ABSTRACT: Questo contributo analizza l’evoluzione del diritto romano (ius) come sistema strutturato e come strumento di conservazione dei valori fondamentali della civiltà romana. Partendo dalla tarda Repubblica (I secolo a.C.), si evidenzia l’emergere della necessità di un approccio sistematico e scientifico al corpus giuridico esistente. L’opera pionieristica di Quinto Mucio Scevola è identificata come un momento cruciale, segnando il passaggio da una tradizione prevalentemente orale a una scienza giuridica basata sulla scrittura, l’analisi critica e l’organizzazione logica (influenzata dalla diáiresis greca), culminando nella stesura dello Iuris civilis. Questo processo porta alla concettualizzazione astratta del diritto, creando uno “spazio separato” che ne fonda l’autonomia intellettuale e lo definisce come atto di conoscenza piuttosto che di mera volontà. Nella successiva età classica, questa autonomia permette alla giurisprudenza di fungere da custode della tradizione e dei valori morali e civili, anche di fronte al potere imperiale. Figure come Servio sviluppano ulteriormente la dimensione ermeneutica. Il testo esplora il ruolo pedagogico-formativo dei giuristi, l’emergere di scuole (stationes) e correnti contrapposte (Sabiniani vs Proculiani), testimoniando la vitalità intellettuale e sociale del diritto. Infine, si analizzano le diverse forme letterarie della produzione giuridica classica (commentari, raccolte casistiche come responsa, quaestiones, digesta, opere didattiche), notando la prevalenza di uno stile analitico e casistico rispetto a grandi sintesi sistematiche, preparando il terreno per le codificazioni postclassiche e giustinianee.
SOMMARIO: 1. La conquista di una scienza, o il sapere giuridico come dimensione separata. L’impresa critico-testuale di Mucio – 2. La giurisprudenza classica: il diritto come atto di conoscenza, e valore pedagogico-morale. Scuole del diritto e tipologie di scrittura.
1. La conquista di una scienza, o il sapere giuridico come dimensione separata. L’impresa critico-testuale di Mucio
Tante sono le pagine della storia successiva di Roma e del suo diritto, che giungono alla grande sintesi giustinianea nell’epoca oramai orientale dell’impero. Molteplici le forme assunte dalla giurisdizione romana, così come della sua declinazione applicativa della legge nei tribunali e in tutta una serie di controversie e di problematiche che, nel tempo, la stagione imperiale di Roma finì per dover affrontare nell’estensione dei suoi territori e nell’integrazione, inevitabile, di tante differenze localistiche del diritto, corrispondenti ai tanti diversi popoli acquisiti ai territori dell’impero.
Non possiamo, evidentemente, esaurire l’intera casistica storica di tali evoluzioni, né entrare troppo nello specifico in una serie di caratteristiche declinazioni tecniche della vita giuridica dei lunghi secoli imperiali. Dobbiamo, piuttosto, inquadrare in termini macrotematici questo argomento, desumendone al lavoro alcune linee di tensione fondamentali capaci di agire nel cuore stesso di questa cultura giuridica: linee di fondo che, a ben vedere, possiamo ipotizzare in qualche modo coerenti nel tempo e capaci di porsi quali forze di continuità, e dunque continuative, anche nel corso di questi stessi lunghi secoli, e che perciò rappresentano in certo modo una sorta di nocciolo socio-culturale sul quale porre la nostra attenzione.
Proprio seguendo alcune, essenziali indicazioni incrociate tratte da alcuni fra i più importanti osservatori contemporanei del diritto romano nella sua storia, come Guarino o Schiavone prima di tutti, infatti, paiono emergere alcune linee di forza tendenziali le quali possono farsi riconoscere come veri e propri “nodi di fondo” presenti nel cuore più intimo della civiltà romana, che quindi come tali devono poter essere individuati quali reali aspetti decisivi in grado di caratterizzarne il reale profilo culturale e morale, oramai ben riconoscibile da questa nostra posizione di lontananza storica. Entra in gioco qui proprio l’elemento pedagogico-formativo posto tra gli obiettivi primari di ricerca di questo nostro lavoro, elemento in realtà riconoscibile all’opera, come vedremo, in quella che potremmo azzardarci a ipotizzare essere in realtà l’intima propensione di fondo della cultura giurisprudenziale e, in genere giuridica romana per lunghi secoli, e probabilmente il suo vero tratto distintivo capace di confermarsi nel tempo al cospetto delle varie sfide che le lotte di potere e la tenuta stessa politico-civile della romanità gli imposero di fronte in diverse maniere.
Già alla fine della repubblica, infatti, in quel tormentato I secolo avanti Cristo pieno di lotte e di traumi decisivi nell’evoluzione della repubblica al principato comincia a profilarsi con una certa saldezza di intenti un modello d’approccio allo ius caratteristico, ed in quella fase storica innovativo: comincia cioè a imporsi l’idea, e la necessità, di riconoscere nella massa giurisprudenziale e nella vasta produzione legislativa ormai prodottesi da secoli nella civitas romana un ordine, in qualche modo una logica di correlazione e al tempo stesso di unificazione degli elementi capace di individuare una coerenza strutturale, una visione coordinata ed unitaria del suo funzionamento. Una lettura nel senso di un riordino sistematico che, dall’opera pionieristica di Mucio Scevola posizionata all’inizio del I secolo a. C. attraversando l’intera successiva storia del principato e dell’Impero giungerà a culminare proprio nell’opera grandiosa di sintesi, di sistemazione in senso proprio realizzata da Giustiniano con il suo Codex.
