Decentramento e autonomia differenziata. Dalle riforme istituzionali alle modifiche funzionali

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Introduzione

A differenza degli innumerevoli interventi normativi rivolti ad istituire e a regolare le forme di intercomunalità, la legge sull’autonomia differenziata attua in maniera concreta ed effettiva sia il principio del decentramento che la valorizzazione delle autonomie locali.

Il presente contributo analizza in via generale la ratio e i limiti riscontrati nell’attuazione delle principali riforme istituzionali, con particolare riferimento alle unioni dei comuni e alle fusioni, per poi concludere sulla necessità di invertire la rotta e di accogliere con favore riforme di tipo funzionale, come la legge sull’autonomia differenziata, spiegandone la motivazione.

Il decentramento

Come noto, lo Stato italiano si è da sempre caratterizzato per un’impostazione accentrata e fortemente burocratica.

Nonostante la storia ci presenti un quadro istituzionale notevolmente frammentato e diversificato, dove la cosa pubblica veniva gestita in via esclusiva dai Comuni, con l’avvento degli Stati unitari e degli Stati Nazione, è mutato il concetto stesso di istituzione pubblica comportando una rivoluzione negli assetti decisionali e di gestione del potere, da una parte, e delle responsabilità e delle capacità funzionali, dall’altra.

Complici la raggiunta unità territoriale e politica e le diversità strutturali infra-statali accentuate negli anni seguenti alle grandi guerre, lo Stato ha assunto un ruolo predominante nella gestione del territorio e delle risorse con la contestuale assunzione di una vesto di tipo paternalistico.

Tale impostazione ha conosciuto la sua massima espressione negli anni del governo fascista dove gli enti sub-statali e anche gli stessi cittadini, erano dipendenti in maniera assoluta dallo Stato-apparato.

L’assetto istituzionale e organizzativo ha mutato orientamento, seppure in via di principio e in maniera embrionale, con la caduta del regime fascista e la scelta dello Stato repubblicano cui ha fatto seguito la redazione e l’entrata in vigore della Carta costituzionale.

Infatti, con la Costituzione vengono sanciti i principi della sovranità popolare, da una parte, e del decentramento, dall’altra.

In particolare, gli articoli 1 e 5 rappresentano le due macro-direttrici su cui impostare l’esercizio del potere istituzionale e governativo.

Nel dettaglio, l’attuazione del principio del decentramento ha conosciuto e conosce tuttora, periodi di grandi riforme contrassegnate dall’alternarsi di visioni progressiste e orientate alla valorizzazione delle autonomie locali e delle forme di intercomunalità, e di battute d’arresto con una tendenza al ritorno alla centralizzazione (si pensi all’esclusione delle Regioni dalle scelte di politica pubblica in relazione al PNRR).

Invero, dal punto di vista socio-economico l’evento prodromico per la spinta definitiva al decentramento può individuarsi nella crisi del cosiddetto welfare state, dove l’accentramento delle politiche pubbliche ha fatto registrare risultati negativi e non più sostenibili in ordine al rapporto costi-erogazione dei servizi.

L’aumento del tasso demografico, in correlazione alla crescita delle richieste determinata dal progresso tecnico-scientifico (problema del sovraccarico) ed economico, ha condotto, nel lungo periodo, al collasso del sistema accentrato in quanto lo Stato si è dimostrato incapace di sopportarne la gestione.

Pertanto, anche sulla scia dei Paesi anglo-americani, improntati alle logiche manageriali (taylorismo), si è passati dallo Stato interventore, allo Stato regolatore con la dismissione di poteri gestori in favore degli enti sub-statali, intermedi e locali, da un lato  e l’apertura alle logiche di mercato con la partecipazione sempre maggiore dei privati alla gestione della cosa pubblica (privatizzazioni e liberalizzazioni), dall’altro.

Le riforme che concernono il primo tipo di intervento sono per lo più orientate al riassetto istituzionale che ha conosciuto uno sviluppo significativo, dapprima con le istituzioni delle Regioni negli anni Settanta e successivamente con gli interventi più capillari susseguitesi dagli anni Novanta e ancora in divenire.

