Permessi retribuiti ex art. 33 Legge 104/1992: dedicare poco tempo all’assistenza della persona con disabilità giustifica il licenziamento

ABSTRACT

La Suprema Corte di Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con l’Ordinanza n. 11999 del 3 maggio 2024, ha ribadito che il permesso ex art. 33 della Legge n. 104 del 1992 viene riconosciuto al lavoratore esclusivamente per prestare assistenza alla persona con disabilità.

A tal fine deve sussistere una relazione causale diretta tra l’assenza dal lavoro e le predette prestazioni assistenziali atteso che il permesso non svolge una “funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per la detta assistenza“.

Pertanto, “il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari“.

Premessa

La Legge 5 febbraio 1992, n. 104, con l’entrata in vigore delle modifiche recentemente introdotte dal Decreto Legislativo 3 maggio 2024 n. 62, presenta innovazioni terminologiche e sistemiche che tendono a dare forma e sostanza ai principi generali di piena dignità e massima autonomia che l’ordinamento si propone di assicurare e garantire a tutte le “persone con disabilità”, nuova formula di sintesi che va a sostituire le precedenti analoghe (cfr. art. 4, comma 1, lett. b), con l’intento dichiarato di adeguare anche il linguaggio a quegli standard internazionali di tutela previsti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata a New York, il 13 dicembre 2006, e successivamente ratificata e resa esecutiva, con Legge 3 marzo 2009, n. 18. 

Le modifiche apportate alla Legge 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone con disabilità) rientrano a tutti gli effetti in quel vasto programma di riforme, introdotte con la Legge 22 dicembre 2021, n. 227, recante “Delega al Governo in materia di disabilità” per l’attuazione di uno degli obiettivi previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ovvero il raggiungimento della Missione 5, Componente 2, del PNRR.

È appena il caso di ricordare che il progetto riformatore prevede: 1) la “Riqualificazione dei servizi pubblici per l’inclusione e l’accessibilità”, attuata con Decreto Legislativo 13 dicembre 2023 n. 222; 2) la “Istituzione dell’Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità”, di cui al Decreto Legislativo 5 febbraio 2024, n. 20 ; 3) la “Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato”, a cui è stato dedicato il recentissimo intervento normativo, strettamente correlato alla legge quadro del 1992, con particolare riguardo all’aspetto dell’assistenza concreta ed effettiva da prestare alla persona con disabilità che ha “necessità di sostegno elevato o molto elevato” (cfr. art. 4, comma 1, lett. c), D. Lgs. 62/2024), tema centrale della sentenza in commento.

La vicenda

Come è noto, l’art. 33 della Legge 104, al terzo comma, riconosce in capo ai familiari che lavorano e contestualmente prestano assistenza a una persona con disabilità, non ricoverata a tempo pieno e con necessità di sostegno elevato, un “diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa“.

Tizio, dipendente della Banca Alfa, nell’esercizio di questo diritto finalizzato ad assistere l’anziana madre con problemi di deambulazione, nei giorni di permesso agevolato, veniva ripetutamente individuato in luoghi e situazioni incompatibili con le dovute prestazioni assistenziali e pertanto, sulla scorta delle risultanze investigative predisposte e acquisite da parte datoriale, veniva licenziato con giusta causa per abusivo ricorso all’utilizzo dei permessi de quibus.

Nel giudizio di primo grado, conseguente alla contestazione di Tizio in merito alla legittimità di questo licenziamento, il Tribunale adito sovvertiva gli esiti dell’ordinanza confermativa del licenziamento, resa in sede sommaria, e condannava la banca a reintegrare il lavoratore, col pagamento aggiuntivo di una somma – pari a 12 mensilità – a titolo di indennità risarcitoria.

