Sommario
Nozione
Premesso che, nell’ampia panoramica della casistica concreta, diverse sono le realtà societarie da amministrare, da tempo, si è avvertita la necessità di prospettare soluzioni univoche sulle differenti questioni sollevate dall’interferenza di un soggetto terzo, privo della formale veste di amministratore, nell’attività gestoria della società.
Alla realizzazione di tali istanze sembra essersi evoluta la moderna esegesi della figura dell’amministratore di fatto.
Tale espressione è usata dalla giurisprudenza penalistica con l’obiettivo di attribuire responsabilità alle persone fisiche che, pur non essendo state nominate formalmente quali amministratori della società, svolgono in modo continuativo la gestione della stessa, esercitando i poteri relativi alla qualifica e/o alle funzioni dell’amministratore di diritto.
Attualmente la giurisprudenza della Cassazione, che si è formata soprattutto nell’ambito dei reati societari, fallimentari e tributari, ha definito in maniera unanime l’amministratore di fatto come “colui che esercita in modo continuativo e significativo, non occasionalmente, il potere gestorio, condotta che non comporta necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di governance”.[1]
La nozione di amministratore di fatto è tipizzata dall’art. 2639 c.c. che opera un’equiparazione tra attribuzione formale della qualifica ed esercizio di fatto delle funzioni relative alla qualifica stessa.
La norma citata è stata introdotta con la riforma del diritto societario, dal D.Lgs. 11 aprile 2002 n. 61 ed ha colmato gli annosi dibattiti dottrinali e giurisprudenziali sul criterio di selezione delle qualifiche soggettive.
Con la riforma citata, è stata data una risposta alla questione relativa all’estensione della responsabilità penale degli amministratori di diritto a coloro che, senza aver ricevuto formale investitura da parte dell’organo competente, in concreto esercitano le stesse funzioni.
Lo scenario prima della riforma, invece, vedeva contrapporsi due diversi orientamenti, riconducibili rispettivamente alla “teoria formale” e alla “teoria sostanziale o funzionalistica“.
Il primo orientamento considerava inammissibili le qualifiche soggettive di fatto.
Tale impostazione era basata sul rispetto del principio di legalità in materia penale e, più nel dettaglio, sul presupposto che i soggetti attivi disciplinati dalla norma penale devono considerarsi tassativi.
In particolare, l’estensione della responsabilità al di là dei confini designati dalla qualifica dettati dalla disposizione penale implicherebbe un’operazione creativa del diritto e, di conseguenza, violerebbe il principio del divieto di analogia in malam partem.
La teoria funzionalistica, d’altro canto, interpretava estensivamente la nozione di amministratore.
Alla base di tale corrente, risulta esservi il tentativo di dare risposta ad esigenze di giustizia sostanziale, in linea con il principio – sancito dall’art. 27 della Costituzione – di personalità della responsabilità penale e di colpevolezza.
Dall’assunto secondo cui un soggetto può essere chiamato a rispondere penalmente soltanto di fatti che gli possono essere attribuiti come conseguenza volontaria di una sua scelta antidoverosa, discende la necessità di dare una nozione di amministratore orientata verso una prospettiva funzionalistica che dà rilievo alle funzioni e ai compiti svolti in concreto dal soggetto, al di là della qualifica rivestita: non più quindi “responsabilità dell’amministratore”, quanto piuttosto “responsabilità per l’amministrazione”.[2]
Il fenomeno dell’esercizio di fatto delle funzioni, già prima della riforma del diritto societario, in giurisprudenza era stato svincolato dall’investitura formale, la quale ampliando i contorni della qualifica di amministratore affermava che “spetta non solo a colui che abbia rappresentanza legale dell’ente di fronte a terzi, ma anche a colui che, di fatto, esercita il potere di decisione sulla gestione del patrimonio sociale”.
Le indicazioni della giurisprudenza e della dottrina dominante sono state successivamente recepite dal legislatore che, con la modifica del citato art. 2639, ha equiparato l’amministratore di diritto a colui che concretamente gestisce la società, tipizzando, per la prima volta, quali soggetti attivi dei reati societari i gli amministratori di fatto.
Tale modifica trova la sua ragione sul presupposto che sarebbe irrazionale ritenere non responsabile il soggetto che esercita il potere decisionale nell’ambito della società senza rivestirne formalmente la carica di amministratore.