Ci si riferisce, in particolare, alla suddivisione delle competenze tra Stato e Regioni a seguito della riforma del 2001 (articolo 117 della Costituzione), al riconoscimento della capacità funzionale degli enti comunali (articoli 114 e 118) orientata alla logica della prossimità e della sussidiarietà e all’incentivazione delle forme di intercomunalità, che ha conosciuto maggiore effettività con la Legge “Delrio” del 2014.

Orbene, la spinta verso il decentramento delle funzioni, anche se perimetrata dal principio di sussidiarietà secondo il quale l’ente strutturalmente sovraordinato deve intervenire a supporto dell’ente più prossimo ai cittadini, solo quando quest’ultimo non è in grado di adempiere alle proprie funzioni garantendo uno standard quali-quantitativo accettabile in ordine al rapporto costi/servizi erogati, ha determinato l’emersione dei limiti strutturali connaturati agli enti comunali di piccole dimensioni (dimensione territorio/densità demografica) e dei limiti funzionali propri delle realtà territoriali disagiate, maggiormente concentrate nelle aree del centro-sud.

Infatti, il riconoscimento effettivo dell’autonomie locali, cui ha fatto seguito la responsabilizzazione maggiore dei medesimi, correlata alla maggiore incisività sulle scelte di politiche pubbliche locali e nella gestione funzionale del territorio di riferimento, ha determinato un effetto boomerang sulla spesa pubblica.

Tale situazione è stata accentuata dalle politiche di austerity, adottate dall’Unione Europea, che hanno riguardato direttamente anche l’Italia, cui hanno fatto seguito numerosi tagli alla spesa pubblica e l’imposizione del principio/vincolo del pareggio di bilancio.

In altre parole, il problema delle diseconomie di scala,che ha contribuito a spingere per il decentramento istituzionale ed amministrativo, si è ripresentato nel medio-lungo periodo coinvolgendo in prima linea gli enti comunali e in via conseguenziale le Regioni e lo Stato.

Per far fronte alla crisi del decentramento ed evitare un ritorno all’accentramento si è pensato di intervenire adottando modelli istituzionali di intercomunalità basati sulla logica dell’associazionismo e della cooperazione.

Ci si riferisce segnatamente alle unioni dei comuni e alle fusioni.

Unioni e Fusioni: il caso emblematico di Corigliano-Rossano

Le Unioni dei Comuni vennero istituite con la Legge n. 142 del 1990 e furono concepite come una forma di intercomunalità intermedia e temporanea destinata a confluire nella fusione degli enti comunali uniti.

Il passaggio da Unione a Fusione era previsto in via obbligatoria, sul presupposto logico-giuridico che solo quest’ultima potesse realmente ed effettivamente realizzare una suddivisione competitiva del territorio in funzione della migliore razionalizzazione delle risorse disponibili a fronte di un contenimento della spesa pubblica.  

Tale obiettivo però ha presto mostrato i suoi limiti. Infatti, se da una parte vi sono rilevabili la razionalità e l’efficienza, dall’altra vige l’identità degli enti comunali. Proprio la certezza di perdere la propria identità storico-culturale e sociale è la ragione che ha guidato il legislatore ad intervenire in modifica della suddetta disciplina.

Con la Legge “Delrio”, si è raggiunto un compromesso tra l’esigenza di superare la frammentazione territoriale ed istituzionale, a cui si addebita l’incapacità organizzativa e finanziaria di gestire positivamente spese, entrate e soddisfazione dei cittadini, e la conservazione delle identità comunali.

Pertanto, con tale legge  si è proceduto, da una parte, ad abolire la trasformazione obbligatoria delle Unioni alle Fusioni e, dall’altra,si è resa obbligatoria la gestione associata delle funzioni fondamentali nella forma delle Unioni con riferimento a tutti gli enti comunali con popolazione fino a 5000 abitanti.

Tale ultima disposizione però non ha trovato effettiva attuazione dal momento che l’entrata in vigore della medesima è stata prorogata più volte.

Sul punto, è intervenuta la Corte Costituzionale che, con la sentenza, 4 marzo 2019, n. 33 ha sancito l’incostituzionalità della suindicata disposizione,  nella parte in cui non consente ai comuni fino a 5000 abitanti di dimostrare la propria capacità organizzativa e finanziaria e, dunque, la non necessità di unirsi ad un altro ente comunale.