Nel secondo grado di giudizio, la Corte d’Appello, ricostruiva in dettaglio le condotte, come provate in base alle risultanze istruttorie, individuando in particolare due elementi decisivi: a) il lavoratore, in sede disciplinare, si era difeso senza mai menzionare quel trasferimento della madre presso la sua abitazione che, poi, in sede giudiziale, è diventato il nucleo centrale delle difese che il figlio ha svolto per contestare la validità degli addebiti che gli erano stati rivolti; b) in concreto risulta provato che il dipendente della banca non utilizzava i permessi per assistere la madre, come previsto dalla legge, ma per svolgere attività personali, in quanto, in ciascuno dei quattro giorni che sono documentati dall’attività investigativa agli atti, per molte ore, Tizio risultava in giro per negozi, bar, mercati rionali, oltre ad aver accompagnato la moglie dal parrucchiere e il figlio presso una clinica.

Da questa sintesi – tutt’altro che esaustiva – delle varie attività svolte dal dipendente della Banca Alfa nelle ore di permesso, senza che queste avessero alcuna connessione effettiva con l’assistenza da prestare alla persona con disabilità, il collegio del gravame fa discendere la piena sussistenza degli addebiti a fondamento del provvedimento disciplinare, in quanto le condotte complessive del lavoratore risultano idonee a far venire meno la fiducia datoriale con un livello di gravità tale da giustificare il licenziamento, essendo impraticabile il prosieguo del rapporto di lavoro e l’eventuale applicazione di una sanzione disciplinare di diversa e minore entità.

In particolare, la Corte d’Appello evidenziava quanto segue:

La quantità del tempo dedicato ad incombenze estranee all’assistenza non può nemmeno dirsi compatibile con la salvaguardia degli spazi temporali adeguati per la cura delle personali esigenze di vita dell’assistente, che pure vanno tutelati, trattandosi di porzioni di tempo che, riguardati per singola giornata e complessivamente, occupano una parte invero rilevante del tempo destinato all’assistenza, non garantendo un intervento permanente, globale e continuativo nelle sfera individuale del disabile (così come richiesto dalla giurisprudenza, da ultimo Cass. n. 19580/2019)”.

L’Ordinanza n. 11999 del 3 maggio 2024

L’accertamento in fatto delle corti del merito si è basato principalmente sulle risultanze di una indagine investigativa che non è stata contestata nelle difese del lavoratore licenziato e che, in ogni caso, risulta perfettamente compatibile con la disciplina in materia di vigilanza sull’attività lavorativa di cui agli artt. 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori, come è attestato, ex multis, da Cass. n. 4984/2014, con specifico riferimento al controllo demandato dal datore di lavoro ad un’agenzia investigativa al fine di accertare la sussistenza di un utilizzo improprio dei permessi ex art. 33, Legge 104, da parte di un suo dipendente.

Il quadro che ne è emerso integra un abuso del diritto secondo la nozione risalente che lo ricollega alla violazione del dovere generale di correttezza e buona fede (cfr. Cass. n. 20106/2009, ex plurimis).

Sul punto, proprio la summenzionata sentenza del 2014 specifica come l’utilizzo dei permessi della Legge 104, “non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività“, costituisca una tipica ipotesi di abuso del diritto “giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro, come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente, ed integra, nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale“.

Nell’ordinanza in commento, la Suprema Corte, evidenzia in particolare come nessuna delle censure del lavoratore – articolate nei sette motivi del ricorso depositato – riesca minimamente a scalfire la fondatezza delle motivazioni che il collegio del gravame ha posto a fondamento della legittimità del provvedimento disciplinare di licenziamento.

– 1. Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7 della Legge n. 300 del 1970, dell’art. 2 della legge n. 604 del 1966, dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 112 c.p.c. – Col primo motivo di ricorso, la difesa del lavoratore, denuncia una ipotesi di violazione del principio di immodificabilità della contestazione di addebito che giustificherebbe il recesso, in quanto la banca inizialmente avrebbe accusato il suo dipendente «di non essersi mai recato presso l’abitazione della madre da assistere se non per un tempo molto limitato», per poi fondare la legittimità del licenziamento sul “diverso presupposto che comunque il numero di ore dedicate alla cura erano talmente poche da risultare elusive della stessa funzione dei permessi“.

