è indagare la ratio effettiva della violenza subita dalle donne per comprendere se queste ultime siano esse stesse il movente e pensare a possibili rimedi preventivi.
Violenza di genere e aspetti psicodinamici
La parola “genere” è spesso portatrice di discriminazione sessista, infatti ha un significato esteso alla fisionomia originaria della dicotomia uomo-donna, secondo cui il genere è correlato al sesso biologico.
Spesso possiede una connotazione legata al ruolo differenziato, assegnato socialmente e culturalmente all’uomo e alla donna, prima nel nucleo familiare e poi quando essa tenta di affrancarsi dalla subordinazione familiare per conquistare una sua funzione anche all’esterno della stessa[1].
La diversità di genere, da intendersi come costruzione sociale e culturale, è soggetta alla critica e al cambiamento come fenomeno socialmente determinato dalla differenza di potere tra uomini e donne, ma deve esserlo soprattutto in termini socio-culturali, facendo capo alla specificità e alla concretezza delle diverse modalità dell’essere e dello stare nella società dell’uomo e della donna.
“Un uomo significa essere dominante nella società e la subordinazione delle donne è necessaria per mantenere tale potere” (Smith et al.2015)[2].
La violenza di genere, dunque, è legata a ruoli e comportamenti che la società stabilisce per entrambi i sessi, tuttavia non è la sola ed essere messa in questione.
Vi sono infatti i moventi dell’anima psicologica che, in maniera subdola, si insinuano nella crescita di un individuo fino a prendere il sopravvento nel caso di occasioni o eventi scatenanti.
Ci sembra di poter concordare sul fatto che l’uomo non nasca violento.
A tal proposito, è utile richiamare brevemente la disamina effettuata dal Center for Disease Control and Prevention (CDC), ente statunitense dedito[3] all’analisi, alla prevenzione e al controllo di malattie, che si occupa di delineare scrupolosamente i fattori di rischio che inducono l’oppressore ad esercitare la violenza sull’oppresso.
Tra questi si individuano quattro componenti;
• individuali: appartengono a questa categoria tutti i partner che hanno una limitata autostima, presentano tratti antisociali e scarso controllo. Oltretutto vengono inseriti in questo gruppo tutti coloro che abusano di sostanze stupefacenti e alcol;
• relazionali: vi si identificano coloro che hanno tratti caratteristici basati su gelosia, possessività, relazioni disadattate. È necessario tuttavia sottolineare, con estrema franchezza, come tali oppressori abbiano alle spalle famiglie inadeguate e ciò di norma può condurre all’adozione di comportamenti ed atteggiamenti nei confronti del partner poco controllati o esaltati;
• di comunità: per comunità si intende una categoria ben più ampia e poco delineata, a causa dei suoi confini sfumati, come la società. Al suo interno è presente un tasso molto alto di devianza, ciò comporta la nascita di violenza e di crimini ad essa correlati. Tutto viene applicato in modo esponenziale a causa del tasso di disoccupazione che può comportare, in alcuni casi, la perdita temporanea della dignità personale;
• sociale: vengono identificate in tale gruppo tutte le disuguaglianze comprendenti quelle di genere e sociali. D’altro canto, è necessario inserire tutte le norme che regolano la vita sociale.
Tanto basterebbe per rivedere sostanzialmente il significato proprio della violenza di genere, la quale non può essere meramente ridotta in alcune delle classificazioni prospettate nel corso del tempo e tanto meno può autodefinirsi.
Il femminicidio e la sfera relazionale
Come si è anticipato, la parola femminicidio, intesa nelle sua implicazione sociale ovvero come “omicidio di donne”, fonda le sue radici nel designare e descrivere la violenza esercitata dall’uomo sulla donna con un movente di genere, non occasionale.[4]
Tuttavia si invita a riflettere attentamente sulle dinamiche che precedono o che sono concomitanti all’esplosione della violenza bruta, mentale o fisica che sia.
Difatti pensare alle azioni e agli status ci consente di allargare il punto di osservazione e indagare meglio le dinamiche relazionali da cui è possibile scindere il movente dal soggetto passivo.
Si pensi al noto e recente “caso Giulia Cecchettin”: si viene lasciati e si arriva ad uccidere per questo.
Tale è il motivo scatenante e a poco serve sapere che la vittima sia una donna.
Orbene, si sta cercando di spiegare che, così come una donna non è semplicemente donna in quanto tale, allo stesso modo la violenza subita dalla stessa non è violenza di genere in quanto tale.