La soluzione prospettata dal legislatore rappresenta una sintesi tra i due orientamenti descritti, poiché non opera un’equiparazione automatica tra amministratore di fatto e amministratore di diritto ma la subordina al rispetto di alcuni parametri descritti dalle norme da valutare caso per caso.
L’articolo 2639 c.c., rubricato “Estensione delle qualifiche soggettive” dispone che, per i reati societari previsti dal codice civile, “al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”.
L’interprete dovrà quindi verificare caso per caso se i compiti svolti dal soggetto, anche se diversamente qualificato, siano assimilabili a quelli richiamati nelle fattispecie incriminatrici.[3]
Il predetto comma sancisce la medesima valenza dell’esercizio di diritto e di fatto di funzioni, tipizzando una posizione di garanzia svincolata dalla titolarità dei poteri e doveri previsti dalle norme ma originata dall’esercizio in maniera continuativa e significativa di attribuzioni operative.
Il secondo comma dell’articolo in argomento prevede che, ad eccezione dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione: “le disposizioni sanzionatorie relative agli amministratori si applicano anche a coloro che sono legalmente incaricati dall’autorità giudiziaria o dall’autorità pubblica di vigilanza di amministratore della società o i beni dalla stessa posseduti o gestiti per conto di terzi”.
Le fattispecie incriminatrici attuabili dagli amministratori vengono anche applicate agli amministratori giudiziali e ai commissari governativi, essendo stati abrogati i reati propri degli stessi.
Indici sintomatici
L’art. 2639 c.c. nel dettare la definizione di amministratore di fatto, non opera un’equiparazione automatica tra amministratore di fatto e amministratore di diritto ma la subordina al rispetto di alcuni parametri normativi che devono essere valutati caso per caso.
Sul punto la Cassazione ha affermato che “la ricostruzione del profilo di amministratori di fatto deve condursi, in ambito penalistico, alla stregua di specifici indicatori”.[4]
In particolare la giurisprudenza penale, facendo riferimento al già citato art. 2639 c.c., secondo cui la nozione di amministratore di fatto postula l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione descrive i due parametri che devono coesistere per l’esistenza del soggetto di fatto: significatività e continuità.
I predetti paramenti devono essere cumulativi, l’uno di tipo qualitativo l’atro di tipo quantitativo – temporale.
In particolare, il requisito della continuatività postula l’esclusione dalla categoria degli amministratori di fatto di coloro che svolgono atti episodici e occasionali dovendo essere dimostrata una condotta protratta nel tempo e l’inserimento del soggetto stesso all’interno della società.
Relativamente al criterio della significatività, lo stesso sottende la necessità che il soggetto di fatto eserciti poteri tipici coerenti con la carica ricoperta e non mere mansioni esecutive o accessorie. In merito la dottrina prevalente ha specificato che l’esercizio dei poteri tipici può essere reputato significativo quando sia pregnante cioè abbia ad oggetto poteri costituenti il “nucleo essenziale della funzione interessata”.[5]
I criteri di cui sopra sono considerati quali parametri estendibili a più settori (in particolare ai reati societari, fallimentari e tributari).
Repentino e uniforme è stato il successivo adeguamento da parte della Cassazione secondo la quale, al fine di valutare i parametri sopra descritti, occorre procedere ad un’analisi delle concrete funzioni esercitate e degli atti posti in essere dal soggetto a prescindere dalla qualifica ricoperta.
Secondo i giudici di legittimità “la nozione di amministratore di fatto è stata introdotta dall’art. 2639 c.c. e presuppone l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri inerenti alla qualifica o alla funzione, da non ricondursi necessariamente, all’esercizio di tutti i poteri tipici dell’organo di gestione, bensì ad una apprezzabile attività di gestione, che sia effettuata in modo occasionale o non episodico”.
Al riguardo recente giurisprudenza ha ribadito che “ ai fini dell’attribuzione della qualifica di amministratore “di fatto” è necessaria la presenza di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza produttiva, organizzativa o commerciale dell’attività sociale, quali i rapporti con i dipendenti, i clienti o i fornitori, ovvero in ogni settore gestionale dell’attività dell’ente, sia quest’ultimo produttivo, amministrativo, aziendale, contrattuale o disciplinare”.[6]
In sede penale rileva, quindi la funzione di regia e strategica di gestione della società, in violazione del complesso dei doveri posti a presidio dell’interesse dei creditori, dei terzi e del mercato.