In sostanza, anche il Giudice delle leggi ha valorizzato l’autonomia degli enti locali, la quale può essere ridimensionata solo in casi di incapacità effettiva dei medesimi e non in via automatica sulla base di un mero parametro dimensionale.

Seguendo la logica imprenditoriale, si è scelto poi di potenziare gli incentivi economici e fiscali sia con riferimento alle Unioni che alle Fusioni, anche se con un maggiore impegno nei confronti di quest’ultime, a conferma della propensione per la preferenza delle medesime.

In particolare l’articolo 15, comma 3 del Decreto Legislativo n. 267/2000 (Testo Unico Enti Locali) stabilisce che lo Stato eroghi contributi straordinari per i dieci anni successivi alla fusione stessa, commisurati ad una quota dei trasferimenti spettanti ai singoli comuni che si fondono, la quale è stata più volte modificata in aumento al fine di incentivare ulteriormente il ricorso alle fusioni.

A seguito di tali incrementi negli incentivi, si è registrato un notevole aumento delle fusioni che, con riferimento agli enti delle Regioni a statuto ordinario, dal 2015 al 2020 sono divenute rispettivamente da 33 a 107, ossia +224%

Con riferimento agli enti delle Regioni a statuto speciale, nello stesso periodo, da 8 a 34, +325%, per complessive 141 fusioni. Si tratta di dati ricavabili dal Ministero dell’Interno.

Proprio il notevole incremento degli incentivi destinati alle fusioni è uno dei fattori determinanti la scelta dei Comuni calabresi limitrofi di Rossano e Corigliano Calabro di accedere alla procedura di fusione, poi sancita con Legge regionale nel 2018 (articoli 117 e 133 della Costituzione, articoli 15 e 16 del T.U.E.L.).

Per meglio comprendere se tale scelta stia producendo buoni risultati in termini di efficacia, efficienza e razionalizzazione, è utile avere chiaro la situazione in cui versavano entrambi i Comuni negli anni precedenti alla fusione.

Orbene, sia il Comune di Corigliano Calabro che il Comune di Rossano, si trovavano in una condizione problematica, non solo con riferimento alla situazione di bilancio, chiuso in disavanzo (il Comune di Corigliano Calabro si è addirittura trovato in dissesto) ma anche riguardo alla gestione sociale del territorio (criminalità, disoccupazione, povertà).

Il difficile stato socio-economico di entrambi i comuni e l’incremento degli incentivi economici destinati alle fusioni, come anticipato, hanno determinato la scelta di accedere alla fusione, il cui Comune, risultante dal 2018, è Corigliano-Rossano.

Dall’esame dei bilanci presentati dal 2018 fino a data odierna (con ultimo riferimento all’anno 2023) si può registrare una chiusura dello stesso in positivo di circa 10.000 euro annui. Certamente gli investimenti per riqualificare il territorio sono stati compiuti (ed altri sono in programma), ma le entrate più cospicue continuano a derivare dal gettito fiscale, dal fondo perequativo e dagli incentivi stanziati dallo Stato per l’avvenuta fusione.

In altre parole, sembra che la scelta della fusione abbia apportato un risanamento del bilancio, ma la capacità di investimento, in esito agli incentivi incassati, fatica a decollare, a fronte dei propositi iniziali e dei risultati effettivi raggiunti.

In sostanza, ci si chiede come evolverà l’andamento economico e finanziario di tale Comune, nel lungo periodo, soprattutto dal momento in cui verranno meno gli incentivi suddetti.

In altre parole, seppure si registra un andamento positivo, lo stesso si ancora a valori quantitativi minimi e proiettando lo stesso andamento decurtato degli incentivi, si giunge a prospettare un possibile ritorno ad un saldo negativo.

Utilizzando il Comune Corigliano-Rossano come termine di paragone, ci si chiede pertanto se, ad oggi, gli strumenti delle Unioni e delle Fusioni si siano rivelati poco funzionali allo scopo per cui sono stati prescelti.

In verità, anche a seguito degli ultimi dibattiti politici sull’autonomia differenziata, la risposta sembra essere affermativa.