Si vuole, in concreto, offrire lo spunto per spingere l’indagine condotta in relazione a tali fenomeni fuoriuscendo dagli stereotipi e dalla diffusa tendenza a incasellare in categorie, per osservare i fenomeni violenti a trecentosessanta gradi e poter individuare, dalla rilevazione delle cause, le possibili alternative di prevenzione.
Ogni crimine ha, in realtà, una sua genesi che affonda le sue radici ben più in profondità rispetto al mero genere.
Si vuole far riferimento, in particolar modo, alle dinamiche psico-relazionali che coinvolgono donne e uomini per la maggior parte del tempo e quindi ai ruoli sociali che si rivestono nei diversi ambiti della sfera relazionale.
Ogni essere umano riveste più di un ruolo nell’arco della sua vita e il passaggio da un ruolo all’altro dipende dal grado di maturità sociale raggiunto in rapporto all’ambiente familiare, lavorativo, sociale, al grado culturale e alle condizioni economiche.
Come noto, gli aspetti poc’anzi richiamati corrispondono alle aree di studio prese in considerazione dalla criminogenesi proprio in ragione della pluralità dei fattori che determinano, in un dato momento, un determinato crimine.
Tali fattori, per la maggior parte dei casi, sono strettamente interdipendenti.
Generalmente una condizione di precarietà denota uno scarso livello culturale, cui segue una scarsa socializzazione con la conseguenza di sviluppare una propensione maggiore al crimine.
In relazione al fenomeno della violenza di genere, si può adottare lo stesso punto di osservazione e scindere per l’appunto il genere dalle condizioni fenomeniche e di status caratterizzanti i contesti in cui si sviluppano tali forme di crimini.
Si possono così rilevare uccisioni di madri da parte di figli, di mogli da parte di mariti, di sorelle da parte di fratelli e così via per moventi passionali (gelosia, raptus) e devianze. Tali atti vengono descritti e catalogati come sistemici e strutturati che, pur in forme diverse di oppressione e di violenza apparentemente separati, sono caratterizzati da elementi e motivazioni comuni.
Partendo dal presupposto che, molto spesso, tali forme di violenze non vengono commesse in maniera istantanea e da persone completamente ignote alle vittime, bisogna partire dalla consapevolezza che vi è quasi sempre una costante: il tipo di relazione.
Ecco, si ritiene che individuare e analizzare la tipologia delle relazioni possa apportare un contributo notevole all’implementazione del sistema preventivo e alla conseguente attuazione delle misure protettive in tempo utile.
Proposte di prevenzione
Gli strumenti che il legislatore e la società in genere adottano, al fine di combattere fenomeni di vasta portata come la violenza di genere, corrispondono per lo più all’intervento normativo-repressivo: si pensi al “Codice Rosso” e agli interventi normativi successivi rivolti all’inasprimento delle pene.
Lo strumento della minaccia della pena è infatti quello più utilizzato (riduzione quasi a zero dei costi di organizzazione e gestione) per far fronte all’emergenza violenza, tralasciando tuttavia sia la ridotta efficacia dello stesso a fronte di crimini per lo più di matrice passionale, sia la dotazione di adeguate risorse di capitale umano, organiche ed economiche per le forze dell’ordine da una parte, e per le strutture antiviolenza dall’altra.
Pochissimo spazio viene altresì dedicato all’ambito educativo e scolastico ove, molto spesso, nuclei familiari e istituti scolastici sono sprovvisti dei mezzi necessari per poter rilevare e correggere atteggiamenti e azioni, costituenti chiari indici di aggressività, la quale, con non trascurabile probabilità, diventerà la violenza di domani.
In conclusione, non è né può essere il mero genere il focus della possibile arma preventiva, ma il grado di socializzazione, ed è su questo che bisognerebbe lavorare, a tutti i livelli.
[1] MERLI Antonella, Violenza di genere e femminicidio, in Diritto Penale Contemporaneo (ISSN: 2039-1676), 1, 2015.
[2] SMITH Rachel M., PARROTT Dominic J., SWARTOUT Kevin M., THARP Andra Teten, Deconstructing Hegemonic Masculinity: The Roles of Antifemininity, Subordination to Women, and Sexual Dominance in Men’s Perpetration of Sexual Aggression, in Psychology of men & masculinity (ISSN: 1524-9220), 16(2), 2015, pagg. 160-169.
[3] DAMIANTO Luca, Gli aspetti psicologici della violenza e il ruolo dell’egemonia maschile, in SFU, Milano, 2022.
[4] MERLI Antonella, Violenza di genere e femminicidio, in Diritto Penale Contemporaneo (ISSN: 2039-1676), 1, 2015.
Francesca Fuscaldo (Funzionario Ministero Giustizia), Dott.ssa Giada Scrivano