Dobbiamo infatti poter cogliere nella fase tardo-repubblicana dell’opera dei giureconsulti un caratteristico movimento storico-culturale, che molto bene definisce ed inquadra Guarino allorché egli si sofferma sull’importanza dei iurisconsulti nella istituzione e conservazione della “Repubblica Universale Romana” capace di passare riconfermando i propri valori attraverso le stagioni tardo repubblicane e poi imperiali, quelle stagioni che lo studioso italiano ricomprende sotto l’etichetta di “giurisprudenza classica”, ma di proseguire poi anche oltre, nella individuata “giurisprudenza postclassica” dei secoli successivi.
Secondo Guarino, la giurisprudenza classica ebbe una vera e propria “funzione storica” nella capacità di far resistere lo ius e di tramandarne le strutture e i significati, anche di fronte ai possibili attacchi che, soprattutto nella nuova posizione dominante del princeps dell’età imperiale, potevano facilmente giungere e tentare di imporsi alla civiltà giuridica romana, in quella che nel frattempo era divenuta sempre di più una “società verticale”1. Gli esperti giureconsulti riuscirono, in qualche modo, a garantire la trasmissione di una vera e propria tavola dei valori giuridici e civili, proprio attraverso la loro funzione conservatrice e protettrice nei confronti dello ius, individuato quale patrimonio condiviso della società romana e, per ciò stesso, quasi da considerarsi nei termini come di un fondamento immutabile da preservare.
L’oculato tradizionalismo che lo studioso attribuisce in primis tra le sue qualità distintive fondamentali alla giurisprudenza classica si coniuga, sempre secondo lo studioso, all’altra qualità emergente all’interno di essa, ossia quella dell’orientamento sistematico, la tendenza cioè a gestire il patrimonio storico del diritto nei termini sempre più ordinati di un sistema, di un inquadramento unitario della sua materia.
Assume a questo proposito di nuovo un valore emblematico quanto esplicativo la riflessione analitica nel merito portata da Schiavone, il quale ricostruisce diremmo l’intero dossier relativo al “caso Mucii” nella storia del diritto di Roma, dandone per così dire la più adeguata collocazione, all’interno di questa vicenda.
Difatti, secondo lo storico italiano quello di Muccio costituisce un momento cruciale di svolta nella visione, ed utilizzo, del diritto nella storia romana, specie di zona di passaggio decisiva nell’evoluzione dello ius antico. Non solo, ma, da parte nostra, crediamo come le conclusioni cui giunge Schiavone possano a giusto titolo farsi ricomprendere all’interno d’una prospettiva intimamente “pedagogica” del diritto come tale, nel suo porsi quale conservazione accurata della tradizione e attenzione alla sua trasmissione, missione che l’opera di Quinto Mucio Scevola – in continuità con il padre, Publio Scevola – elegge, come vedremo, a suo fondamentale obiettivo primario. Un obiettivo di recupero e messa in ordine della tradizione giuridica ereditata dalla storia cittadina soprattutto all’interno dei responsi pontificali, il quale obiettivo accompagna però al contempo a un parallelo obiettivo civile e morale, testimoniato dalla vita stessa di Quinto Mucio e dalla sua visuale repubblicana intimamente concepita.
Quella che si profila, nell’asse storico dell’ultimo scorcio repubblicano tra la fine del II secolo e il I secolo a. C., è la costruzione d’una scienza; o forse per meglio dire, la crescente presa di coscienza della funzione più intima del diritto, del suo ruolo sociale a fondamento della repubblica e della sua civitas. Due fattori sociali e culturali giocarono, in quella fase storica, una funzione importante nel suscitare e stimolare questa evoluzione, ossia l’imporsi e diffondersi della scrittura all’interno della società romana tardo repubblicana, e la conoscenza della filosofia di provenienza greca, la cui aperta prospettiva di pensiero e capacità speculativa venne sempre più ereditata da Roma, specialmente da parte di alcune grandi famiglie aristocratiche all’interno di essa.
In effetti, l’avventura della famiglia dei Mucii si innesta nel circolo e nell’ambiente della famiglia degli Scipioni assieme ad altre grandi famiglie aristocratiche romane già nel cuore del II secolo a. C., nel cui contesto erano entrate filosofie e rappresentazioni del mondo provenienti dalla cultura ellenistica. La filosofia greca conquistò sempre più profondamente concezioni e credenze all’interno della società romana, e nella sua sensibilità intellettuale.
In questo tipo di ambiente, volto nel senso d’una letteralizzazione della cultura romana, si mosse così l’attività di Publio Mucio Scevola, padre di Quinto e significativo autore d’una prima, riconosciuta ricognizione dello ius tradizionale romano, con la sua opera tramandata però solo attraverso dei frammenti presenti in diversi grandi autori successivi – Labeone, Pomponio, Gellio, lo stesso Cicerone – dedicata allo ius civile e composta in dieci libri, o come vengono definiti libelli. Fattore determinante, in quest’opera sembra essere prima di tutto proprio la scrittura, ossia la capacità di trasferire il sapere giurisprudenziale in forme scritte: fenomeno che, fino a quel tempo, era ancora alquanto raro, secondo una tradizione che s’era affermata, fondamentalmente, attraverso una quasi esclusiva trasmissione sul piano orale, durante i secoli.
Quello di Publio Mucio Scevola è probabilmente da riconoscere come il primo vero tentativo di “letteralizzazione del sapere giuridico romano”2, nel quale egli provò a far rientrare il grande materiale dei responsi acquisiti dalla memoria giurisprudenziale della storia romana, ormai maturata da una lunga esperienza della Repubblica. Molto probabilmente, il lavoro di Publio rifletteva un più ampio dibattito attorno, intervenuto all’interno della società repubblicana romana di quel tempo e di cui esso rappresenta un segnale, una specie di traccia capace di giungere fino a noi attraverso i secoli.