La S. C. rileva prontamente l’infondatezza della censura, osservando come la Corte d’Appello non avesse fatto altro che limitarsi all’esame dei fatti contestati per procedere, poi, alla dovuta verifica degli addebiti contestati, “accertando in fatto che la condotta tenuta come risultata in concreto provata realizzava proprio la violazione contestata“, ovvero l’improprio utilizzo dei permessi ex art. 33 della Legge 104: è questa la giusta causa del licenziamento e, pertanto, non vi è stata alcuna modifica dell’addebito.

– 2. Violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c. – Il secondo motivo del ricorso del lavoratore applica la stessa argomentazione (la tesi secondo cui “la ricostruzione fattuale operata dalla Corte confliggerebbe con quella posta a base del licenziamento“) per ravvisare una violazione dell’onere di concisa motivazione in sentenza.

Il motivo è parimenti infondato.

Sul punto, la Corte – fermo restando quanto già rilevato in merito all’infondatezza del primo motivo – specifica che la sentenza soddisfa pienamente il parametro costituzionale dell’art. 111, sesto comma, Cost., come specificato nell’art. 132 c.p.c., in quanto i giudici del merito, “con motivazione tutt’altro che contraddittoria“, hanno ben spiegato l’ubi consistam della violazione contestata, tenendo conto di tutte le difese allegate dal dipendente che, però, non sono state ritenute sufficienti, alla luce del contrasto insanabile che sussiste tra la finalità assistenziale del permesso e la condotta in concreto, col tempo da dedicare alla madre bisognosa di sostegno che veniva in larga parte consumato in attività del tutto estranee a questa funzione.

D’altro canto, la censura in parola, sostanzialmente, “propone alla Corte di adottare una diversa lettura delle risultanze istruttorie che però non è consentita“. Né – a seguito della riforma dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del D.L. n. 83/2012, convertito con modificazioni, dalla L. n. 134/2012 – può essere ammissibile una censura per insufficienza della motivazione, rilevando ora soltanto la motivazione che dovesse rivelarsi del tutto carente o meramente apparente.

– 3. Violazione dell’art. 2119 c.c. in relazione all’art. 33 della legge n. 104 del 1992 – Il terzo motivo di ricorso rappresenta il nucleo centrale della questione in oggetto: il lavoratore insiste sulla rilevanza del trasferimento della madre bisognosa di assistenza presso la sua abitazione, in quanto questo elemento, unitamente alla connessione dei suoi allontanamenti da casa con le attività indirettamente correlate alla prestazione di assistenza, consentirebbe di ritenere assolta la funziona assistenziale.

La Suprema Corte chiarisce puntualmente le ragioni per le quali questo motivo di ricorso non può essere accolto.

Rileva in primo luogo la questione del trasferimento della persona con disabilità e necessità di assistenza presso un domicilio diverso da quello di sua residenza: “In tema di permessi ex art. 33 della L. n. 104 del 1992, grava sul lavoratore la prova di aver eseguito la prestazione di assistenza in un luogo diverso da quello di residenza della persona protetta” (Cass. n. 30462/2023).

In secondo luogo, la funzione assistenziale è da porre in relazione causale e diretta con le assenze giustificate e retribuite dal lavoro. Non vi è riposo compensativo nei permessi de quibus, argomento questo che emerge con chiarezza anche da Cass. n. 14187/2017 che espressamente afferma che tali permessi “concorrono alla determinazione dei giorni di ferie maturati dal lavoratore che ne ha beneficiato, in quanto il diritto alle ferie, assicurato dall’art. 36 Cost., garantisce il ristoro delle energie a fronte della prestazione lavorativa svolta e ciò si rende necessario anche in caso di assistenza ad un invalido, che comporta un aggravio in termini di dispendio di energie fisiche e psichiche“.

