L’aceto ed il Duca d’Este ovvero il diritto all’immagine delle opere d’arte

I beni culturali costituiscono parte integrante dell’identità di un popolo, costituzionalmente garantita.

L’esigenza di classificare taluni beni come culturali è sentita ed assecondata in molti ordinamenti giuridici. Tale concezione è finalizzara ad assicurare, in qualche misura, una precipua tutela ai beni ritenuti di particolare importanza per la loro attitudine e, se si vuole, prerogativa ad esprimere e narrare, di una nazione o comuque di una civiltà, la storia, la specificità, l’arte, la cultura, i valori e i modelli comportametali comuni.

La locuzione beni culturali è stato coniata nella Convenzione dell’Aia del 1954, dedicata alla protezione dei detti beni nel caso di controversie. Sino ad allora si adoperava il termine latino monumentum, la cui radice etimologica risiede nel verbo monere, come azione di esortazione al ricordo, di invito a richiamare, nell’odierno, un valore che fu.

L’espressione bene culturale enuncia un’entità giuridica che assomma in sé i caratteri materiali della res e quelli immateriali del simbolo, del significato, del rimando e della rappresentazione. Tale duplicità di natura evidentemente impone, come si vedrà, una tutela a sua volta bipartita.

Frattanto va premesso che i beni culturali costituiscono beni di tutti, proprio in quanto retaggio di un’immanenza culturale che fonde ed accomuna un popolo ed un territorio nelle sue vicende storiche. Lo sono altresì giacché destinati a poter essere fruibili dalla più ampia platea di beneficiari a godimento di un inalienabile bisogno di cultura.

Soprattutto in tale ultimo senso, sembrerebbe logico e conseguenziale la predisposizione da parte degli ordinamenti giuridici ad agevolare al massimo grado la circolazione delle informazioni legate ai beni culturali, assicurando estensivamente la facoltà di accedere non solo direttamente al luogo dove il bene è ubicato o custodito, ma anche di poter prendere conoscenza dei caratteri specifici, delle qualità estetiche e delle forme del bene tramite la disponibilità di riproduzioni, per così dire, illustrative.

Tuttavia, in un’epoca dalla spiccata possibilità di riproduzione (su qualsiasi supporto e in qualsivoglia formato) e diffusione dell’immagine, dovuta all’enorme e pervasivo progresso tecnologico, si pongono questioni legate allo sfruttamento commerciale dell’immagine stessa.

Già la Corte di Cassazione, con la decisione n. 18218/2009, aveva statuito che la tutela civilistica del nome e dell’immagine, ai sensi degli artt. 6, 7 e 10 c.c., è invocabile non solo dalle persone fisiche ma anche da quelle giuridiche e dai soggetti diversi dalle persone fisiche e, nel caso di indebita utilizzazione della denominazione e dell’immagine di un bene, la suddetta tutela spetta sia all’utilizzatore del bene in forza di un contratto di leasing, sia al titolare del diritto di sfruttamento economico dello stesso.

In tal modo, era stato posto un primo importante tassello alla riconducibilità del diritto all’immagine anche alle res ed a beneficio degli enti, con la correlata duplice tutela risarcitoria secondo i paradigmi di cui agli artt. 2043 e 2059 c.c.

Ma sopratutto era stata ammessa un’autonoma valenza giuridica all’immagine in sé, indipendentemente se promani da un bene o da una persona, che dunque assurge in re ipsa a bene giuridico meritevole di protezione.

Più di recente, una serie di pronunce dei Giudici di merito ha meglio delineato i profili di tutela del diritto all’immagine in tema di beni culturali.

L’utilizzo indiscriminato dell’immagine, o la sua riproduzione per finalità economica, è fonte non solo di risarcimento del danno patrimoniale, quando non ne sia sta chiesta la preventiva autorizzazione[1] a chi ha in consegna il bene[2], a cui sovente si associa il pagamento di un canone fisso[3], ma anche di ristoro del danno non patrimoniale ove il bene e la sua immagine vengano svilite od offuscate, mortificando e umiliando l’alto valore simbolico e identitario dell’opera d’arte, perseguendo finalità pubblicitarie o di promozione commerciale dell’azienda utilizzatrice o di un suo prodotto o servizio.

