Quest’estate, il Tribunale di Milano ha offerto l’occasione per riflettere sulla disciplina giuridica delle ghost[1] e dark kitchen[2]: in particolare, in quale fattispecie contrattuale possano essere inquadrate,.
Protagoniste della vicenda, due società.
L’una nota, che gestisce e cede in uso locali per il delivery gastronomico (che chiameremo Alfa), proprietaria a Milano di un capannone industriale diviso in spazi adibiti a cucina, con annessi celle frigorifero e congelatori, messi a disposizione di società di ristorazione, verso la corresponsione di un canone mensile.
L’altra, una S.r.l. (per semplificazione Beta), che svolge attività di ristorazione senza somministrazione, con preparazione di cibi da asporto per privati o professionisti.
Beta sottoscriveva con Alfa un contratto annuale, rinnovabile salvo disdetta, con cui concedeva nello stabilimento di Milano, dietro pagamento di un prezzo concordato, definito “commissione”:
– l’utilizzo di una cucina – cosiddetta K13 – l’accesso e l’uso delle aree comuni nel centro di consegna;
– l’affitto – definito “deposito” – dello spazio cella frigorifera al costo anticipato, a seconda di quello effettivamente occupato;
– l’affitto – definito “deposito” – dello spazio cella freezer al costo anticipato a seconda di quanto utilizzato;
– la manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché controllo, internet e video sorveglianza, smaltimento rifiuti, pulizie quotidiane, manutenzione e pulizia degrassatore; con esclusione dei servizi di gestione della piattaforma ordini on line e consegna da parte dei rider, riservati a Beta.
Quest’ultima attrezzava la cucina con propri macchinari e utensili.
Il contratto in parola era costituito dal “Modulo d’Ordine” e dalle “Condizioni Generali”, redatto in inglese e in italiano, e al momento della sottoscrizione era stata versata una commissione una tantum, rimborsabile.
Nelle “Condizioni Generali”, al punto 1. a) era specificato “che il diritto di accesso agli spazi comuni non implicava la locazione dello Spazio Autorizzato, e che non veniva conferito alcun diritto di proprietà, locazione, affitto o conduzione dello Spazio Autorizzato”.
Problemi tra le due società sono sorti quando Beta veniva informata da Alfa che la propria merce sarebbe stata spostata dalle celle frigo in cui erano conservate, in quelle in comune ad altri brand, per un improvviso intervento di manutenzione straordinaria che, invero, non pareva rivestire affatto carattere di necessità e urgenza, e pertanto sarebbe potuto essere previamente organizzato e gestito di comune accordo.
Di riscontro immediato, Alfa comunicava ad Beta che gli spazi di stoccaggio extra, a disposizione, erano risultati insufficienti per tutta la loro merce e dunque una parte era stata lasciata nella cella spenta, ossia a temperatura ambiente.
Seguivano scambi di email in cui Alfa riconosceva la propria responsabilità per l’accaduto e prospettava a Beta i passi successivi per provvedere al risarcimento dei danni subiti, così suddivisi:
– danno alla materia prima, per la quale Beta era assicurata con propria polizza fino a un determinato massimale e il resto sarebbe stato corrisposto direttamente da Alfa, una volta che il proprio assicuratore avrebbe aperto il sinistro;
– danno per mancata vendita: Alfa richiedeva espressamente a Beta di fare pervenire la richiesta di risarcimento, rappresentando l’accaduto e l’ammontare del danno, andando però ad escludere l’importo di cui al massimale già domandato alla propria compagnia di assicurazione, in modo da poter aprire il sinistro con l’assicurazione di Alfa per “danni contro terzi”.
Sarebbero poi occorsi circa venti giorni per ripristinare l’operatività dei locali.
Beta allora – come richiesto da Alfa – effettuava a più riprese un inventario dei prodotti finiti e delle materie prime, rimaste nella cella spenta e quindi inutilizzabili per interruzione della catena del freddo, e manifestava la necessità di riprendere l’attività produttiva quanto prima.