È dunque attraverso questo meccanismo specifico che si garantisce il riposo compensativo, ciò che conferma altresì la correlazione tra l’assistenza da prestare alla persona con disabilità e l’orario di lavoro dei singoli giorni di permesso.

In terzo luogo – e conseguentemente – “il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari” (Cass. n. 17968/2016).

Tale principio giurisprudenziale consolidato viene ribadito più in dettaglio da Cass. n. 19580/2019 che – con specifico riferimento alla fattispecie analoga dei congedi straordinari ex art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001 – precisa che naturalmente la prestazione di assistenza del familiare lavoratore della persona con necessità di sostegno non deve essere svolta in maniera tale “da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita” e, tuttavia, l’opera assistenziale deve pur sempre avere “carattere permanente, continuativo e globale nella sfera individuale e di relazione” e, quindi, tutte le volte in cui “il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile» si riduce ai minimi termini o si rivela essere del tutto assente o comunque significativamente carente, «si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo“.

In questo quadro di principi di diritto, il collegio del gravame ha svolto le sue valutazioni sulla condotta tenuta dal lavoratore nei giorni di permesso e, soprassedendo sulla circostanza che il trasferimento della madre del lavoratore presso il suo domicilio non risultasse del tutto provato, “con apprezzamento di fatto a quel giudice demandato, ha ritenuto che le assenze dal domicilio non fossero funzionali alla cura, pure in senso lato», della persona che necessitava di essere assistita.

La Corte del merito, sul punto, è stata estremamente chiara: anche ammettendo che il figlio avesse provveduto a trasferire l’anziana madre a casa sua, «in ogni caso le ore dedicate ad incombenti diversi e non connessi all’assistenza erano di misura tale da giustificare gli addebiti contestati“. 

– 4. Violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966 e dell’art. 2697 c.c. – Con il quarto motivo di ricorso la difesa del lavoratore ipotizza una inversione dell’onere della prova che si sarebbe realizzata come conseguenza del fatto che in sede giudiziale sarebbe stata esclusa la possibilità di dimostrare l’infondatezza degli addebiti che avevano giustificato il licenziamento, «anche a prescindere dalle difese opposte in sede disciplinare».

Gli Ermellini evidenziano qui che il motivo in oggetto non può essere accolto in quanto l’onus probandi a carico del datore di lavoro era stato pienamente assolto con l’allegazione della relazione investigativa (ammissibile e non contestata) che attestava in maniera circostanziata la frequenza e le prolungate modalità con le quali “il dipendente in permesso non si era recato al domicilio dichiarato della madre“.

Gravava invece sul dipendente l’onere della prova di aver assolto in ogni caso la funzione assistenziale, “eventualmente dimostrando che gli allontanamenti erano comunque in qualche modo funzionali alla cura“.

Nel giudizio di merito la ripartizione dell’onere della prova risulta pertanto corretta, così come sono stati vagliati in dettaglio “i mutamenti della strategia difensiva“, giungendo alla conclusione motivata e documentata della loro insufficienza, con conseguente convalida del recesso datoriale per giusta causa.

– 5. Violazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. – La quinta censura, che riguarda l’omesso esame di fatti ritenuti dal lavoratore decisivi per il giudizio, risulta del tutto inammissibile poiché la difesa non chiarisce in alcun modo come e perché le circostanze di cui si ravvisa la mancata considerazione (due trasferimenti del lavoratore, “prima a P e poi, in sede di  conciliazione, a F“) risulterebbero decisive per una più corretta valutazione in merito alle «modalità di godimento dei permessi».

– 6. Violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 4, della Legge n. 300 del 1970 – Del pari è inammissibile la sesta censura, con la quale il lavoratore cerca di reintrodurre nuovamente in sede di giudizio di legittimità una diversa lettura dei fatti, fondata sempre sul rilievo del trasferimento della madre e sulla insussistenza quindi del fatto contestato a titolo di giusta causa di licenziamento.