Si deve comprendere di questa opera di Publio la reale importanza, quella prima di tutto d’aver cominciato una sorta di “opera critica” nei confronti della memoria giuridica di Roma, preparando il terreno in questo modo all’opera in seguito sviluppata da suo figlio, Quinto Mucio, e al dibattito e sviluppi culturali della generazione successiva. Senz’altro fu proprio in questo clima culturale che cominciò l’attitudine a riordinare lo ius attraverso degli strumenti più analitici e una visione di sintesi secondo, per esempio, una rappresentazione tramite delle famiglie di casi della materia giuridica, e indirizzandosi in questo modo verso la determinazione e formulazione di un’unica, separata ed originale disciplina, connessa al diritto: un’impresa di cui Publio Mucio seppe meglio di tutti dare l’inizio e l’indirizzo. Impresa volta all’osservazione e all’ordinamento delle catene di responsi venuti dalla tradizione, così come alle loro nuove interpretazioni, il tutto coordinato in una nuova collocazione coerente, e riportato su libri scritti.
Come sottolinea Schiavone, dai frammenti ereditati di Publio Mucio si registra in quest’opera remota la “notevole presenza di tracce d’opinioni divergenti” intorno allo stesso caso, ma anche quella che Schiavone stesso chiama l’emergere di una “forza logica del responso’”, ormai separata dall’“involucro della tradizione” – tratti significativi di novità prospettica, poi fatti maturare nello studio successivo del figlio, Quinto Mucio.
È da riconoscere il movimento profondo che sembra rivelarsi, in questo passaggio, movimento che sembra far emergere una tensione sottile tra la tendenza di provenienza greca rivolta verso una prevalenza della persuasione oratoria, da una parte, e quella verso una conoscenza del diritto ripreso dalla tradizione, che in qualche modo le si contrapponeva, dall’altra. Due paradigmi di verità, dice Schiavone, dunque emersi a confronto; ma dei paradigmi la cui tensione sembra rivelare altresì una sorta di problematica morale al suo interno, perché il compito connesso alla coltivazione del diritto si può senz’altro collocare sul versante d’una preoccupazione appunto morale e civile: frequentare la storia del diritto, coltivare i valori e ricostruire le linee di senso di esso, infatti, va assunto precipuamente nella sua essenziale profilatura di missione morale e pedagogica, la quale tali studiosi della tarda età repubblicana ben definirono nella loro testimonianza.
Ed è, altresì, proprio in questa fase storica, allora, che va individuato il costituirsi e sempre meglio definirsi di tale richiamo in senso educativo, e quindi a suo modo pedagogico del diritto a Roma, quale spazio condiviso individuato dai giuristi e posto alla base del “contratto sociale”, potremmo dire, della repubblica, e la cui coltivazione di conoscenza avrebbe perciò dovuto proteggerne i valori, concepiti nel senso d’una frequentazione e garanzia d’un certo bene civile al di sopra delle parti e degli abusi, o della pura violenza esercitata. Il privilegio ciceroniano, e muciano, sembra infatti accordarsi al tipo d’un sapere giuridico fondato prima di tutto su dei modelli di responso conformati al sapere giuridico cittadino, invece di quello, potenzialmente emergente alla fine della repubblica, basato sulla forza dell’eloquenza oratoria ma non raramente legato dei concreti interessi da proteggere – poiché spesso, come scriveva Cicerone, ad suam rem accomodatum. In termini forse un po’ diversi ma abbastanza simili nel senso, qualcosa di risonante con la distinzione operata da Platone contro i sofisti, e la “doxa” alla base della loro tecnica oratoria, denunciata come abilità potenzialmente opportunistica e non “vero sapere”, episteme, al di sopra delle contingenze e delle illusioni retoriche.
Una tensione di contrapposizioni però osservabile anche su di un altro piano, quello tra una certa rappresentazione del “vero”, tutta ancora osservata all’interno della propria tradizione giuridica autonoma quanto legittimante, e una elaborazione dei responsi invece capace di valutazioni più concettuali, generalizzanti, volte alla ricerca di risposte in grado di garantire, nei casi specifici, i migliori vantaggi per i contraenti.
In definitiva, seguendo in questo passaggio Schiavone, è possibile riconoscere in gioco durante simile fase storica “l’intuizione di un legame nuovo tra logica ed etica del responso, fra rigore del sapere giuridico e prestigio morale e civile che ne derivava, che riusciva ad andare oltre gli interessi contingenti, per collocarsi su un piano di maggiore autonomia intellettuale (…)”, a fronte delle “tecniche di persuasione predisposte dall’oratoria”.3
Un orizzonte, quindi, che dava l’idea di un certo “primato della ragione giuridica che Rutilio dove aver imparato dai Mucii” – e dove Rutilio, evidentemente, fa già parte della evoluzione critica e culturale della Roma repubblicana successiva.
L’opera di Quinto Mucio Scevola, attivo ormai nei primi decenni del I secolo a. C., segue questo spirito, ma riesce anche come abbiamo più sopra anticipato ad offrirci un testo molto più ben conservato degli autori a lui precedenti, e del quale possiamo più credibilmente ricostruire l’ordito scritturale. Si potrebbe dire, con Schiavone, che proprio da Quinto Mucio in poi parta una vera e propria storia diversa della “coscienza del diritto” in Roma, e un patrimonio testuale di autori giurisprudenziali finalmente riconoscibile e individualmente definibile. Da una parte, una “sintesi della tradizione”, da riportarsi nel corpo d’un unico scritto, dall’altra una specie di “domanda di testualità” nei confronti di quella “sedimentazione magmatica” dello ius civile, mossero l’azione di Quinto Mucio in questo clima peculiare, nel quale tendeva a diffondersi un rapporto sempre più pervasivo tra scrittura e normatività.