Riecco la duplice protezione. Vanno pertanto individuate le conseguenze di un uso dell’immagine senza previa autorizzazione, discriminando l’ipotesi in cui l’assenso, ove richiesto, sarebbe stato concesso perché ritenuto compatibile con la destinazione culturale del bene, dal caso in cui l’assenso non sarebbe stato concesso per l’inosservanza della sua destinazione culturale ovvero avvenuto nonostante un espresso divieto dell’Ente legittimato).

Nella prima ipotesi, va ristorato, come ammontare del danno, ciò che può definirsi eufemisticamente il prezzo del consenso, un quantum pari cioè all’importo del compenso che sarebbe stato pagato, alla stregua dei parametri ex art. 108 del Codice dei beni culturali, ove l’autorizzazione fosse stata rilasciata.

Nella seconda ipotesi, risulta integrato un danno addizionale risarcibile, di natura immateriale, da detrimento dell’immagine.

Una sentenza della Corte di Appello di Bologna, la n. 792/2024, è del tutto in linea con la giurisprudenza pregressa che riconosce autonoma tutela all’immagine delle opere d’arte.

In sintesi, questo il fatto oggetto della pronuncia in esame: un noto produttore di aceto balsamico di Modena è stato condannato per indebito utilizzo del noto ritratto del Duca Francesco I d’Este di Diego Velázquez, di proprietà della Galleria Estense di Modena, adoperandolo come marchio per i propri prodotti, pur non avendo né chiesto né, tanto meno, ricevuto la relativa autorizzazione amministrativa e proceduto al pagamento del canone prescritto. 

Per la Corte d’Appello di Bologna, “al pari del diritto all’immagine della persona, disciplinato dall’articolo 10 codice civile[4], può sicuramente configurarsi un diritto all’immagine con riferimento a un bene culturale in considerazione del suo valore collettivo, che trova il proprio fondamento normativo in un’espressa previsione legislativa ovvero negli artt. 107 e 108 del D.lgs. n. 42/2004, norme di diretta attuazione dell’art. 9 della Costituzione (Corte Cost. n. 194/2013) – che vietano la riproduzione di un bene in mancanza di approvazione (e pagamento del canone) – oltre che nei numerosi espressi richiami nello stesso codice al diritto all’immagine e al decoro del bene culturale”.

In particolare: “Il divieto di utilizzo dell’immagine di beni culturali senza specifica autorizzazione si ricollega quindi direttamente al principio per cui i beni culturali, qualora toccati da dinamiche di mercato, perderebbero il loro valore come individuato e ritenuto meritevole di tutela dal legislatore” e “solo un’autorizzazione amministrativa può rimuovere il limite all’esercizio dell’attività economica del privato, previa valutazione tecnico-discrezionale della compatibilità dell’uso dell’immagine con la destinazione culturale del bene”. 

Il richiamo dell’art. 9 della Costituzione afferisce specificamente alla parte in cui la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione“. Lo stesso art. 1 del Codice dei beni culturali detta che “in attuazione dell’art. 9 della Costituzione, la Repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale in coerenza con le attribuzioni dell’art. 117 della Costituzione e secondo le disposizioni del presente codice“.

Il fil rouge tra beni culturali e Carta costituzionale si pone come la base di principio per rinvenire la data cifra di inviolabilità assimilabile a quella riconosciuta ai diritti di cui all’art. 2 della Costituzione.

In concreto, è dunque l’elaborazione ermeneutica dei giudici ad avere segnato l’approdo al riconoscimento del diritto all’immagine anche ai beni culturali, facendo leva sugli artt. 107 e 108 del Codice dei beni culturali[5] i quali stabiliscono che, per il loro utilizzo, è, in taluni casi, necessaria un’autorizzazione e, in altri, è necessario anche pagare un canone.

I beni che rientrano in questa previsione sono elencati nell’art. 10 del Codice dei beni culturali e, tra questi, sono menzionati le opere d’arte, i monumenti e altri oggetti di rilevanza storica e artistica.

Come anticipato, quella della Corte di Appello di Bologna si inserisce nel solco già tracciato dalla giurisprudenza merito.

Il Tribunale di Firenze, adito dal Ministero della Cultura, con sentenza n. 1207/2023, ha censurato la riproduzione da parte dell’Editore della rivista GQ Italia, sulla copertina del numero 241, di un’immagine del David di Michelangelo, posta in sovrapposizione, tramite effetto lenticolare, a quella di un modello ritratto nei medesimi atteggiamenti della statua michelangiolesca.