Quantificati i danni materiali, oltre quello da immagine e da perdita di chance, Beta noleggiava, a proprie spese, un furgone refrigerato da posizionare fuori la cucina K13 per salvare la materia prima e i prodotti ancora utilizzabili.
Alfa, dal suo canto, avanzava una proposta transattiva che prevedeva solo uno sconto sul canone mensile del contratto che sarebbe stato ottenuto esclusivamente se Beta avesse rinnovato, alla scadenza, il contratto, condizione reputata inaccettabile per quest’ultima, essendo venuto meno il presupposto della fiducia.
A quel punto, Alfa respingeva qualsivoglia responsabilità precedentemente riconosciuta e chiedeva il pagamento delle fatture scadute. Dopo diversi tentativi di definizione bonaria della vicenda, Alfa dichiarava cessati i servizi erogati a Beta.
Di fatti, Beta trovava i propri contatori sigillati, rendendosi così impossibile utilizzare la cucina e i servizi annessi, per carenza di energia elettrica, mentre Alfa concedeva l’accesso ai locali unicamente al fine di prelevare i beni anche dalle celle comuni, entro un breve termine perentorio, in caso contrario lo avrebbe effettuato in proprio con costi che avrebbe addebitato a Beta.
Valutato tale comportamento come esercizio arbitrario delle proprie ragioni e/o violenza privata, Beta sporgeva denuncia-querela e, in sede civile, esperiva azione possessoria per chiedere e ottenere, anche con decreto inaudita altera parte, in via principale, l’immediata reintegra della ricorrente nel pieno ed esclusivo possesso e utilizzo dei locali e degli annessi servizi siti in Milano, di Alfa, preceduti dall’ordine di rimozione dei sigilli ai contatori, il tutto come meglio descritto nel contratto.
Alfa, nel costituirsi in giudizio, deduceva le modalità di articolazione e funzionamento del capannone sito in Milano, definito espressamente quale dark kicthen, in cui sono presenti vari laboratori di cucina per la produzione gastronomica, unitamente alle relative celle frigo e congelatori con la complementare finalità di conservazione dei prodotti.
In particolare, quest’ultima, nel 2020, aveva acquistato una serie di capannoni industriali per trasformarli nel primo centro di “dark kitchen” in Italia. All’interno di essi, infatti, sono presenti una ventina di laboratori, per l’elaborazione di prodotti di gastronomia, che vengono appunto concessi alle società che intendono avviare un’attività di cucina d’asporto, senza dover aprire un ristorante, ma pagando soltanto una commissione.
All’interno del centro, oltre ai suindicati laboratori, sono presenti delle aree e dei servizi comuni, concepiti per semplificare il procedimento di raccolta, smistamento e consegna degli ordini preparati ai fattorini del cibo (rider).
Al di là dei bagni, spogliatoi e locali doccia per gli chef, sono presenti celle frigorifere per lo stoccaggio dei prodotti, separate aree per la raccolta e lo stoccaggio della pattumiera differenziata (il cui riciclo avviene tramite AMSA) ed una reception per i rider.
Breviter, trattasi di un centro concepito per consentire alle società che utilizzano i laboratori di non dover pensare a nulla, se non a cucinare.
Alfa, in definitiva, giustificava il proprio comportamento invocando la previsione contrattuale della risoluzione, nel caso di mancato pagamento dei caneoni mensili.
Di fatti, il Tribunale rigettava la domanda proposta da Beta, con condanna alle spese di lite in favore di Alfa.
Motivava la decisione, argomentando che, nel contratto, non era affatto individuata, in maniera puntuale, la cucina attribuita in via esclusiva ad Beta, specificando che non sarebbe stato conferito a quest’ultima un pieno ed esclusivo diritto di godimento di un locale specifico, quanto piuttosto il diritto alla fruizione di servizi all’interno degli spazi gestiti dalla convenuta Alfa.