Egli provò a raccogliere, dandone un ordine, un corpus di documenti in cui oltre al peso di una lunga tradizione orale si cumulavano, l’uno assieme all’altro, gli editti dei pretori e degli altri magistrati, le leges rogatae nei comizi e le leges datae nelle realtà municipali: ecco nascere allora l’opera dello Iuris civilis (in 18 libri) che tramandò la fama di Mucio nella cultura giuridica a lui successiva, per i restanti anni della Repubblica e per tutti i secoli dell’impero a venire, una fama e celebrità realmente importanti ed influenti nella giurisprudenza romana, spesso al centro dei suoi riferimenti di valore. In qualche modo, il testo composto nello Iuris civilis può essere considerato – perché lo fu, spesso, nell’antichità – il primo grande documento compiuto del pensiero giuridico di Roma, anche se la cui trasmissione è giunta solo attraverso un ampio commento di Pomponio, riportato nei Digesta giustinianei.4
Il testo di Mucio era riportato da Pomponio sezionato attraverso una serie brani-lemmi in sequenza, dopodiché commentato, in una maniera non troppo dissimile da quanto fecero anche altri autori giuristi successivi, nei quali l’opera di Mucio fu spesso considerata e citata. Strutturati evidentemente da una salda collocazione scritturale, i libri del Corpus Iuris civilis si pongono alla nostra attenzione come momento e prova decisiva nella storia del diritto di Roma, nei quali il suo autore riportò tutta la sua esperienza di “respondente” giuridico, oltre che di esponente pontificale.
L’aspetto però immediatamente più significativo è la concezione diremmo architettonica di tale struttura, poiché Mucio si apprestò a costruire una sorta di ricognizione completa dello ius ereditato fino ad allora, ma attraverso una sistemazione logica concepita per diversi temi, i principali temi cioè a cui la tradizione faceva risalire lo ius civile.
Ed è su questo punto che dobbiamo focalizzare l’attenzione critica, cioè sulla scelta di tipo compositivo comportata da tale impresa la quale, seguendo in ciò l’opinione di Schiavone, sembra costituirsi “l’autentico codice della scrittura di Mucio”, lo “statuto” più significativo della sua testualità all’opera. Poiché, come compresero a diverso titolo già i suoi commentatori ed utilizzatori antichi, nello Iuris civilis viene a configurarsi per la prima volta un ordine della materia giudiziale e normativa, con cui in questo modo si costituì un vero e proprio fondamento, un constituit della materia stessa, finalmente raccolta nel senso di un redigendo dell’eredità vivente connessa al diritto. Anche, se non soprattutto, per questo motivo lo Iuris civilis si pose sin da subito come un testo ineludibile per la tradizione giuridica successiva, almeno fino all’età severiana, influenzando tutta una serie di giureconsulti ed autori antichi, da quelli coevi tardo repubblicani ai giuristi dell’età augustea ed imperiale successiva, fino al contesto del diritto postclassico e alla sintesi di Giustiniano e Triboniano; autori, i quali avevano maturato certo la consapevolezza che il lavoro di Mucio aveva costituito una decisiva svolta nella cultura giurisprudenziale romana.
La prima dinamica dell’azione ordinatrice apportata nel magma storico-normativo da parte di Mucio si sviluppa tramite un criterio emeritamente storiografico, con cui il giurista antico sembra aver diviso la sua opera, distinta attraverso tre periodizzazioni/strati maggiori e differenziati, ossia distinguendo l’epoca delle XII Tavole, il momento storico di Elio giurista altamente considerato del periodo repubblicano precedente, e la parte della documentazione di Publio Scevola suo padre con altri autori suoi coevi, zona storica posizionata subito prima dello stesso Quinto Mucio Scevola. Ma è su di un piano più strettamente logico compositivo che Mucio introduce un ulteriore, fondamentale tipo di criterio ordinativo, allorché egli dispone la sua trattazione distinguendola per capitoli separati, per capita riportandola nella sua terminologia, e quindi creando di conseguenza una logica sequenziale e una cadenza regolare all’esposizione.
Una regolarità per capita-capitoli capace di stimolare alla sua lettura l’idea d’una divisione argomentativa e tematica, se non di suggerire l’impianto di un vero e proprio “canone sistematico” oramai in fieri. Di fatto, la divisione per capitoli di Muccio inaugurava una scansione ordinante della materia del diritto, fissato in scrittura e dunque al tempo stesso sulla via di un ordinamento sequenziale tematico motivato, a maggior ragione se consideriamo che, in effetti, l’espressione capita legis pare riferirsi nella comune accezione del diritto antico alle parti distinte di una lex publica, nel successivo configurarsi delle sue disposizioni.
Un’espressione che, dunque, si portava dietro una decisa tonalità intesa in senso normativo, laddove costruire per capita un testo giurisprudenziale doveva significare l’intenzione di dare una cadenza capace di fissarne le prescrizioni, rivestendolo al contempo dell’incisività legata alle rogationes della magistratura. Per riprendere Schiavone, questo significava “sottrarre il ius civile alla fluidità intrinseca alla sua condizione, per conferirgli una solidità e una certezza che non aveva mai prima acquistate”.5
L’espressione capita iuris civilis divenne da allora, d’altronde, propriamente una comune formula dell’ordinamento logico della materia giuridica.