Secondo i giudici fiorentini, l’utilizzo è risultato illegittimo non solo perché la convenuta l’ha posto in essere in assenza della necessaria autorizzazione da parte della Galleria dell’Accademia di Firenze, custode del bene culturale, senza peraltro averne pagato il dovuto compenso[6], ma anche perché la convenuta ha affiancato l’immagine del David a quella di un modello, “così svilendo, offuscando, mortificando, umiliando l’alto valore simbolico e identitario dell’opera d’arte ed asservendo la stessa a finalità pubblicitarie e di promozione editoriale”.

Il Tribunale ha dunque condannato non solo al risarcimento del danno patrimoniale, derivante dal mancato pagamento del corrispettivo dovuto per l’uso della riproduzione del David, ma anche del danno non patrimoniale, effetto della lesione del diritto all’immagine del bene culturale in questione, riconoscendone la risarcibilità, in virtù anche del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali tutelabili e quindi inviolabili.

Breviter, se l’art. 2 della Costituzione garantisce il diritto all’identità individuale, inteso come diritto a non vedere alterato all’esterno e quindi travisato, oscurato e contestato il patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico e professionale, nello stesso modo deve essere garantito il diritto all’identità collettiva dei cittadini che si riconoscono come appartenenti alla stessa Nazione anche grazie al suo patrimonio artistico e culturale.[7]

Se dunque tale diritto sussiste, non lo si può di certo escludere dalla sfera della risarcibilità. 

Il risultato, in definitiva, è stato un rafforzamento della tutela derivante dalla lesione dell’immagine dei beni culturali sul presupposto che il patrimonio artistico e culturale sia fondante dell’identità collettiva[8] nazionale[9].

Per quanto concerne il pagamento del canone, il D.M. 11 Aprile 2023, n. 161, dopo un anno dall’entrata in vigore, è stato sostituito, dal Ministero della Cultura (MiC), con l’emissione del D.M. 21 marzo 2024, n. 108, a causa delle numerose critiche[10] indotte dalla previsione di tassare in maniera generalizzata l’utilizzo delle immagini dei beni culturali anche per le pubblicazioni editoriali scientifiche, in violazione della libertà di ricerca[11], espressione e iniziativa economica in campo culturale.

Applicare una tassazione generalizzata significava infatti violare la libertà della cultura e del suo manifestarsi, nonché l’autonomia di tutte le strutture dedite alla promozione sua e della ricerca scientifica e tecnica. Tutto ciò con conseguente limitazione della possibilità di rinnovare i contenuti dell’insegnamento[12], di favorire l’elevazione professionale dei lavoratori e assicurare una sempre più adeguata sicurezza sociale[13] e sul lavoro[14].

La modifica del D.M. n. 161/2024 è dunque stata frutto della citata pletora di appelli da parte delle associazioni dei professionisti dei beni culturali e di molti studiosi che avevano tentato di riportare la politica nell’alveo dei principi della Convenzione di Faro[15] per favorire le condizioni di una ampia riutilizzabilità di dati e immagini del patrimonio culturale, in una logica di open access che individua nel libero riuso uno strumento fondamentale per incentivare la ricerca e la editoria, ma anche l’imprenditoria culturale e creativa.

ICOM[16] Italia, d’altro canto, ha denunciato l’ossessiva tendenza alla ricerca di reddito dal patrimonio culturale.

In particolare, ha apostrofato: “Questa politica miope, che vede nel patrimonio culturale solo un limone da spremere nell’intenzione di ridurre il disavanzo pubblico finisce per ripercuotersi contro chi studia e valorizza il patrimonio culturale e contro lo stesso ministero il quale, moltiplicando controlli, balzelli e autorizzazioni, si trova – e si troverà sempre di più – a sopportare oneri ben maggiori degli introiti derivanti dai canoni di concessione. È questo, ci chiediamo, ciò che auspica il Ministro della Cultura?

Sottolineava che “tassare ricerca e innovazione significa, inevitabilmente, introdurre inutili barriere e mortificare una moltitudine di iniziative che il ministero dovrebbe incoraggiare attivamente mettendo chiunque nelle condizioni di potere riutilizzare le immagini di beni culturali che gli appartengono”.