Trattavasi di un diritto che, secondo il Giudicante, non sarebbe stato assimilabile a un contratto di locazione, quanto piuttosto a quello di facere.
Il rigetto fondava sull’esclusione della sussistenza sia del possesso dei locali da parte di Beta sia della detenzione qualificata, tale da legittimare l’azione di reintegrazione, ai sensi dell’art. 1168, comma 2, codice civile.
Invero, quello sottoscritto da Beta è considerabile un contratto atipico, riconducibile alla combinazione tra uno di fitto del locale cucina (la K13) e di deposito della materia prima e dei prodotti finiti nelle celle frigo e congelatori, con la finalità di avere a disposizione una dark kitchen.
Si tratta di una figura contrattuale articolata che racchiude in sé alcuni caratteri propri della locazione e dell’appalto di servizi, in forza del quale un soggetto (Alfa), detto concedente, disponendo di un immobile idoneo a essere suddiviso in postazioni per cucinare, concede dietro corrispettivo, al concessionario (Beta) l’utilizzo della cucina K13 e di una serie di servizi per produzione e conservazione gastronomica.
Non si atteggerebbe pertanto a locazione in senso stretto.
Il contratto di utilizzo di spazi commerciali non è qualificabile come locazione qualora preveda a carico del prestatore, oltre all’obbligo di mettere a disposizione dell’altra parte uno spazio determinato, anche l’obbligo di rendere servizi ulteriori che risultino qualificanti ai fini della causa del contratto e che non si sostanzino in semplici prestazioni accessorie alla locazione.
In sostanza, nei contratti di utilizzo di spazi commerciali diversi dalla locazione, ciò che assume rilievo è l’offerta e il godimento di servizi, prioritari rispetto allo spazio concesso in uso.
Non vi è ancora sufficiente giurisprudenza in materia, allora si tende a ricorrere alle decisioni dell’Agenzia delle Entrate che ha individuato i criteri in base ai quali si possa parlare di locazione commerciale e quando invece di contratto di utilizzo, ai fini dell’imposta di registro e dell’IVA.
La giurisprudenza[3], definendo le caratteristiche proprie delle locazioni di immobili, esenti da Iva[4], ha affermato che il contenuto tipico della locazione consiste nel conferire all’interessato, per una durata convenuta e dietro corrispettivo, il diritto di occupare un immobile come se ne fosse il proprietario e di escludere qualsiasi altra persona dal beneficiarne.
Allo stesso tempo, è stato escluso che possano sussumersi, in tale alveo, i contratti che non hanno per oggetto la sola messa a disposizione passiva di una superficie o di uno spazio, anche qualora venga garantito al contraente il diritto di occuparlo come se ne fosse proprietario.
Secondo le note esplicative sulle norme dell’U.E. in materia di Iva[5], concernenti il luogo delle prestazioni di servizi relativi a beni immobili[6], laddove una prestazione complessa comprenda servizi relativi a beni immobili, ma anche altri beni o servizi (vale a dire, se si tratta di una prestazione raggruppata comprendente svariati elementi), occorre accertare se l’elemento predominante della prestazione sia il servizio relativo al bene immobile e se tale servizio presenti un nesso sufficientemente diretto con quel bene immobile.
La normativa IVA relativa alle locazioni non risulta dunque applicabile ai contratti che prevedono a carico del prestatore, oltre all’obbligo di mettere a disposizione dell’altra parte uno spazio determinato, anche l’obbligo di rendere servizi ulteriori che risultino qualificanti ai fini della causa del contratto, che non si sostanzino in semplici prestazioni accessorie alla locazione (quali i servizi di portierato o altri servizi condominiali).
In presenza di un contratto connotato da una pluralità di prestazioni finalizzate a supportare lo svolgimento di una attività lavorativa (servizi di segreteria, postali, ecc.), in cui la concessione di occupare alcuni spazi di un edificio si ponga solo come un mezzo per attuare una prestazione complessa, non si può parlare di locazione.
