Danno morale come categoria di danno non patrimoniale. Cenni su natura giuridica e personalizzazione

Il danno morale soggettivo si determina nella perturbatio dell’animo della vittima e rientra nell’ampia classe del danno non patrimoniale.

La legittimità a ottenere il risarcimento da parte di coloro che lo subiscono si rinviene nel dettame dell’art. 2059 del codice civile.

A tal proposito, è prodromico palesare il criterio di distinzione tra danno morale e danno psichico: il primo consiste in una mera sofferenza psichica (pretium doloris), invece il danno psichico consiste nella devianza patologica dell’ordinario decorso psichico che ha subito il danneggiato e di conseguenza costituisce una lesione all’integrità psico-fisica, rientrando nella sfera del danno biologico.

Per i motivi suesposti, non si può considerare più intenso il primo rispetto al secondo. Il danno morale, dunque, inteso come sofferenza soggettiva, rappresenta – come detto – una voce della più estesa classe del danno non patrimoniale e ben può derivare da un inadempimento di natura contrattuale che pregiudichi un diritto inviolabile della persona.

Il danno morale si manifesta come danno da stress o da patema d’animo, la cui risarcibilità postula la sussistenza di un pregiudizio sofferto dal titolare dell’interesse leso che pertanto avrà l’onere della prova dell’effettivo danno subito, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici.

Altro aspetto caratterizzante il danno morale è la sua autonomia rispetto a qualsiasi altra fattispecie di danno non patrimoniale, consistendo in una sofferenza di natura assolutamente interiore (individuale) e per niente relazionale: di conseguenza legittima il danneggiato a chiedere un risarcimento come compenso aggiuntivo, a prescindere dalla personalizzazione prevista per la compromissione degli aspetti puramente dinamico-relazionali della vita individuale[1].

La risarcibilità del danno morale presuppone un fatto illecito (contra jus) e, a tal proposito, è stato rilevato, in dottrina, come un modello, in cui il rimedio risarcitorio venga disancorato da qualsiasi considerazione dei riflessi negativi a carico della vittima, porterebbe ad un inevitabile snaturamento dell’istituto aquiliano.

La rinuncia a transitare attraverso una nozione di danno distinta dall’illecito spinge, infatti, verso un allargamento ingovernabile dei confini del danno risarcibile; né tale problema potrebbe essere aggirato mediante l’introduzione di un filtro selettivo, costituito dalla rilevanza costituzionale dell’interesse leso.

Proprio dalle applicazioni giurisprudenziali, emerge la tendenza a ravvisare la violazione di un interesse protetto a livello costituzionale, qualunque sia il genere di torto in questione.

Le corti pervengono cioè all’individuazione (o meglio, vera e propria creazione) di diritti soggettivi aventi rilevanza costituzionali, al solo scopo di assicurare alla vittima il risarcimento di questa nuova voce di danno[2].

Nella classe del danno non patrimoniale, sono collocate tutte quelle ipotesi di lesione di valori riguardanti la persona, come il danno morale soggettivo e il danno biologico, nonché il danno dinamico – relazionale (danno esistenziale).

Secondo la pacifica interpretazione giurisprudenziale, il risarcimento del danno biologico è legato alla lesione del diritto costituzionale alla salute sancito dall’art. 32 della Costituzione, ritenendo risarcibili, oltre al danno morale e al danno non patrimoniale, nei casi espressamente previsti dalla legge, anche tutti i danni non patrimoniali che conseguono ad una lesione di diritti costituzionalmente garantiti, ivi compresi il danno biologico e tutti quei pregiudizi di carattere esistenziale subiti dalla vittima.

In tal senso, il diritto alla salute, sancito dall’art. 32, si rivela essere l’unico diritto costituzionale considerato assolutamente inviolabile ed è la fonte normativa del danno biologico.

Al fine di evitare che qualsiasi mutamento dell’umore possa essere considerato un danno alla salute, è fondamentale distinguere, sul piano giuridico, il danno morale dal danno psichico.