Con una precisazione allarmante: “L’autorizzazione all’uso commerciale – cui viene assimilata l’editoria scientifica – viene inoltre giustificata in base a presunte esigenze di “tutela del decoro”, avallando così vere e proprie forme di “censura preventiva” proprie di uno Stato etico più che di uno Stato laico e democratico quale dovrebbe essere oggi l’Italia…

Nella realtà, si assiste all’utilizzo sempre più frequente, da parte di molte aziende, di immagini di notissime opere d’arte del passato appunto per commercializzare e reclamizzare i propri prodotti, nella superficiale convinzione che trovi applicazione unicamente la previsione, di cui alla Legge n. 633/1941 sul Diritto d’Autore, secondo cui, decorso il massimo termine di tutela del copyright – 70 anni dalla morte dell’autore – ogni opera cadrebbe in pubblico dominio e sarebbe, per l’effetto, liberamente utilizzabile, con la sola eccezione degli usi suscettibili di ledere l’onore e il decoro dell’autore, che sono sempre perseguibili anche su iniziativa dei discendenti o del Ministero.

Tuttavia non è così come sembra. Il Codice dei Beni Culturali riserva all’autorità che ha in consegna il bene culturale (il museo, la pinacoteca, et similia), il potere di autorizzare la riproduzione dell’immagine dell’opera, previo pagamento del canone fissato dall’autorità medesima, mentre è libera la riproduzione delle opere protette solo se effettuata senza scopo di lucro (art. 108).

È la stessa Legge sul Diritto d’Autore, nel recepire la direttiva comunitaria n. 2019/790 (cosiddetta Direttiva Copyright), ad avere espressamente stabilito[17] che, anche quando scaduto il termine del diritto di utilizzazione esclusiva previsto dalla stessa legge a favore dell’autore e dei suoi aventi causa, “restano ferme le disposizioni in materia di riproduzione dei beni culturali di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”.

Ciò vuol dire che, per utilizzare l’immagine o la riproduzione di un’opera d’arte del passato ai fini commerciali, bisogna avere il consenso dell’ente che li ha in custodia, versando il contributo da questi previsto.

La giurisprudenza di merito ha confermato detta impostazione.

La citata sentenza del Tribunale di Firenze era stata preceduta dall’ordinanza del 24 ottobre 2022 con cui il Tribunale di Venezia aveva aveva ha accolto, in sede di reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c, l’inibitoria cautelare promossa, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., dal Ministero della Cultura e dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia contro una nota società tedesca, leader europea del settore ludico.

Focus della questione l’uso legato al merchandising, da parte della Ravensburger, dell’immagine dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci in un puzzle, senza alcuna previa concessione da parte dell’ente culturale dove è conservato il capolavoro. Nel percorso logico-argomentativo del Collegio veneziano, si delinea un’estesa prospettiva di bilanciamento tra le norme restrittive di cui agli artt. 107-108 D. lgs. n. 42/2004 ed i principi sanciti a livello unionale, in primis quello della libera prestazione di servizi di cui agli artt. 56-62 TFUE.

Il Tribunale di Venezia si era peraltro pronunciato in ordine al criterio di determinazione della competenza territoriale: mentre in un primo momento aveva dichiarato la propria incompetenza in favore di quella del Tribunale di Milano, luogo di commercializzazione, distribuzione e promozione del gioco; in sede di reclamo, aveva radicato la competenza presso di sé perché la condotta illecita non era collocabile fisicamente in un luogo determinato e quindi bisognava considerare il luogo di residenza del danneggiato, perché era lì che si era verificato il danno risarcibile e prodotti i suoi effetti negativi.

Ancora, il Tribunale aveva considerato applicabile la legge italiana, cioè dello Stato in cui è custodita l’opera d’arte e si erano avute le conseguenze dell’illecito, da qui l’applicazione del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio[18], come richiesto dalle Gallerie, parte ricorrente, e non la richiamata Direttiva Copyright.[19]

L’art. 14 di quest’ultima prevede che, alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arti visive, il materiale derivante dalla riproduzione di tale opera non sia più soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi.

Come anticipato, il legislatore italiano ha recepito tale articolo tramite il D.lgs. n. 177/2021, introducendo l’art. 32-quater alla Legge n. 633/1941 sul Diritto d’Autore e non modificando comunque quanto già previsto dal detto Codice, in materia di riproduzione dei beni culturali.

Emerge così un apparente contrasto tra la normativa nazionale contenuta nel Codice dei Beni Culturali, che appunto, agli articoli 108-109, sembra introdurre una royalty obbligatoria a favore degli enti che hanno in custodia le opere artistiche, e quanto invece viene stabilito dalla Direttiva Copyright, sarebbe necessario armonizzare le due normative.

