Come e chi verifica l’autenticità delle opere d’arte? È possibile farlo giudizialmente?
A queste domande ha dato una risposta la I Sezione della Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 3231 del 9 febbraio 2025, ribaltando l’orientamento delle precedenti pronunce e stabilendo in sostanza due principi.
In primis, il tribunale può intervenire quando ci sia un danno concreto rappresentato da una mancata vendita o ci siano controversie sul prezzo, ma non per risolvere un dubbio del proprietario dell’opera e accertarne l’autenticità.
In secundis, quand’anche un Tribunale dovesse riconoscere l’autenticità dell’opera, una Fondazione non potrebbe essere obbligata a inserirlo nel catalogo ufficiale.
Questo il fatto. Tizia aveva acquistato un’opera d’arte di Lucio Fontana da Caio che a sua volta l’aveva ricevuta dal maestro e aveva chiesto alla Fondazione Fontana di autenticarla e inserirla nel catalogo, ma quest’ultima si era rifiutata in quanto – a suo dire – il dipinto era stato irrimediabilmente compromesso nel corso di un incidente in cui era finito su un altro telaio con pittura ancora fresca, lasciando tracce sulla prima.
In seguito al rifiuto, nel 2018 Tizia adiva il Tribunale di Milano, Sezione specializzata in materia di impresa, che disponeva una perizia tecnica dalla quale risultava che la pittura era rimasta attaccata al telaio senza precedenti adesivi quindi accertava che il dipinto era autentico perché l’opera era stata creata in ogni sua parte dall’artista.
La Fondazione secondo il Tribunale non avrebbe potuto ripudiare l’opera o escludere che fosse di Fontana, rigettava invece le domande di condanna dell’Ente all’autenticazione, alla catalogazione e alla pubblicazione della sentenza perché “incoercibile la libertà di pensiero e di giudizio della Fondazione convenuta, nell’esplicazione dell’attività di verifica dell’autenticità dell’opera in questione, rilevando che la mancata produzione dello statuto non consentiva di verificare un eventuale obbligo della Fondazione di pubblicazione delle opere nei sui archivi in conformità agli esiti delle controversie giudiziarie, né l’assunzione di analoghi impegni anche solo la richiesta dell’originario proprietario dell’opera e non sussisteva un interesse qualificato della collettività ad aver conoscenza dell’esito di tali controversie“.
Entrambe le parti ricorrevano in appello con distinti ricorsi, poi riuniti, e la Corte di Appello di Milano rigettava quello promosso dalla Fondazione e accoglieva l’altro riformando parzialmente la sentenza di primo grado, ritenendo ammissibile l’azione di accertamento dell’opera come autentica e attribuibile a Lucio Fontana in quanto “l’opera d’arte, oltre a una valenza intellettuale ed estetica, presentava anche un valore commerciale, come bene di scambio – e come tale la paternità artistica, costituiva un elemento essenziale del contratto di compravendita – e l’incertezza determinata dal rifiuto della Fondazione d’autenticare l’opera rendeva concreto l’interesse dell’attrice a conseguire il richiesto accertamento, dato che l’autenticazione conferiva all’opera una qualificazione ontologicamente diversa, con inevitabili riflessi sul relativo diritto di proprietà“.
Non vi erano dubbi circa l’attribuzione dell’opera a Lucio Fontana come dichiarato dal consulente tecnico del Tribunale di Milano, sia per le caratteristiche pittoriche che per l’applicazione del telaio per essiccazione del colore, né poteva essere determinante la mancanza della firma (la stessa Fondazione tramite il proprio consulente non aveva messo in dubbio che l’opera appartenesse a Fontana).
Secondo la Corte d’Appello non era condivisibile invece la posizione del Tribunale di rigettare le istanze d’inserimento dell’accertamento dell’autenticità dell’opera nel catalogo del Fontana, gestito dalla Fondazione perché esso aveva la funzione, per volontà dello stesso autore, di “conservare e valorizzare il suo patrimonio artistico ciò rispondendo all’interesse collettivo alla pubblicazione onde consentire la più estesa fruizione delle opere del maestro, senza perciò ledere la libertà dell’ente morale di esprimere un giudizio differente da quello oggetto dell’accertamento giudiziale e l’istanza di pubblicazione del dispositivo del provvedimento doveva essere accolta, perché misura necessaria a contribuire al ripristino del diritto leso”.
Avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano, la Fondazione è ricorsa in Cassazione e quest’ultima ha sottolineato come non sia ammissibile l’azione di accertamento di autenticità dell’opera d’arte quando non ci sia un interesse concreto e attuale connesso, ma solo astratto e potenziale, in quanto, in tale caso, si configura solo un accertamento di una situazione di mero fatto e quindi inammissibile.
Per contro, è ammissibile quando è prodromica a un’azione risarcitoria, di risoluzione o di annullamento contrattuale.
“Non sono proponibili azioni autonome di mero accertamento per fatti giuridicamente rilevanti che costituiscano solo elementi frazionari della fattispecie di un diritto, che può costituire oggetto di accertamento giudiziario solo nella sua interezza”.
Differente il caso deciso dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 23935/2023, avente per oggetto una domanda di risarcimento danni promossa da una società che si era aggiudicata all’asta una scultura attribuita inizialmente a un determinato artista, che poi l’aveva disconosciuta e la società l’aveva chiamato in causa unitamente a chi gliel’aveva venduta.
In tale ipotesi, la Corte di Appello di Milano, riformando la decisione di primo grado, aveva deciso per l’accoglimento perché derivava dall’effettivo e illegittimo disconoscimento dell’artista che era alla base della domanda risarcitoria, quindi risultava sussistere un interesse concreto e attuale in quanto l’accertamento era, senza dubbio, prodromico a ottenere il risarcimento del danno.
Con ricorso per Cassazione, l’artista aveva eccepito, in primo luogo, l’inammissibilità della domanda di accertamento dell’autenticità della scultura richiamando la sentenza della Corte di Cassazione n. 28828/2017. I Giudici di legittimità tuttavia hanno evidenziato come il pregiudizio lamentato dal ricorrente fosse effettivo e non potenziale, dichiarando in via incidentale l’opera autentica e la domanda ammissibile. Il tutto sulla scorta del disconoscimento operato dallo scultore, accertato come illegittimo.
Diversa la situazione di altro giudizio del 2023 che aveva portato la Suprema Corte a interrogarsi sul “se, vertendo la giurisdizione civile su diritti e non su fatti, esistesse o meno un diritto assoluto all’autenticità dell’opera d’arte, tutelabile erga omnes, anche al di fuori di un rapporto obbligatorio in cui si lamentava l’inadempimento o l’illecito, con un’azione di mero accertamento”.
Domanda alla quale poi ha risposto che “non si può ritenere ammissibile un’azione di accertamento a tutela del bene giuridico d’arte, in relazione a una qualità (ossia la paternità artistica) del bene rilevante per l’esercizio del diritto di proprietà e per la determinazione del valore di mercato dell’opera“. E ancora, che la pubblicazione dell’accertamento sul catalogo della Fondazione costituisce un mezzo diretto a valorizzare la proprietà dell’opera, si ricordi che il professionista è obbligato a rilasciare all’acquirente documentazione sull’autenticità dell’opera o la sua probabile attribuzione o provenienza ex art. 64 del D. Lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali), sottolineando che non esiste nel nostro ordinamento un diritto assoluto all’autenticità dell’opera d’arte tutelabile erga omnes anche al di fuori di un rapporto obbligatorio, con un’azione di mero accertamento.
La Cassazione ha escluso che ci possa essere un interesse della collettività a vedere inserito nel catalogo quell’opera dichiarata autentica, perché non è un bene costituzionalmente tutelato che peraltro dovrebbe prevale su quello della manifestazione del pensiero, questo sì riconosciuto dall’art. 21 della Costituzione, di cui la Fondazione – ente morale privato – è titolare e “non è in possesso di alcun potere pubblicistico di attestazione o certificazione di qualsivoglia qualità o valore riguardo a beni artistici lato sensu“.
E non ha nessuna obbligazione contrattuale nei confronti del proprietario dell’opera, vale a dire che non è vincolata a esprimere un parere sulla sua autenticità e/o a inserire l’opera nel catalogo.