Su di un piano concettuale sembra emergere come l’elaborazione muciana sia riuscita a configurarsi secondo una tensione espositiva in equilibrio tra la “stilizzazione del caso” e una “formulazione della prescrizione”, sviluppandosi a partire da un’analisi casistica, e sfociando in enunciati delle statuizioni. Sembra altresì evidenziarsi la capacità di separare, nell’andamento dell’opera muciana, un certo “carattere generale” delle prescrizioni dai vari profili più specificatamente casistici analizzati. Ma su questa via, comprendiamo come nell’impresa di Mucio si sia imposta allora una natura intrinsecamente innovativa nell’approccio ai contenuti del diritto: essa va individuata, come dice Schiavone, nel tipo di fondazione logica alla base delle scelte muciane.
Entra in gioco infatti una specie di “struttura analitica nuova” per il pensiero giuridico, che va “identificata nell’articolazione dei contenuti secondo i moduli della divisione per generi e specie”.6
Una capacità logico-analitica ricollegabile alla nozione platonica della diairesis, cioè della divisione attraverso cui far procedere l’ordine del proprio discorso strutturandolo nelle categorie appunto di generi e specie, e che nella successiva eredità retorica si era imposta soprattutto come essenziale metodo descrittivo, con cui si offriva quale tecnica persuasivo-retorica. Ma una capacità, specialmente, che con ogni probabilità fu alla base di tale evoluzione logico-filosofica maturata nella cultura spesso ellenizzante della Roma tardo repubblicana, e con cui cominciò dunque a strutturarsi il diritto nell’epoca di Mucio – essa si pose, quindi, come un modello sul piano delle forme logiche, con cui cominciare a trattare e sistemare i diversi ordini disciplinari del sapere.
Si tratta d’un passaggio decisivo nella storia stessa del diritto per come fu concepito e sviluppato a Roma, poiché riesce in un’operazione cruciale: quella di un delicato processo di integrazione con cui il sapere giuridico romano riuscì ad acquisire dentro di sé un modello cognitivo nuovo, d’origine filosofica e speculativa, ma sapendolo innestare senza smarrire il senso della propria potente identità storica, e riuscendo nei confronti del diritto a “rivoluzionarlo” per al tempo stesso “dargli compimento”, nel solco della propria tradizione. Ed è proprio attraverso questo decisivo passaggio che si ottiene un fondamentale risultato, la nascita di un nuovo modo di pensare il diritto, le cui procedure sarebbero sempre più state indirizzate a quelle di una scienza vera e propria, con ben pochi eguali al confronto nell’antichità. Riportiamo di seguito la potente descrizione di questo fenomeno, per come lo riassume Schiavone:
“Una conquista grazie alla quale sarebbe stato da allora in poi sempre potenzialmente possibile allontanare il disciplinamento ‘giuridico’ della vita dall’arbitrio di nudi atti di volontà dei poteri costituiti – per quanto, nelle diverse circostanze, piú o meno vincolati dalla tradizione, dal peso di una certa tecnicità, o dal rispetto di altri legami – per consegnarli alla rigorosa sintassi, impersonale e formalizzata, di astratti atti di conoscenza”.7
L’impianto diairetico e l’ordine più complessivo dell’opera di Mucio si indovinano stare in un rapporto peculiare di implicazione, il quale può accompagnarci a comprendere l’esatto “salto di stato” creato da questa sistemazione, dal valore epocale. Ma non è strettamente quella di Mucio, come rileva Schiavone, una reale sistemazione per generi e specie, come infatti non mancava di segnalare in diversi suoi passaggi critici Cicerone, fautore in diversi passaggi della sua opera di un ordine sistematico al di sopra della pura serialità cronologica nell’approccio al diritto, per esempio nel De oratore; in realtà, Quinto Mucio decise probabilmente di adottare solo in parte il modello diairetico, accettandone l’introduzione nei termini di un nuovo ordine logico per il diritto, ma solo per la disposizione delle materie all’interno di ciascun capitolo.
Egli fu meno interessato all’architettura logico-filosofica e più alla lezione dell’antica storia, riconosciuta e riconfigurata nella sua stratificazione progressiva, e nelle sue gerarchie funzionali alla società. In questo modo, allora, la strutturazione dello Iuris civilis vedeva funzionare assieme due schemi ordinanti, uno d’ordine storico venuto dalla memoria della città e capace di determinarne la sequenza d’insieme, ma anche un altro, centrato piuttosto sull’utilizzo della diairesis e in grado così di strutturarne l’andatura attraverso l’analisi di singoli temi, e con un intreccio dei generi all’interno di ciascun caput-capitolo.
Da tutto ciò però emerge, infine, la vera conquista fondamentale avvenuta con l’opera di Quinto Mucio, ossia la conquista di un solido livello di astrazione a sostegno di tale impianto costruttivo, capace in questo modo di ergersi al di sopra delle singole conoscenze inquadrate. Dalla conoscenza dei singoli casi, infatti, si passa all’idea più astratta di essi in grado di contenerne le specifiche occorrenze, nella nuova frequentazione di un orizzonte astratto di concetti capaci di riunire, in essi, la specificità dei propri distinti elementi costitutivi. È la forza innovatrice di un pensiero resosi pronto a una connessione concettuale portata al di sopra dei singoli elementi, e che trasferita sul piano del ragionamento giuridico riesce a oltrepassare il carattere più rigidamente casistico, per come era stato ereditato dall’esperienza storica relativa allo ius. Una connessione concettuale in grado di avviare a la costituzione d’un ordito coordinato, secondo la trama omogenea d’un discorso intessuto da categorie e nella sintesi di figure unitarie: un sapere giuridico relativo allo ius presentato, d’ora in poi, attraverso una rete di concetti scanditi all’interno di schemi diairetici capillari, disposti dalle nuove potenze ordinanti dell’astrazione.