In passato, l’Amministrazione finanziaria[7] aveva già escluso la presenza di un contratto di locazione nelle ipotesi in cui, oltre alla messa a disposizione di locali completamente arredati, veniva fornita una pluralità di servizi, diversi da quelli che caratterizzano la mera locazione di immobile, nei sensi previsti dall’articolo 10, n. 8), del D.P.R. 633/1972[8].
Operata questa precisazione sui criteri distintivi tra le due tipologie contrattuali, tornando all’azione possessoria, il detentore che voglia ottenere tutela deve sì dimostrare l’esistenza del titolo contrattuale ma “senza che il giudice debba accertare la validità e l’efficacia di siffatto titolo, atteso che in materia possessoria non rileva mai la valutazione degli effetti negoziali di un atto”[9].
Il conduttore/utilizzatore continua a essere detentore qualificato anche in forza di un rapporto contrattuale già venuto a scadenza, o risoltosi, nel caso in cui non rilasci spontaneamente il bene, e, altresì, nel caso in cui sia inadempiente rispetto alle obbligazioni assunte, quali quella di pagamento del canone o di utilizzazione del bene conformemente all’uso pattuito in contratto.
E “ciò che assume rilevanza, è l’esercizio in fatto del possesso, indipendentemente dalla sua corrispondenza a un valido titolo e dalla sua legittimità...”[10]. “Ne discende che l’unico aspetto rilevante nel presente giudizio, ai fini dell’invocata tutela possessoria, è la verifica della sussistenza del possesso“[11].
Sarebbe impossibile pensare che gli altri brand presenti nella struttura di Alfa, utilizzassero la stessa cucina e le stesse attrezzature che poi erano di proprietà di Beta e viceversa, soprattutto perché non sarebbe stato possibile stabilire in capo a chi far valere il rispetto della normativa HACCP e l’assicurazione contro i rischi legati all’attività produttiva, né tanto meno come garantire la turnazione degli spazi perché la produzione era cosiddetta just in time ossia si produceva se e ove c’era l’ordine.
Inoltre, come potere eseguire l’autovalutazione per l’HACCP se non vi era certezza di chi occupava quella cucina?
La legge impone ai ristoratori di controllarsi da soli, attraverso la redazione di un manuale HACCP, esso è redatto da un responsabile del piano di autocontrollo scelto dall’azienda, unitamente alla dirigenza e al personale oltre che con un supporto tecnico esterno.
L’obiettivo è stilare un documento che deve essere applicato e applicabile in maniera semplice per ogni attività del locale.
Alfa non aveva la facoltà di accedere alla cucina concessa in uso a Beta quando e quante volte avesse voluto, perché contrario alle prescrizioni HACCP, atteso che non si sarebbe potuta garantire la massima sicurezza dei prodotti: si tratta di regole specifiche previste per tutti i visitatori e, tra questi, figura, senza dubbio, Alfa.
Si ricordi, infine, come la tutela possessoria venga accordata al contraente inadempiente, il quale conservi la detenzione del bene in forza di un titolo il quale ha cessato di produrre effetti, per ragioni di ordine pubblico, essendo diretta a evitare che i cittadini si facciano ragione da sé, mirando le azioni possessorie a evitare che qualsiasi pretesa, anche legittima, possa essere fatta valere non già con una domanda giudiziale, bensì con un’azione violenta o clandestina.
Il resistente, nel caso di specie, non aveva negato affatto l’azione materiale costituente spoglio (bloccare i contatori e quindi impedire di fatto l’attività produttiva di Beta, perché, senza corrente elettrica, è lapalissaino che macchinari e attrezzature non funzionin e la cucina non può essere operativa), l’aveva solo giustificata con la previsione contrattuale, secondo la quale il mancato pagamento anche di un solo canone comportava la risoluzione.