Quindi, “l’accertamento dell’autenticità dell’opera non gode di tutela rafforzata rispetto a qualunque altro accertamento giudiziario, in tal caso, sarà onere del proprietario dell’opera dar conto dell’accertamento ai potenziali acquirenti o comunque, trovati appositi canali pubblicitari (ad esempio le case d’asta), circa il prezzo dell’opera, del pari non è necessario che la relativa quotazione debba presupporre l’inclusione in un catalogo privato, dato che esistono apposite agenzie, o case d’asta, che provvedono alla stima del bene, secondo i criteri correnti in materia, specie nell’ambito di un mandato di vendita del bene”.
Si ricordi che il catalogo d’arte è un libro che contiene informazioni costituite da testo e immagini sulle opere di un’artista o solo di quelle comprese in un determinato periodo o nelle quali ha adoperato una determinata tecnica oppure il catalogo può riguardare un’esposizione di opere d’arte appartenenti a più artisti, in questo caso si parla di collezione.
È un testo importante per tutti coloro che sono interessati – artista, musei, collezionisti, galleristi, etc. – perché il catalogo fa chiarezza su quali siano e quali caratteristiche abbiano le opere dell’archivio di quell’artista o di quella collezione.
Il primo esemplare di catalogo o di qualcosa di molto simile, si suole far risalire al 1673, quando, in occasione dell’esposizione del Salon des Artistes Francais, venne pubblicata la prima edizione di un libro dal titolo “Liste des tableaux et pieces de sculpture” che illustrava il percorso da seguire per la visita. Vi furono, in seguito, edizioni successive arricchite da descrizioni storico-artistiche.
È del 1789 un altro catalogo di cui si ha notizia che conteneva le misure, le tecniche, la provenienza, i disegni preparatori e la biografia degli artisti delle opere che erano state trafugate come bottino di guerra ed esibite nel Salon Carré del Louvre per celebrare Napoleone.
Dal punto di vista normativo, il catalogo è un’autonoma opera dell’ingegno tutelata dal diritto d’autore se dotato del carattere della creatività e autore è colui che lo ha organizzato e diretto.
La decisione della Cassazione del 2025 ha risolto un contrasto tra il Tribunale di Milano e quello di Roma, perché mentre il primo riteneva che il mancato riconoscimento dell’autenticità di un’opera da parte di una Fondazione fosse di per sé un danno per il collezionista, in quanto ne azzerava il valore e quindi se non impediva, sicuramente rendeva meno agevole la vendita, il secondo invece, sosteneva che un Tribunale potesse pronunciarsi sull’autenticità solo se ci fosse stato un danno concreto e dimostrabile. La Suprema Corte ha aderito a questa seconda interpretazione, vale a dire che, senza un danno specifico e provato, un Tribunale non possa pronunciarsi sull’autenticità dell’opera e ove lo faccia, non c’è comunque alcun obbligo da parte della Fondazione di inserirla in archivio e catalogo.
La questione si è posta perché la legge sul diritto d’autore non dice né chi siano i soggetti legittimati al rilascio del certificato d’autentica, né quale sia il criterio in ragione del quale l’autenticazione una volta rilasciata possa essere considerata una prova privilegiata.
Se l’artista è vivente è, senza dubbio, suo il diritto di autenticare l’opera come facoltà rientrante nel diritto morale di paternità, in quanto “l’autore conserva il diritto di rivendicare la paternità dell’opera” (ex art. 20 Legge sul diritto d’autore).
Alla sua morte il diritto si traferisce ad alcuni familiari dell’artista (ex art. 23 citata legge), sulla presunzione che possano aver conosciuto la vita e la sua produzione artistica, ossia “al coniuge e ai figli e, in loro mancanza, ai genitori e agli altri ascendenti e ai discendenti diretti”.