2. La giurisprudenza classica: il diritto come atto di conoscenza, e valore pedagogico-morale. Scuole del diritto e tipologie di scrittura
Un intero modello di “virtù civile” al di sopra delle stesse evoluzioni politiche, ideologiche ed economiche si veniva così a comporre, nella conquista d’uno strumento scientifico-conoscitivo capace però al contempo di orientarsi nella regolazione dei rapporti quotidiani: lo ius così “conquistato” riesce a separare analiticamente le forme funzionali dei rapporti sociali considerati dalla materia viva che li compone, dalle determinazioni concrete apparse nella realtà più specifica dei casi. Non più una miriade di situazioni relazionali attraverso cui muoversi ogni volta di nuovo, ma un riferimento più concettualmente fondato nei termini di un paradigma astratto, capace di contenere nel proprio modello, ogni volta, quelle tipologie caratteristiche di situazioni simili e contenibili in un concetto unificatore.
Appare un diritto così riconfigurato attraverso un sistema di forme, nel quale il nome giuridico comincia a disegnare l’idea d’una esistenza separata, e che dalla stilizzazione dei casi e il riconoscimento del tipico nel fitto movimento delle somiglianze casistiche già elaborato nei secoli giunge a concepirsi nei termini di una tecnica specialistica ridisegnata quale pura dimensione di forme, disposta da una “specifica razionalità strumentale”. Un diritto che, attraverso il passaggio al pensiero astratto opera così una scissione storica e decisiva nella vita sociale del mondo europeo, quella del distacco dello ius dalla “effettività materiale della nuda vita”, elevando una “barriera cognitiva” fra se stesso, lo ius, e la folla mutevole di fenomeni del mondo circostante.
La lezione epocale di Mucio appena considerata accompagna questa decisiva maturazione del diritto a Roma, quella di predisporre il pensiero giuridico orientandolo a una separazione delle forme, in un senso disciplinante quanto normativo, facendo maturare altresì – seguendo in ciò una delle suggestiva intuizioni di Schiavone – un’intima attitudine romana proveniente, probabilmente, sin dal suo tempo più arcaico, in quel culto e prevalenza di un certo “involucro verbale e gestuale” centrale nel ritualismo dei padri, e dove già si indovina la forte tendenza alla stereotipia e alla sostituzione sistematica “delle cose con le parole e con i gesti”.
L’idea insomma d’un modello al di sopra delle singole evenienze, di una “impronta” dalla forma ripetibile, di un’astrazione capace d’attivare un certo paradigma funzionale, e che traducendosi in diritto crea la forza d’una norma propriamente giuridica. Sul piano ancora più sottile e filosofico si intuisce peraltro un ulteriore passaggio in gioco, poiché secondo ancora Schiavone la “rivoluzione epistemica”8 muciana non valeva solo nei termini di un puro esercizio filosofico distaccato di pensiero, come categoria di pura speculazione astratta, ma anche quale diretta applicazione in figure dell’essere, traducendosi cioè in enti reali dotati di una concreta oggettività, riconoscibili ed assumibili dal giudizio del diritto.
Impostato in questa nuova dimensione, il diritto stesso comincia a ragionare per gruppi di forme, per schemi astratti di relazioni sociali in figure dell’essere, in uno spazio oramai separato che è quello di un ordine giuridico peculiare: esso convoca i suoi esperti specialisti in questo stesso spazio di separazione, per così dire, dalla convulsione del mondo, all’interno d’una scienza in cui la regola giuridica non può che porsi quale atto di conoscenza, e non di volontà.
Un’evoluzione coerente su questa linea si sarebbe poi trasmessa al nocciolo più intimo della cultura giuridica romana successiva, come per esempio pare emergere in un’opera altrettanto significativa del diritto quali furono le Istituzioni di Gaio9, nelle quali viene presentata una rete di classificazioni capace di ordinare la moltitudine delle cose, delle res. In esse però emerge soprattutto una distinzione significativa, relativa alla condizione giuridica delle cose, che in Gaio e nelle sue Istituzioni si evolve direttamente in una distinzione di tipo qualitativa delle res, di fronte cioè dell’essenza stessa delle cose: distinte in corporali o incorporali, per esempio, secondo dunque la materialità o immaterialità della loro esistenza e condizione.
L’esistenza nel diritto secondo il ea quae iure consistunt, dunque, viene riconosciuta come una realtà dotata di una sua ben precisa essenza, valore, riferimento possibile – poiché le res si possono anche elaborare con il pensiero, e riconoscere in una loro esistenza, quali figure del pensiero stesso. È l’assimilazione fra esistenza, incorporeità e ius la parabola filosofica compiuta e maturata a consapevolezza giuridica nelle Istituzioni di Gaio, erede oramai di una lunga tradizione giurisprudenziale passata attraverso diversi importanti pensatori, tra cui lo stesso Seneca. In definitiva, rileviamo qui il percorso capace di avviare e via via compiere attraverso i secoli il processo di ontologizzazione dei concetti giuridici, nel quale l’esperienza romana dello ius ha saputo costruire uno strumento di sintesi straordinariamente efficace nei confronti dell’esperienza empirica, nella “disintegrazione delle forme dal contenuto materiale dei rapporti”.10
La trattazione finora svolta in questo capitolo non va considerata come un excursus laterale del nostro percorso, ma come un decisivo passaggio cruciale attraverso cui illustrare, sotto molti aspetti, uno degli argomenti centrali del nostro stesso lavoro. Poiché il configurarsi a “scienza” del sapere giuridico con la sua connessa rivoluzione epistemica che abbiamo seppur sommariamente fino a qui ricostruito può restituire per linee essenziali la vera essenza profonda della peculiarità del diritto a Roma, capace di collocarsi in uno strategico “spazio separato” e dunque in una sorta di autonomia critica decisiva dalla politica, dalla religione, dall’economia. Tale posizione di autonomia, fondata come abbiamo appena visto sull’astrazione delle rappresentazioni fenomenico-sociali e sulla ontologizzazione dei concetti relativi al diritto, costituirà realmente una collocazione peculiare dei giuristi attraverso i secoli successivi, e al tempo stesso offrirà un paradigma operativo capace di giungere fino all’età moderna, quale patrimonio diremmo senza tempo, pensiero e speculazione umana.