La convenuta Ravensburger non aveva mai negato il fatto di aver riprodotto l’immagine dell’opera sul puzzle e di averlo commercializzato sia nel mercato fisico che online, in territorio italiano ed europeo, senza una preventiva autorizzazione delle Galleria dell’Accademia e senza avere mai corrisposto alcun canone di concessione.

Secondo il Tribunale di Venezia, la condotta di Ravensburger costituiva un illecito idoneo a cagionare un danno risarcibile, costituito dallo svilimento dell’immagine e della denominazione dell’opera, oltre che dalla perdita economica patita dal museo. Alla funzione del bene culturale e, ancor più incisivamente, all’idea di bene culturale quale “entità immateriale distinta dal supporto materiale cui inerisce e costituente un valore identitario collettivo destinato alla fruizione pubblica”, è stato riconosciuto rilievo assorbente sotto il profilo della gravità della lesione perpetrata all’immagine e al nome del bene, in punto di “danno risarcibile ex artt. 2043 c.c. e 2059 c.c., laddove il danno è costituito, in primo luogo, dallo svilimento dell’immagine e della denominazione del bene culturale (perché riprodotti e usati senza autorizzazione e controllo rispetto alla destinazione) e, in secondo luogo, dalla perdita economica patita dall’Istituto museale (per il mancato pagamento del canone di concessione e dei corrispettivi di riproduzione)”.

Lo sfruttamento dell’Uomo Vitruviano finiva per svilire l’immagine e il nome dell’opera stessa, causando un danno grave e irreparabile, dovuto peraltro al profilo ulteriore del perpetuarsi dell’utilizzo incontrollato, a fini commerciali, della riproduzione dell’opera da parte di una società avente un bacino di clientela così esteso sia a livello squisitamete quantitativo che di diffusione territoriale.

D’altro canto, non pareva sussistere, come in effetti non sussite, secondo il giudicante, un onere o un obbligo per le Gallerie di effettuare un controllo costante sul mercato, al fine di verificare periodicamente la presenza di prodotti che riproducono in maniera illecita l’immagine e il nome delle opere in esse custodite.

Un caso analogo è stato quello sollevato dalla Galleria degli Uffizi di Firenze, diffidando l’azienda Jean-Paul Gaultier, per la riproduzione in una collezione di capi di abbigliamento, dell’immagine della Venere di Botticelli, conservata ed esposta nel museo toscano, senza previa autorizzazione.

Il Tribunale di Firenze, con l’ordinanza in data 11 aprile 2022, si era espresso analogamente al Tribunale di Venezia per l’utilizzo dell’immagine del David di Michelangelo nella produzione di statue simili ad essa.

Presupposto indefettibile per la tutela contro l’utilizzo indiscriminato delle opere d’arte è che esse siano riconosciute come bene culturale ossia presentino interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente rilevante.

Si ricorda infine l’ordinanza emessa dal Tribunale di Firenze in data 26 ottobre 2017, con la quale è stato riconosciuto il diritto dell’autorità che ha in consegna un bene culturale di consentirne la riproduzione, tranne per i casi in cui avvenga senza scopo di lucro.

Il caso era quello di un’agenzia di viaggi che aveva riprodotto sul proprio materiale pubblicitario (biglietti, depliant e sito internet) l’immagine del David di Michelangelo senza l’autorizzazione della Galleria dell’Accademia di Firenze.

È una decisione storica perché, per la prima volta, è stata dichiarata l’esistenza del diritto all’immagine dei beni culturali come espressione dell’identità nazionale, e stabilita la necessità di un tariffario per l’uso delle immagini dei beni culturali statali da parte delle pubblicazioni scientifiche che, per molti professionisti, rientravano proprio nei criteri “didattici e di studio”.

In particolare, veniva sancito il principio per cui gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi di concessione per l’uso di spazi e la riproduzione dei beni culturali, in consegna ad istituti e luoghi della cultura dello Stato, assolvono la funzione di garantire la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale italiano “attraverso una adeguata remuneratività”.

In seguito, il citato D.M. n. 161/2023 hai poi espressamente previsto che, indipendentemente dal canone o dal corrispettivo individuato, la concessione per l’uso e la riproduzione dei beni culturali va, in ogni caso, subordinata alla previa verifica di compatibilità – di fatto, secondo una valutazione assolutamente discrezionale – della destinazione d’uso della riproduzione con il carattere storico-artistico del bene culturale.