Non spetta solo a questi in ragione della libertà di espressione di cui all’art. 21 della Costituzione. Difatti, la giurisprudenza ha affermato, da un lato, che “la formulazione dei giudizi sull’autenticità di un’opera d’arte costituisce espressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero” (Trib. Roma, 14 giugno 2016) e, dall’altro, che “l’expertise – vale a dire il documento contenente il parere di un esperto, considerato competente e autorevole, in merito all’autenticità e all’attribuzione di un’opera d’arte – può essere rilasciato da chiunque sia tale cioè competente e autorevole, non trattandosi di un diritto riservato in esclusiva agli eredi dell’artista” (Trib. Roma, 16 febbraio 2010, n. 3425).
Non solo il coniuge, i figli o i parenti più prossimi di un’artista defunto hanno quindi il diritto di affermare che un’opera è stata eseguita o meno dall’artista stesso, ma questa facoltà spetta in realtà a chiunque, sul mercato, sia considerato competente.
Il Tribunale di Roma nel 2016 era stato adito dal proprietario di un quadro che aveva citato gli eredi di un artista e la sua fondazione perché aveva richiesto una dichiarazione di autenticità a quest’ultima, che si era resa disponibile ma solo se il richiedente avesse sottoscritto un contratto che escludeva ogni sua responsabilità in ordine all’analisi dell’opera e al rilascio del parere sull’autenticità.
L’attore però si era rifiutato considerando illegittima tale richiesta della fondazione e si era rivolto al Tribunale per domandare l’accertamento dell’autenticità e la condanna della convenuta per il comportamento ritenuto illegittimo.
Il Tribunale romano, dal canto suo, ha dichiarato legittimo il contratto proposto dalla Fondazione, contenente la clausola di esonero della responsabilità e in generale legittimo il suo comportamento, affermando poi che l’attività di autenticazione,essendo espressione del libero pensiero, può essere esercitata da chiunque sia accreditato esperto d’arte e dunque anche dalla fondazione.
Dello stesso avviso è stato sempre il Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di impresa, con sentenza del 2017, ove ha affermato che “non è configurabile, pur nella discordanza dei pareri degli esperti, un diritto all’accertamento giudiziale della paternità di un’opera d’arte che, oltretutto in fatto, darebbe a sua volta luogo a un parere meramente probabilistico sulla riconoscibilità dell’opera a quell’artista”.
In questo caso una società di intermediazione e commercializzazione di opere d’arte aveva venduto, per l’importo di Euro 40.000,00, a un noto collezionista, un’opera “senza titolo 1973/1978 smalto su tela” che la Fondazione Mario Schifano aveva autenticato.
Il collezionista, una volta acquistatala, aveva a sua volta chiesto all’Archivio Mario Schifano di inserirla nell’archivio generale dell’autore, ma aveva ricevuto un netto rifiuto perché a dire dei suoi responsabili “non sussistevano elementi sufficienti per potere attribuire tale opera alla mano del pittore defunto” e così il collezionista aveva chiesto e ottenuto la restituzione del prezzo pagato da parte della società, corrisposto mediante permuta con altra opera certificata di pari valore.
La detta società aveva quindi citato dinanzi al Tribunale di Roma l’Archivio Mario Schifano per l’accertamento giudiziale dell’autenticità dell’opera e il risarcimento del danno quantificato nell’imporo di Euro 40.000,00, ossia pari al prezzo che aveva restituito mediante permuta al collezionista.
Ancora, il Tribunale di Roma, con sentenza del 2018, ha escluso l’ammissibilità di una domanda volta ad accertare l’autenticità di un’opera d’arte perché si trattava di mero accertamento di un fatto storico.
Nel caso di specie, un privato aveva ricevuto in donazione tre opere senza titolo da parte dell’artista Cy Twombly e una volta deceduto, volendo venderle affidandosi a case d’asta, aveva tutto l’interesse a che fossero riconosciute autentiche da parte della Fondazione di Cy Twombly e dai suoi eredi e che fossero inserite nel catalogo. Dell’artista.
Entrambi si rifiutarono e le case d’asta ritirarono la disponibilità a occuparsi della vendita, di conseguenza il proprietario delle opere citò in giudizio sia la Fondazione che gli eredi perché venisse accertata giudizialmente la loro autenticità e di conseguenza venissero rilasciati i relativi certificati e inserite le opere nel catalogo dell’artista.