Infatti, il danno psichico si fonda su un’alterazione patologica delle funzioni psichiche dell’individuo, la quale deve essere riconosciuta dalla scienza medica in generale e dalla psichiatria in particolare e di conseguenza accertabile da un punto di vista medico-legale. Il danno morale, invece, non altera in modo patologico le funzioni psichiche del danneggiato, sebbene il medesimo ne subisca delle sofferenze.

Altro presupposto per cui possa delinearsi un diritto al risarcimento è proprio la sussistenza di un fatto illecito, come innanzi anticipato, la cui essenza incide sulle modalità e sulla tipologia del risarcimento dovuto al danneggiato, proprio perché il fatto illecito in sé integra e rappresenta una violazione del diritto e perciò la causa stessa del danno ingiusto.

L’illecito civile, e con esso la correlativa responsabilità, è previsto e disciplinato sia all’art. 2043 c.c., che regola il principio generale dell’ingiustizia del danno erga omnes e della violazione del principio del neminem laedere (responsabilità aquiliana o extracontrattuale), sia dall’art. 1218 c.c., ove il danno sia ingiusto a causa di un inadempimento inerente a un precedente rapporto obbligatorio (responsabilità contrattuale).

In sostanza, per il nostro diritto vigente, l’illecito civile postula sia la responsabilità di natura contrattuale che quella di matrice extracontrattuale, di conseguenza il danneggiato è legittimato ad agire per il ristoro dei danni promananti da entrambe le tipologie di responsabilità.

Più specificamente, la classe del danno non patrimoniale reca in sé in tre sotto-categorie, quelle del danno biologico, del danno morale e del danno dinamico-relazionale (danno esistenziale).

Per quanto riguarda la liquidazione del danno morale, non potrà che essere rigidamente equitativa, atteso che, quand’anche il giudice di merito ricorresse a indici valutativi oggettivi e schematizzati, non potrebbe esimersi dall’effettuare una necessaria personalizzazione del risarcimento, al fine di adeguare concretamente il ristoro al fatto lesivo patito[3].

Da quanto finora esposto, emerge in modo sempre più inconfutabile come sia necessario procedere a un’adeguata parametrazione, della liquidazione del danno non patrimoniale, alle caratteristiche personali del soggetto leso, proprio perché è fondamentale prendere in considerazione l’effettiva e precipua entità della sofferenza morale che prova il danneggiato, anche procedendo secondo un criterio di valutazione presuntiva.

A proposito di personalizzazione, è bene precisare come questa rappresenti un’operazione che consente al giudice di applicare una maggiorazione del danno rispetto a quello forfettizzato in base ai criteri tabellari preconfezionati.

Gli Ermellini, riprendendo un ormai consolidato orientamento, hanno stabilito che tale operazione non costituisce mai un automatismo e deve sempre trovare giustificazione nel positivo accertamento di specifiche condizioni eccezionali, ulteriori rispetto a quelli ordinariamente conseguenti alla menomazione[4].

È necessario che la vittima alleghi e provi, come innanzi accennato, durante il giudizio, quanto le conseguenze derivanti dal danno siano circostanze eccezionali e specifiche rispetto a quelle che ordinariamente sono incluse nella liquidazione tabellare standard del danno medesimo.

Pertanto, non potrà essere considerata quale personalizzazione l’impossibilità a cimentarsi in attività fisiche e nemmeno la lesione alla capacità lavorativa generica, in quanto già ricomprese nell’ambito del danno biologico.

Qualora, invece, la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali, l’ammontare del risarcimento potrà essere aumentato, anche con riferimento alle condizioni soggettive del danneggiato, fino al 30%, così come stabilito dall’art. 138 n. 3 del Codice delle Assicurazioni.


[1] Cfr. Cass., 9 novembre 2021, n. 32935.

[2] Cfr. CENDON Paolo – ZIVIZ Patrizia, Il risarcimento del danno esistenziale, Giuffré, Milano, 2003.

[3] Cfr. Cass., 24 ottobre 2022, n. 31332.

[4] Cfr.  Cass., 10 novembre 2020, n. 25164.

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