Non solo infatti si può registrare, da fonte Istat, un fallimento dal punto di vista delle adesioni, sia con riferimento alle Unioni (a fronte dei 7.904 Comuni presenti in Italia, di cui il 70% con meno di 5000 abitanti, si registrano, al 2021, solo 537 Unioni) che alle Fusioni (solo 144), ma vi sono perplessità anche con riferimento all’efficienza mantenuta nel lungo periodo, in assenza di incentivi, dalle Unioni e dalle Fusioni avvenute.

Pertanto, non si può fare a meno di pensare che l’attuazione dell’autonomia differenziata si presenti come un nuovo modo per colmare i gap rimasti insoluti dalle forme di intercomunalità.

In breve, la concretizzazione dell’autonomia differenziata (lo scorso 19 Giugno è stato approvato il disegno di legge che ne stabilisce l’attuazione), prevista dalla nostra Costituzione già dalla riforma del 2001 (articolo 116, comma 3), è senza dubbio una scelta fortemente orientata al decentramento e sicuramente espressione diretta dell’autonomia stessa su cui si vuole puntare per migliorare l’efficienza nella gestione dei servizi affidandola, per particolari materie non rientranti nella loro competenza in via ordinaria, alle Regioni.

Ragionando in maniera economica è come se lo Stato per la migliore gestione di un servizio si affidasse a sedi decentrate, specializzate in quel particolare settore.

Ne consegue che, se con l’incentivazione delle forme di intercomunalità si è pensato di agire seguendo logiche istituzionali e dimensionali (territorio e popolazione), con la concretizzazione dell’autonomia differenziata si sceglie di seguire logiche di tipo funzionale, puntando sulla competenza orientata ad una migliore capacità di gestione da parte delle Regioni, almeno sulla carta.

Considerazioni conclusive

I risultati poco soddisfacenti ottenuti a seguito delle riforme istituzionali rappresentano, ad avviso di chi scrive, un chiaro segnale di un necessario cambiamento nella tipologia delle scelte di politica pubblica adottate fino a questo momento.

Se si consideri poi il ritardo con cui anche le riforme istituzionali sono avvenute, emerge il fulcro del problema: l’accentramento delle competenze e delle funzioni.

Gli interventi istituzionali messi in atto non hanno mai avuto il fine di potenziare le autonomie locali ma si sono concentrate sul problema della frammentazione e dei cosiddetti costi della politica.

Concretizzare il decentramento, riconoscendo ulteriori competenze alle Regioni, consente invece di pensare secondo logiche manageriali in grado di valorizzare le capacità funzionali delle medesime.

Stabiliti, infatti, i livelli minimi essenziali (L.E.P.), a fronte di uno Stato regionale, quale è il nostro, e a fronte di un’impostazione costituzionale che premia e valorizza le autonomie locali, Regioni comprese, una rigida ed immodificabile sfera di competenze non ha alcuna utilità, ne è prevista dalla Costituzione stessa.

Come si è anticipato, risale alla riforma costituzionale del 2001 l’autonomia differenziata, così come il metodo di realizzazione che si permea sull’intesa tra Stato e Regione richiedente.

Pertanto, a fronte di un accordo tra Stato/Regione interessata, non si rinvengono ostacoli di principio nella dismissione di alcune competenze dal primo con trasmigrazione alla seconda, anche in considerazione del fatto che quest’ultima può avvenire solo entro un termine limitato e comunque non superiore a dieci anni.

Il particolare disfavore verso l’autonomia differenziata, giustificato dal possibile divario nell’erogazione dei servizi, sembrerebbe non avere senso logico e tanto meno giuridico.

Dal punto di vista giuridico, si è già detto che è la stessa Costituzione a prevedere l’autonomia differenziata e a dettare i criteri per la sua realizzazione.

Sotto il profilo logico, una volta definiti i livelli essenziali, non si rinvengono problemi in ordine al rispetto del principio di uguaglianza, perché tutti i cittadini hanno diritto ai servizi essenziali, ma la qualità dei medesimi non costituisce una prerogativa dell’ente erogatore/gestore che segue logiche diverse e che soprattutto non intacca tale valore.

In definitiva, dare la possibilità alle Regioni di esercitare la propria competenza in altre materie non mina l’uguaglianza ma semplicemente rende effettivo il decentramento in vista del raggiungimento della gestione efficiente della cosa pubblica e ci si auspica che sia la volta buona.

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