Il Tribunale di Roma ha rigettato le domande richiamando la sentenza dello stesso Tribunale del 14 giugno 2016, osservando che, sebbene gli eredi possano rivendicare la paternità dell’opera ex art. 23 Legge su diritto d’autore, la facoltà di autenticazione non è un diritto loro riservato in esclusiva in quanto, come già precisato in pregressa decisione del 2010, “la formulazione di giudizi sull’autenticità dell’opera d’arte di un artista defunto costituisce espressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero e pertanto può essere effettuata da qualunque soggetto accreditato esperto d’arte del mercato, fermo restando il diritto degli eredi di rivendicare la paternità di un’opera d’arte ove erroneamente attribuita ad altri o viceversa disconoscerne la provenienza”.
Inoltre, “la formulazione dei giudizi sull’autenticità di un’opera d’arte costituisce espressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero (ex art. 32 Cost.) per cui l’obbligazione gravante sull’esperto chiamato a rendere una perizia, attribuzione o autenticazione, è una semplice obbligazione di mezzi e non di risultato per cui, in base al principio dell’autonomia negoziale, non può essere obbligato a stipulare un contratto avente ad oggetto la manifestazione della propria opinione secondo i desideri del richiedente”.
In tal senso, l’intervento dell’Autorità Giudiziaria non può essere invocato semplicemente per il rilascio di una attestazione di autenticità e/o di una perizia su un’opera d’arte, non rinvenendosi alcuna norma che lo consenta o che preveda tale diritto.
Perché il Tribunale possa intervenire e accertare l’autenticità di un’opera è essenziale l’esistenza di una certificazione poi rivelatasi falsa, ovvero può intervenire ogni qualvolta ci sia la contestazione di paternità dell’opera.
Ancora, con sentenza del 26 giugno 2019, sempre il Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di impresa, in relazione alla richiesta di autenticità giudiziale di opere di Keith Haring ha affermato che “una volta che l’artista non sia in grado di autenticare l’opera d’arte, l’autenticità della stessa può essere oggetto esclusivamente di un parere e non di un accertamento in termini di verità, parere che è espressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero ex art. 32 Cost.”
Di diverso avviso la Corte di Appello di Milano, almeno in un primo momento, in quanto con sentenza n. 1054 del 4 maggio 2020, pronunciata in merito alla richiesta di autenticità di una scultura di Lucio Fontana dal nome “Nature”, ha ribadito l’ammissibilità della domanda di dichiarazione di autenticità oggetto di contestazioni da parte di terzi, perché funzionale e determinante a garantire piena tutela del diritto di proprietà, in quanto “compromette significativamente la facoltà del proprietario di vendere la scultura come autentica a un prezzo di mercato corrispondente alle sue effettive caratteristiche nonché di farla circolare nei rapporti con i terzi, tramite esposizioni d’arte, come opera attribuibile al Maestro Fontana sebbene ciò non incida in alcun modo sulla libera manifestazione del pensiero degli esponenti della Fondazione, che da nessuna sentenza potrebbero essere condannati a emettere certificati di autenticità”.
Tuttavia, nel 2021, con sentenza n. 1238 del 28 aprile, ha mutato orientamento nel riformare una decisione del 2019 con cui il Tribunale di Milano aveva dichiarato apposta per mano di Lucio Fontana la scritta “Che bel vento di marzo” dietro alla tela rossa squarciata da due tagli di 46 x3 9 cm, che invece la Fondazione Fontana, aveva dichiarato falsa e minacciato di fare sequestrare.
La Corte di Appello di Milano, aderendo all’orientamento del Tribunale di Roma, ha invece dichiarato la carenza di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. della proprietaria della tela che aveva chiesto giudizialmente l’autenticità della stessa perché “domanda pretestuosa o destituita di utilità ai fini della tutela della sfera giuridica di chi le introduce” di cui l’art. 100 c.p.c. costituisce un filtro.