Ma d’altra parte possiamo anche azzardare un ulteriore passaggio, ovverossia ipotizzare una logica corrispondenza di tale esercizio separato della ontologia dello ius e lo sviluppo di una connessa pedagogia civile nella società romana, corrispondenza capace di trasmettersi dalla repubblica al principato fin dentro i secoli dell’impero e anche, in realtà, di attraversarne i gravi periodi di decadenza e, diremmo, risolversi pienamente nel Corpus Iuris, alla fine del mondo antico.
Da una parte i giuristi, senz’altro già a partire almeno – se non in realtà già da prima – da Publio Mucio Scevola in poi, riconoscendo il valore della tradizione ed ordinandone via via la materia ne indovinavano la lezione per strati progressivi, quale patrimonio storico dello ius romano e, di conseguenza, anche un reale modello non solo giuridico, ma anche più ampiamente di vita, nel suo essere propriamente modello altresì di virtù e di comportamento, nei tanti suoi possibili casi esemplari da contemplare tratti dall’azione di uomini e situazioni alquanto significativi della propria storia. Ma in parallelo, tali valori esemplari di situazioni specifiche poterono, nella cultura romana fin dentro i secoli imperiali innalzarsi ad esercizio filosofico-morale di pensiero, in cui l’esemplarità dei casi poteva riconnettersi a una speculazione di pensiero e a un’autonomia dei giudizi, seguendo come detto più sopra l’autonomia dello spazio giuridico così ricavato, ed in cui il giurista stesso può riservarsi una peculiare azione in senso razionale e di libero orientamento concettuale.
Per molti aspetti, un baluardo, come sottolinea in diverse maniere Guarino – contro la deriva autocratica imperiale, la piattezza stereotipa dei giudizi, l’insorgere di spazi d’abbandono della cultura e del sapere. Il valore esemplare del diritto, e la sua stessa posizione separata protetto dalla sua barriera cognitiva a difesa della sua autonomia si posero quindi come uno dei pochi, autentici spazi volti per sua natura rivolto a una coltivazione continuativa della razionalità e della giustizia e, perciò, a fungere da concreto dispositivo collocato in una costante postura educativa capace di tramandarsi e come possibile sempre riprodursi, socialmente riproporsi all’interno della coscienza collettiva.
Accanto alla figura di Mucio, però, è importante anche richiamare un altro grande giurista del suo stesso tempo, il quale fu talvolta visto, come da Cicerone, contrapposto allo stesso Mucio.
L’elaborazione speculativa sul diritto da parte di Servio costituisce un’altra importante pagina a fondamento dell’autonomia concettuale filosofica dello ius a Roma. Una dottrina pienamente cosciente della scommessa concettuale legata al nuovo mondo che si apriva del diritto, la quale con questo autore si apre decisamente alla complessità dei procedimenti analitici per esempio rintracciabili nei suoi responsi, e nei cui confronti è possibile in qualche modo utilizzare la definizione di “dialettica”. Opera purtroppo dispersa attraverso tanti suoi frammenti ritrovati solo in brani riportati da autori successivi, e tramandata soprattutto attraverso un corpus recuperato da Alfeno Vario, quella di Servio riesce a unire una combinazione quasi ideale tra indagine casistica e nuove forme ontologiche, e nella quale il dettaglio della singolarità finemente analizzato come da tradizione respondente si coniuga all’elevazione concettuale e speculativa, aprendo un ulteriore modello d’approccio, quasi uno stile nella linea successiva spesso migliore dell’interpretazione giuridica di Roma.
Il diritto, con questo autore, si offre ogni volta come un’indagine interpretativa, per comprendere lo spirito specifico di ogni disposizione, collocandola nella sua giusta dimensione e significato: un ulteriore passo in avanti della dottrina giuridica in una vera e propria dimensione ermeneutica, cioè aperta alla scommessa dell’interpretazione agita all’interno d’un complesso insieme di species. È il riconoscimento compiuto d’una razionalità interna al proprio oggetto, lo ius, non secondo un circolo predisposto e stereotipo di risposte, ma attraverso i molteplici fili annodati e snodati di un’interpretazione aperta.
L’epoca del diritto classico, per usare l’espressione catalogatoria di Guarino, si sviluppò dunque su questa falsariga di eccellenza intellettiva e culturale, ponendosi in tal modo in una posizione per così dire autonoma anche nei confronti insidiosi dell’esclusivo dominio del princeps, portato anche sulle questioni giudiziarie e normative.