Vanno analizzate “le concrete attività svolte dal soggetto nella società oggetto di analisi quali la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria, la generalizzata identificazione nelle funzioni amministrative da parte dei dipendenti e dei terzi, l’intervento nella declinazione delle strategie d’impresa e nelle fasi nevralgiche dell’ente economico”.[7]
Dunque la ricostruzione del profilo di amministratore di fatto deve ricondursi alla stregua di alcuni indicatori quali, l’attribuzione di direttive e compiti all’amministratore di diritto nonché ai dipendenti della società, il coordinamento dell’attività societaria tramite la gestione dei rapporti con i clienti e i fornitori, la difesa della società nel settore di riferimento con i competitors, l’apertura di conto correnti con la conseguente gestione dei relativi flussi oltre che dei rapporti con gli enti finanziari, la presenza costante dello stesso negli uffici della società, l’assenza del prestanome e la mancata conoscenza di quest’ultimo da parte dei dipendenti, il coinvolgimento dell’amministratore di fatto in situazioni che richiedono un maggiore potere decisionale al fine di risolvere problematiche, l’utilizzo a propria discrezione sia dei locali della società nonché del personale amministrativo.
In dette ipotesi, il relativo accertamento costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione.[8]
Inoltre la Cassazione ha precisato che “in nessun modo la norma postula [omissis] un esercizio di tutti i poteri propri dell’amministratore di diritto”; pertanto “continuità e significatività non comportano necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, [omissis]. E l’amministratore di diritto, anche nel caso di organo gestorio monocratico, non esercita sempre e continuativamente tutti i poteri che gli competono in virtù della carica, dipendendo il loro esercizio dalle concrete vicende di fatto relative alla vita della società e alla durata del mandato”.[9]
Peraltro “la previsione di cui all’art. 2639 c.c. non esclude che l’esercizio dei poteri e delle funzioni possa verificarsi in concomitanza con l’esplicazione dell’attività di altri soggetti di diritto, i quali, anche contemporaneamente, esercitino in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”.[10]
In altri termini “la effettiva gestione da parte dell’amministratore formale non esclude la concorrente responsabilità del coamministratore di fatto, ove sia comprovata una gestione paritetica”.[11]
Regime di responsabilità
La principale conseguenza del riconoscimento della figura dell’amministratore di fatto consiste nel suo assoggettamento all’intera gamma dei doveri propri dell’amministratore formale della società.
Di conseguenza, ove ne ricorrano le condizioni di ordine soggettivo e oggettivo, l’amministratore di fatto è penalmente responsabile per la violazione dei predetti doveri.
Nel diritto penale, infatti, fondamentali principi sono quelli sanciti dall’art. 27 Cost. secondo il quale “la responsabilità penale è personale” e quello di colpevolezza secondo cui si risponde per un fatto proprio e colpevole.
Corollario di tali principi è il carattere effettivo dell’imputazione penale a prescindere dall’investitura formale. Di conseguenza il soggetto che di fatto gestisce la società è chiamato a rispondere penalmente non a titolo di concorso dell’extraneus nel reato proprio dell’intraneo, bensì quale diretto destinatario della fattispecie incriminatrice.
Inoltre la responsabilità dell’amministratore di fatto non esclude quella dell’amministratore di diritto.
In relazione alla responsabilità penale di quest’ultimo, secondo la giurisprudenza, non sarà sufficiente il mero dato formale ma bisognerà verificare la sussistenza di una sua partecipazione alla commissione del reato o quantomeno la consapevolezza delle condotte criminose poste in essere dall’amministratore di fatto.[12]
L’amministratore di diritto, “quale mero prestanome, è responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell’evento ex art. 40, secondo comma c.p. e 2932 c.c. a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla fattispecie incriminatrice”.[13]
Risulta dunque necessario individuare l’elemento psicologico dell’amministratore di diritto ai fini dell’imputazione allo stesso di una responsabilità penale.
In tal caso la tendenza è quella di far ricorso al dolo eventuale consistente nella generica consapevolezza del reato e basato sull’omesso impedimento di quest’ultimo in violazione dell’obbligo ex art. 2392 c.c. I
nfatti la Cassazione sancisce che “il prestanome che, accettando la carica ha anche accettato i rischi ad essa connessi, risponde comunque a titolo di dolo eventuale esponendosi alle conseguenze dell’operato dei gestori reali e dunque alla possibilità che questi pongano in essere, attraverso il paravento loro prestato con la carica ricoperta, attività non legali, in base alla posizione di garanzia di cui all’art. 2392 c.c., in forza della quale l’amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi”.[14]
Si segnala da ultimo l’orientamento giurisprudenziale, costantemente recepito, in base al quale l’amministratore di fatto è responsabile penalmente anche per le condotte omissive in base all’ art. 40 cpv. c.p., disposto normativo che produce un ampliamento del novero dei soggetti garanti, riconoscendo la sussistenza in capo ai soggetti di fatto dell’obbligo di impedire la commissione di reati.