Con la decisione della Corte di Cassazione del 2025 viene sostanzialmente conferito un grande potere agli Archivi che sono enti che assumono la forma di fondazioni o associazioni senza scopo di lucro, con il compito di preservare, documentare, autenticare e diffondere le opere, la vita e il lavoro di un artista sminuendo contemporaneamente il ruolo dei collezionisti, perché inevitabilmente gli Archivi autenticando o meno un’opera d’arte ne determinano il valore di mercato e quindi la possibilità di alienarla e determinano così il prezzo a cui possa essere ceduta.
Se è vero infatti che chiunque possa autenticare un’opera d’arte ossia esprimere un parere sulla paternità dell’opera reso in un expertise, ciò basa sulla sua analisi, sulla tecnica adoperata, sulla firma, sulla documentazione fornita a supporto, sulla ricostruzione di eventuali trasferimenti ed è chiaro che l’autorevolezza del parere dipenderà dall’esperienza di chi rende quel parere e va da sé che quello dell’Archivio è considerato il più autorevole perché dedica la sua vita a conservare e promuovere quel determinato artista.
Si pensi, ad esempio, al caso dei procedimenti avviati dalla Fondazione Albers in Italia, dove i pareri resi dalla stessa non sono mai stati messi in discussione e sono prevalsi su quello reso dal CTU nominato in giudizio. Ciò è avvebuto in quanto quest’ultimo considerato critico generalista, non così esperto come Nicholas For Weber, Direttore della Fondazione Albers, e il Tribunale di Torino, con sentenza del primo luglio 2022, dopo che il Giudice aveva analizzato le modalità con le quali il parere era stato rilasciato dal CTU, ha ritenuto quello del direttore “assolutamente attendibile”.
È necessaria allora una valutazione caso per caso per capire come lavora la Fondazione e sulla base di quale esperienza acquisita in merito alle opere e la vita di quell’artista che cura.
Questo non vuole dire che le Fondazioni e le Associazioni, in genere gli Archivi, siano esenti da errori. Anzi alcuni sono stati anche eclatanti, gravi perché sono andati a incidere sul valore di mercato dell’opera.
Si pensi al caso del dipinto “Movimento Danza” di Gino Severini che le due figlie viventi avevano riconosciuto del padre ma la prof. Daniela Fonti, massima esperta di Severini, si era rifiutata di inserirlo nel Catalogo Ragionato dell’artista perché aveva dubbi sull’autenticità e così la casa d’Aste Christie’s, a cui il collezionista proprietario del dipinto aveva dato l’incarico di venderlo, si era rifiutata di farlo.
Il collezionista intentava una causa di annullamento per vendita di aliud pro alio per difetto di autenticità e la Corte di Appello di Milano, con sentenza del 11 dicembre 2020, ha infine deciso per l’annullamento del contratto di vendita stante la “mancanza di certezza della paternità dell’opera in capo a Gino Severini e il ritiro dell’opera dall’asta già prevista da parte di Christie’s, autorevole casa d’aste, in grado di influenzare con le sue decisioni il mercato dell’arte concluse trattarsi di errore essenziale sulle qualità della cosa venduta”.
In definitiva, allo stato attuale, in Italia non esiste alcuna modalità di certificazione univoca e ufficiale di autenticità di un’opera d’arte. La legge sul diritto d’autore non indica chi siano i soggetti legittimati al rilascio del certificato d’autenticità, né dispone una gerarchia tra i soggetti menzionati nelle proprie disposizioni, né prevede alcun criterio affinché l’autentica rilasciata sia considerata quale prova privilegiata.
Tale opacità, come visto, regna sovrana anche sotto il profilo eminentemente processuale. Non vi è alcun soggetto predeterminato la cui certificazione d’autenticità costituisca prova incontestabile o privilegiata nel processo, per certi versi neanche l’autentica da parte dell’artista medesimo. Su tale ultimo punto va evidenziato che, in sede penale, “nei casi di opere d’arte moderna e contemporanea il giudice è tenuto altresì ad assumere come testimone l’autore a cui l’opera d’arte sia attribuita o di cui l’opera stessa rechi la firma” (art. 9 della Legge n. 1062/1071), con ciò operando una capitis deminutio dell’artista, riducendolo a mero testimone sull’autenticità delle proprie opere, come notoriamente avvenuto nei celebri casi inerenti a lavori di Giorgio De Chirico.
Paola Calvano