Per tale ulteriore motivo, il D.M. del 2023 è stato aspramente criticato dal mondo scientifico, dalle consulte universitarie e da numerose associazioni: in pratica, non chiariva quali attività si sarebbero dovute considerare a scopo di lucro e forniva complesse modalità di calcolo dei corrispettivi dovuti.

Di qui il nuovo decreto ministeriale n. 108/2024 recante modifiche al D.M. in parola, attraverso le “Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali” che hanno semplificato le precedenti linee guida, rendendole di più immediata e pratica fruizione.

Più precisamente, le precedenti linee guida – così come le nuove, seppur con qualche differenza – individuavano, sulla base di differenti parametri, il quantum dovuto alle autorità competenti per la riproduzione a scopo di lucro delle immagini dei beni culturali e/o per l’utilizzo di spazi in consegna a istituti e luoghi della cultura nazionale.

Nelle nuove linee guida, il MiC ha specificato espressamente le ipotesi in cui le riproduzioni dei beni culturali e il loro riuso sono da considerarsi sempre gratuite.[20]

Al contrario, ove ha specificato che se le riproduzioni dei beni culturali o il riuso delle relative copie o immagini siano effettuati a scopo di lucro, il richiedente sarà tenuto al pagamento di un corrispettivo da calcolarsi moltiplicando i fattori esplicitati nelle tabelle riportate nell’Allegato al D.M. n. 108/2024, secondo il tipo di supporto e di formato.[21]

Con riferimento alla concessione d’uso di spazi presenti nell’ambito delle strutture in consegna ad istituti e luoghi della cultura, le linee guida distinguono in base a: a) uso degli spazi per finalità istituzionali: prevedendo, di regola, che nessun corrispettivo è dovuto al ricorrere di determinati requisiti; b) uso individuale: prevedendo che i canoni vengano individuati dall’istituto concedente a seguito di una mappatura degli spazi oggetto di concessione, e in considerazione di una serie di parametri.[22]

Rispetto all’uso individuale, le linee guida precisano che, ove il richiedente preveda un biglietto d’ingresso, oltre al canone, potrà essere previsto anche il pagamento in favore del concedente di una royalty da determinarsi in accordo tra le parti, sulla base del numero di biglietti venduti.

Rimane in ogni caso gratuito l’uso degli spazi connesso alla riproduzione dei beni culturali nell’esercizio del diritto-dovere di cronaca; eventi musicali e di spettacolo. Su tale ultimo punto, le linee guida hanno innovato maggiormente, prevedendo che, in caso di eventi musicali o di spettacolo realizzati da enti vigilati dal MiC e di particolare qualità artistica, l’autorità concedente – dopo un attento esame circa la valorizzazione, l’apporto della notorietà e della divulgazione culturale e turistica per lo spazio e il territorio – può valutare una riduzione o un azzeramento del canone, previo tuttavia il parere dell’organo amministrativo di vertice del MiC.

Le nuove linee guida hanno inoltre modificato le ulteriori ipotesi particolari[23] in cui ugualmente l’autorità che ha in consegna il bene potrà valutare una riduzione del canone, fermo restando che per le riduzioni consistenti e per l’azzeramento del canone è comunque richiesto il parere dell’organo amministrativo di vertice del MiC.

Senza dubbio la concreta protezione – edificata con encomiabile acume giuridico – apportata al diritto all’immagine dei beni culturali con i prefati strumenti e calibrata in ordine all’ampia casistica, costituisce già un esempio di buona pratica, ancorché perfettibile, per prevenire lo sradicamento culturale e l’appiattimento delle differenze, perpetrati, in modo più o meno consapevole, dai tentacoli, da celato leviatano di hobbesiana memoria, del villaggio globale.


[1] Secondo il Codice dei Beni Culturali (D.lgs. n. 42/2004): “Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro che presentano un interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico,” (art. 10) – riserva allautorità che ha in consegna il bene culturale (per esempio, il museo, la pinacoteca, ecc.), il potere di autorizzare la riproduzione dellimmagine dellopera, previo pagamento del canone fissato dallautorità medesima, mentre è libera la riproduzione delle opere protette solo se effettuata senza scopo di lucro (art. 108 del Codice)”.