Ma, come detto, non è affatto ammissibile in uno Stato democratico, farsi giustizia da sé, controparte avrebbe semmai dovuto ricorrere al Giudice ordinario per intimare lo sfratto per morosità e l’emissione di un’ingiunzione di pagamento dei canoni non pagati.
Si resta in attesa della decisione del Tribunale di Milano in sede di reclamo.
[1] Letteralmente cucine fantasma, sono laboratori attrezzati a cucina professionale con personale che prepara e confeziona per i clienti pasti da andare a ritirare o ricevere a domicilio. Nate negli Usa già da diversi anni sono dei veri e propri laboratori attrezzati, dove operano chef e personale, con una gestione che ottimizza tempi, risorse, acquisti e per tale ragione in grado di assorbire il costo della consegna. La preparazione rapida dei piatti, e il ritiro da parte di rider vengono monitorate in tempo reale da specifiche applicazioni digitali a favore del brand e della soddisfazione del cliente-utente. Il vantaggio è rappresentato da una cospicua riduzione dei costi legati all’affitto del locale e allo staff, con notevole vantaggio per il ristoratore.
[2] Il fenomeno delle “cucine nascoste” ha consentito lo sviluppo di diversi modelli di business per gestire questo trend, con caratteristiche però differenti tra loro. Il concetto di base è unico, si tratta cioè di un ristorante senza personale e senza una sala, ma con una sola cucina dedicata per la preparazione e con la distribuzione a domicilio. Con il tempo il fenomeno si è differenziato in tante sottospecie con caratteristiche specifiche:
- tipologia standard: un unico brand acquista o affitta la cucina e c’è una sola tipologia di menù con diversi canali di distribuzione per raccogliere gli ordini e consegnarli a domicilio.
- Ghost kitchen multi-brand: diversi brand che appartengono alla stessa società madre, condividono la cucina per razionalizzare i costi.
- Cloud kitchen take-away: è una dark kitchen tradizionale con la differenzia che il cliente piò andare a ritirarlo oltre che farselo consegnare, potendo così interagire con lo chef. Sebbene non ci sia una sala da pranzo, è necessario organizzar spazi di ricezione della clientela.
- Dark kitchen di proprietà degli aggregatori: in questo caso, gli aggregatori, cioè le società che si occupano delle consegne a domicilio, decidono di acquistare degli spazi da adibire a cucina virtuale, per poi affittarli ai ristoratori che hanno il vantaggio di doversi occupare esclusivamente della preparazione delle pietanze. La gestione degli ordini online può essere affidata agli aggregatori stessi o essere eseguita in autonomia dal brand che ha affittato la cucina.
- Cloud kitchen esternalizzata: è una dark kitchen in cui il processo produttivo è affidato a operatori esterni specializzati, per offrire un prodotto finale perfetto e unico.
[3] Sentenza del 12 giugno 2003, C- 275/01.
[4] ai sensi dell’articolo 10, n. 8), D.P.R. n- 633/1972, (articolo 135, lett. l, Direttiva 2006/212/CE).
[5] paragrafo 24.
[6] regolamento di esecuzione UE n. 1042/2013 del Consiglio.
[7] con la risoluzione n. 381789 del 10 giugno 1980.
[8] fattispecie di esenzione IVA e precisamente le locazioni e le cessioni di fabbricati di cui ai commi 8, 8-bis, 8-ter dell’art. 10 del D.P.R. n. 633/72.
[9] cfr Cass. civ., Ordinanza n. 3627 del 17.02.2014; in senso conforme Cass. civ., Sentenza n. 12751 del 20.05.2008.
[10] cfr. Corte d’Appello di Roma, Sentenza n. 4785/2024 del 05.07.2024.
[11] cfr. Corte d’Appello di Roma, Sentenza n. 4785/2024 del 05.07.2024.
Avv. Paola Calvano