Sul punto, la Suprema Corte ribadisce l’incensurabilità degli apprezzamenti di fatto della Corte di merito che ha motivatamente e dettagliatamente valutato «l’esistenza del fatto addebitato e la sua rilevanza disciplinare».

– 7. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c. – Il settimo e ultimo motivo di ricorso denuncia una ipotesi di omessa valutazione in merito alla proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto alla condotta effettiva, concretamente addebitabile al lavoratore.

Anche questo motivo è del tutto infondato atteso che la Corte d’Appello ha svolto – seppur sinteticamente – il giudizio di proporzionalità con espresso riferimento alla lesione del vincolo fiduciario che emergeva dalla complessiva condotta del lavoratore, anche avendo riguardo agli atteggiamenti comunque elusivi emersi in sede disciplinare.

È appena il caso di ricordare, per l’ennesima volta, che il dettagliato accertamento in fatto svolto dai giudici del merito non può essere oggetto di diverso apprezzamento in sede di legittimità e che pertanto non sussiste la violazione di legge in parola, a fronte di “una patente violazione degli obblighi in relazione ai quali la legge accorda i permessi” e dell’accertamento, svolto “in considerazione tutti i possibili profili“, della mancanza di correlazione tra “le attività svolte all’esterno” e la prestazione assistenziale, “anche solo indiretta“, che complessivamente – come più volte evidenziato – non veniva assicurata con la necessaria e dovuta continuità. 

Le massime

«Si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti».

CED CASSAZIONE – Sent. n. 20106 del 18 settembre 2009

1. «Il controllo, demandato dal datore di lavoro ad un’agenzia investigativa, finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio, da parte di un dipendente, dei permessi ex art. 33 legge 5 febbraio 1992, n. 104 (contegno suscettibile di rilevanza anche penale) non riguarda l’adempimento della prestazione lavorativa, essendo effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa, sicché esso non può ritenersi precluso ai sensi degli artt. 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori».

2. «Il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, si avvalga dello stesso non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi di abuso del diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro, come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente, ed integra, nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale».

CED CASSAZIONE – Sent. n. 4984 del 4 marzo 2014

«Il permesso ex art. 33 della l. n. 104 del 1992 è riconosciuto al lavoratore in ragione dell’assistenza al disabile, rispetto alla quale l’assenza dal lavoro deve porsi in relazione causale diretta, senza che il dato testuale e la “ratio” della norma ne consentano l’utilizzo in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per la detta assistenza. Ne consegue che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari».

CED CASSAZIONE – Sent. n. 17968 del 13 settembre 2016

«I permessi di cui all’art. 33, comma 3, della l. n. 104 del 1992 (nella specie accordati per l’assistenza a genitore portatore di handicap), fondati sulla tutela dei disabili prevista dalla normativa interna (artt. 2, 3 e 38 Cost.) ed internazionale (direttiva n. 2000/78/CE e Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata e resa esecutiva con l. n. 18 del 2009), concorrono alla determinazione dei giorni di ferie maturati dal lavoratore che ne ha beneficiato, in quanto il diritto alle ferie, assicurato dall’art. 36 Cost., garantisce il ristoro delle energie a fronte della prestazione lavorativa svolta e ciò si rende necessario anche in caso di assistenza ad un invalido, che comporta un aggravio in termini di dispendio di energie fisiche e psichiche».

CED CASSAZIONE – Ord. n. 14187 del 7 giugno 2017

«In tema di congedo straordinario ex art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, l’assistenza che legittima il beneficio in favore del lavoratore, pur non potendo intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, deve comunque garantire al familiare disabile in situazione di gravità di cui all’art. 3, comma 3, della l. n. 104 del 1992 un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale nella sfera individuale e di relazione; pertanto, ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo».

CED CASSAZIONE – Sent. n. 19580 del 19 luglio 2019

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