[2] Il museo, la pinacoteca, et similia.

[3] Il canone è oggi stabilito dal D.M. n. 108 del 21.03.24, di modifica del Decreto del Ministero della Cultura n. 161 del 11.04.2023, recante “Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali”.

[4] Art. 10 del Codice civile (Abuso dell’immagine altrui): “Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o  pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti,  l’Autorità  Giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni.

[5] D.lgs., 22 gennaio 2004, n. 42

[6] Ex art. 108 del Codice dei Beni Culturali.

[7] Ex art. 9 della Costituzione.

[8] Si ricordi cosa scriveva Italo Calvino in Le città invisibili del 1972: “Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee duna mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.

[9] In Italia, rappresenta un asset rilevante sia in termini quantitativi che economici: prendendo come riferimento la UNESCO World Heritage List 1, nel nostro Paese risultano essere presenti ben cinquantotto siti di interesse culturale e naturalistico, a cui è necessario aggiungere i numerosi beni immateriali, anch’essi riconosciuti e tutelati.    

[10] Queste, nello specifico, le critiche della federazione e delle consulte firmatarie: “Il documento, redatto evidentemente in modo frettoloso, appare piuttosto confuso e di cattiva leggibilità: il complesso e astruso sistema di calcolo per la tariffazione rischia infatti di mettere a dura prova qualsiasi utente che dovrà osservarlo o funzionario ministeriale che dovrà applicarlo, senza peraltro chiarire se il sistema di tariffazione proposto si applichi anche alle riproduzioni già disponibili per lutente, ad esempio a seguito di download dal sito web o di ripresa con mezzo proprio”. “Il decreto colpisce direttamente la ricerca perché generalizza lapplicazione di tariffe sulla pubblicazione di immagini di beni culturali in qualsiasi prodotto editoriale”, così continua l’appello-denuncia. “Con un salto indietro di oltre trentanni, in un sol colpo viene calpestato il DM 8 aprile 1994, che aveva stabilito la gratuità per la pubblicazione in tutti i periodici e nelle monografie entro i 70 euro e 2000 copie di tiratura, e vengono azzerate le Linee guida per lacquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale, pubblicate la scorsa estate dalla Digital Library del Ministero della Cultura. Il documento della Digital Library, a differenza del decreto unilaterale in esame, era stato il frutto di oltre un anno di lavoro interno al ministero e di consultazioni pubbliche, proprio in occasione delle quali la Federazione delle consulte universitarie di archeologia aveva avuto modo di apprezzare la principale novità del documento, vale a dire la previsione di gratuità per la pubblicazione di immagini di beni culturali statali in qualunque prodotto editoriale, indipendentemente dalla tipologia, dalla tiratura o dal relativo prezzo di copertina. Al danno che questo decreto rappresenta per i ricercatori, si aggiunge pertanto la beffa nei confronti di tutti coloro ai quali era stata annunciata, qualche mese prima, la gratuità per qualsiasi utilizzo editoriale”.

[11] Art. 9 della Costituzione.

[12] Art. 34 della Costituzione.

[13] Art. 32 della Costituzione.  

[14] Art. 35 della Costituzione.  

[15] La Convenzione è stata adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 13 ottobre 2005 e aperta alla firma degli Stati membri a Faro (Portogallo) il 27 ottobre dello stesso anno. È entrata in vigore in data 1° giugno 2011. Ad oggi, 24 Stati membri del Consiglio d’Europa hanno ratificato la Convenzione e 4 l’hanno firmata. Essa incoraggia gli Stati a riconoscere che gli oggetti e i luoghi di per sé, non rappresentano ciò che è importante del patrimonio culturale, ma lo sono per i significati e gli usi che le persone attribuiscono loro e per i valori che impersonano.