Al riguardo, in una recente sentenza, la Cassazione ha ribadito che “ [omissis] ove pure si dovesse ritenere riferibile all’amministratore di diritto la condotta illecita, quello di fatto, ricorrendo le altre condizioni di ordine oggettivo o soggettivo, non andrebbe esente da responsabilità ai sensi dell’art. 40 citato; a lui una corresponsabilità può essere imputata in base alla posizione di garanzia di cui agli artt. 2392 e 2394 c.c., in forza dei quali l’amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per le società e per i terzi. Il soggetto il quale abbia assunto, in base all’art. 2639 c.c., la qualifica di amministratore di fatto, essendo tenuto ad impedire ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p. le condotte illecite riguardanti la gestione della società o a pretendere l’esecuzione degli adempimenti previsti dalla legge, è responsabile di tutti i comportamenti, sia omissivi che commissivi, posti in essere dall’amministratore di diritto [omissis]”.[15]
[1] Tra le diverse sentenze, si cita Cass., Sezione V penale, 3 dicembre 2019, n. 49126.
[2] Così ABRIANI Niccolò, Gli amministratori di fatto delle società di capitali, Giuffrè, Milano, 1998, pagg. 216 ss.
[3] Cfr. ALPA Guido – MARICONDA Vincenzo, Art. 2639, in Codice civile commentato, Vol. 2, Ipsoa, Milano, 2013, i quali sostengono che, all’interprete, è affidato un giudizio di analogia, non di identità, che riguarda la corrispondenza di una base essenziale di funzioni, e non la coincidenza del complesso di attribuzioni, anche se ciò comporta che tale compito, affidato all’interprete, risulti estremamente vago e censurabile in punto di determinatezza.
[4] Cfr. Cass. Pen., Sez V, 17 giugno 2016, n. 41793; Cass. Pen., Sez. II, 16 settembre 2022, n. 34381.
[5]CASTELLANA Agata Maria, L’equiparazione normativa degli autori di fatto agli autori di diritto per i reati del riscritto titolo XI, libro V c.c., in Indice Penale – Rivista giuridica e criminologica (ISBN , 0019-7084), Dike Giuridica, Napoli, 2005, pag. 481.
[6] Cfr. ex plurimis, Cass. Pen., Sez V, 2 febbraio 2024, n. 4816.
[7] Cfr. Cass., Sez. V., 17 giugno 2016, n. 41793.
[8] Cfr. Cass. Pen., Sez V, 27 giugno 2019, n. 45134
[9] Testualmente, Cass. Pen., Sez V., 14 aprile 2003, n. 22413
[10] Testualmente, Cass. Pen, Sez V, 24 aprile 2020, n. 19212.
[11] Testualmente, Cass. Pen., Sez III, 11 novembre 2022, n.42915.
[12] GENNANI Sara e TRAVERSI Alessandro, Anche il direttore commerciale può rispondere penalmente come amministratore di fatto, in Società e Contratti, Bilancio e Revisione, n. 6, Eutekne, Torino, 2021.
[13] Cass. Pen., Sez. III, 14 maggio 2015, n. 38780.
[14] Cass. Pen., Sez. III, 20/01/2017, n. 18924. Nello stesso senso, cfr. Cass. Pen., Sez. III, 26 gennaio 2006, n. 7208; Cass. Pen. Sez. III, 6 aprile 2006, n. 22919; Cass. Pen. Sez. III, 19 novembte 2013, n. 47110; Cass. Pen. Sez. V, 28 maggio 2014, n. 44826; Cass. Pen. Sez. V, 7 gennaio 2015, n. 7332; Cass. Pen. Sez. V, 21 gennaio 2015, n. 10498; Cass. Pen. Sez. III, 14 maggio 2015, n. 38780; Cass. Pen., Sez. V, 12 maggio 2016, n. 47239.
[15] Tra le tante, si segnala Cass. Pen., Sez. V., sentenza 19 gennaio 2024, n.2514.
Dott.ssa Francesca Costantino