[16] Trattasi del principale network di Musei e professionisti museali italiani: “ICOM Italia opera in coerenza con il Codice etico e la missione di ICOM Internazionale per la salvaguardia del patrimonio culturale e lo sviluppo dei musei. In ambito nazionale: a) promuove il raggiungimento in tutti i musei italiani di livelli di qualità atti a garantire lo svolgimento delle funzioni essenziali e un ruolo attivo nella società contemporanea, attraverso la circolazione di standard tecnici definiti a livello nazionale e internazionale nel rispetto del Codice etico di ICOM, la formazione e laggiornamento continuo dei professionisti, la sensibilizzazione degli enti proprietari e dei gestori, la diffusione di positive esperienze nazionali e internazionali; b) contribuisce alla definizione di politiche nazionali e territoriali di programmazione e di sostegno agli istituti museali, in una visione integrata del patrimonio culturale e del paesaggio, mettendo a disposizione delle istituzioni e delle comunità il bagaglio di competenze ed esperienze dei suoi organi direttivi e di tutti i soci; c) sostiene lo sviluppo di una comunità di professionisti museali, a prescindere dalle situazioni ambientali, istituzionali e contrattuali in cui operano, e avvia forme di collaborazione con altri professionisti della cultura ed esperti di altre discipline; d) stimola lo studio e il dibattito sui principali temi della museologia, in rapporto con le elaborazioni teoriche e le esperienze concrete prodotte nel nostro e negli altri Paesi. In ambito internazionale: a) contribuisce attivamente con suoi rappresentanti al dibattito in seno ai Comitati internazionali e ad ICOM Europe, interviene nelle sessioni delle Conferenze annuali e delle Conferenze generali di ICOM, proponendo allattenzione internazionale temi e questioni italiane dinteresse generale; b) amplia, attraverso i soci italiani, il network internazionale dellorganizzazione; c) partecipa alle missioni internazionali per tutelare il patrimonio culturale materiale e immateriale, promuovere la cultura, la conoscenza e la tolleranza reciproca fra i popoli, combattere il traffico illecito e diffondere in tutti i Paesi la cultura della prevenzione e della sicurezza, al fine di ridurre e contrastare i rischi naturali e antropici”.

[17] Introducendo l’art. 32-quater.

[18] D.lgs. n. 42/2004

[19] Direttiva n. 2019/790 sul Diritto d’Autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale.

[20] Sono gratuite: per i volumi a cui viene riconosciuto dall’ente concedente un carattere scientifico (contributi in volume, atti di convegni nazionali ed internazionali) e accademico; per volumi e riviste a cui viene riconosciuto dall’ente concedente un contenuto divulgativo e didattico; per i cataloghi d’arte, di mostre e manifestazioni culturali con tiratura fino a 4000 copie; per le riviste scientifiche e di classe A di cui agli elenchi dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR); per pubblicazioni in giornali e periodici nell’esercizio del diritto-dovere di cronaca; destinate alle pubblicazioni liberamente accessibili da chiunque senza il pagamento di un prezzo (cosiddette open access); eseguite autonomamente da chiunque (come, ad esempio, studenti, studiosi, ricercatori, docenti universitari) effettuate a scopo non lucrativo e non destinate alla vendita; per la realizzazione del materiale espositivo, scientifico, didattico e divulgativo di mostre e manifestazioni culturali organizzate da un organo del Ministero ovvero da enti pubblici e privati per finalità di valorizzazione del patrimonio culturale attuate senza scopo di lucro. Nel caso di richieste relative a un elevato numero di immagini, la gratuità può essere concessa solo nell’ambito di accordi di collaborazione istituzionale. Con l’importante precisazione che il biglietto di ingresso non è di per sé sufficiente a caratterizzare una iniziativa di valorizzazione come a fine di lucro, dovendo invece valutare l’insieme delle circostanze in cui si realizza l’iniziativa.

[21]  Per un coefficiente differenziato in funzione dell’uso/destinazione delle riproduzioni (ad esempio, cataloghi d’arte, esposizione temporanea, esposizione permanente, proiezioni audiovisive, pubblicazioni in copertina, merchandising, uso promozionale e pubblicitario); per un coefficiente relativo alla quantità delle riproduzioni da effettuarsi o relativo alla tiratura.

[22]  tra cui la quantificazione dei metri quadrati, la individuazione del livello di pregio del sito, la finalità della richiesta della concessione in uso, la natura dell’evento, la stagionalità e la valutazione comparativa delle tariffe del mercato

[23] Le ipotesi particolari previste dalle linee guida sono le seguenti: a) istanza proveniente da altra amministrazione o ente pubblico o ente del Terzo Settore; b) riprese all’aperto con il solo drone; c) contributi selettivi e “opere difficili”; d) riproduzioni o riprese effettuate da microimprese e da imprese di nuova costruzione; e) specificità territoriali; f) prodotti editoriali, nel caso in cui vi sia una incidenza percentuale eccessiva del canone sul prezzo di copertina.

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