A diverso titolo, il ruolo del giurista riuscì a riservarsi nonostante tale pericolo una specie di spazio separato, la cui possibilità evidentemente discendeva proprio dai presupposti culturali e filosofici che abbiamo appena passato in rassegna e ricostruito in questo capitolo, ossia la capacità dello ius a Roma di ritagliarsi un ruolo peculiare quale scienza indipendente all’interno d’un impianto concettuale di categorie astratte e, al tempo stesso, in grado di muoversi acutamente attraverso genealogie di specie con libertà di giudizio nell’indagine casistica applicata. In questo contesto storico, oltre alla sua funzione di richiamo normativo e regolativo nell’applicazione delle leggi e della giustizia, il mondo giurisprudenziale romano seppe anche costituirsi a modello civile: esso infatti si propose come prezioso spazio di coltivazione della tradizione e salvaguardia della memoria, ma tradotto in un preciso senso operativo e anche pragmatico, dal momento che lo studio del diritto coniugato alla coltivazione della sua ermeneutica offriva come tale uno strumento sempre potenzialmente applicabile nel cuore stesso della vita sociale e della condivisione civile.
In qualche modo, la scienza dello ius fu sentita per secoli quale garanzia per definizione della convivenza civile e della giusta applicazione morale nelle relazioni private, pubbliche, politiche quanto economiche.
Ecco riconoscibile dunque quella che è stata definita come l’attività giurisprudenziale didattica: da una parte coincidendo con l’esercizio stesso del proprio agire forense da parte degli esperti delle pratiche legali, attraverso cui evidentemente i giuristi ribadivano ogni volta il richiamo al patrimonio giurisprudenziale ereditato e, in questa maniera, ne tenevano vivo il modello e diffondevano una volta di più la lezione, ma dall’altra sviluppando pure delle vere e proprie “scuole” dedicate a una mirata propedeutica giuridica e ai saperi in genere costituitisi attorno alle pratiche del diritto. Una pratica, per esempio, diffusa nelle provinciae, là dove si rendeva spesso necessario diffondere una prima introduzione almeno essenziale all’ordinamento giuridico romano in quei luoghi ancora poco conosciuto o addirittura estraneo, ma anche prodottasi in tanti centri nodali della vita imperiale romana.
Si tratta comunque di luoghi caricati di un certo significato nella vita civile del tempo, quali stationes ius publice docentium et rispondentium per dirla con Gellio citato testualmente da Guarino11, ossia degli spazi stabili dedicati alla docenza del diritto, all’interno dei quali una serie di maestri esponevano a degli allievi i percorsi della storia giurisprudenziale e, probabilmente, anche le diverse tecniche dell’analisi giuridica, assieme alle prassi comuni giudiziarie. Sembra presumibile che tali stationes fossero mantenute comunque da un’esclusiva gestione privata e non pubblica, all’interno delle quali è probabile che gli insegnanti fossero pagati direttamente dagli allievi, pur se i giuristi, almeno i più eminenti tra loro, è improbabile vi fossero impiegati stabilmente; il modello della scuola o università vera e propria, per come la possiamo intendere oggi noi, non può concedere del tutto con questo tipo di istituzioni formative del mondo antico.
Rimane però senz’altro certo il loro ruolo e presenza nel contesto della vita imperiale romana, da intendersi quale base essenziale con cui diffondere la conoscenza del diritto e il suo insegnamento prima di tutto a partire dai suoi stessi fondamenti e concezioni introduttive a chi vi s’accostava. A questo proposito, va sottolineato un fenomeno noto, ovverossia la volontaria frequentazione libera nei confronti dei giuristi più rinomati da parte di discepoli, auditores, interessati a formarsi nella conoscenza del diritto, un fenomeno pienamente in auge già a partire dall’epoca repubblicana precedente. In effetti, è stato tramandato come attorno ai massimi giureconsulti si componessero ogni volta dei veri e propri gruppi di seguaci, o almeno un consistente entourage di affiliati al metodo e agli indirizzi della singola personalità esperta, nello stile si potrebbe dire di certe scuole di pensiero coi loro maestri di riferimento ed attorno una folla più o meno ampia di discepoli che li seguono.
Tale consuetudine legata alle stationes quali spazi formativi alquanto caratterizzati ed indirizzati dai singoli maestri ed insegnanti ivi impegnati finirono per creare un ricco paesaggio di differenze e tendenze nelle interpretazioni del diritto nella società romana, giungendo anche a situazioni di vera e propria contrapposizione reciproca tra le differenti fazioni in qualche modo “ideologiche” in campo. Si crearono così delle opposte correnti giurisprudenziali capaci di tramandarsi nella memoria storica e, probabilmente, di fronteggiarsi realmente sulla scena pubblica romana del diritto per diverso tempo, nonché di insinuarsi in certa maniera nell’immaginario stesso del proprio tempo, collocandosi da una parte o dall’altra di determinate concezioni dello ius o dei valori della stessa civitas.
Apprendiamo così come, per esempio, in età augustea sembrano essersi fronteggiate due opposte fazioni, quella dei Sabiniani-Cassiani e quella dei Proculiani: esse presumibilmente erano state originate da una famosa rivalità tra i due giuristi augustei Capitone e Labeone, nelle quali la memoria del tempo aveva ereditato come due modelli diversi di relazione d’un giurista e uomo pubblico nei confronti del princeps – Capitone sempre in sintonia con l’imperatore, Labeone divenuto invece quale archetipo più ribelle ed insofferente della propria sottomissione a un uomo solo. Una contrapposizione in realtà rivelatoria d’una concreta tensione sempre soggiacente almeno nei primi secoli dell’Impero a Roma, e che vide proprio nel ruolo del giureconsulto – spesso chiamato, in effetti, a rivestire oltre al suo ruolo di esperto giurisprudenziale anche quello rappresentato da importanti cariche pubbliche – uno dei suoi maggiori luoghi di conflitto, nella perenne sua tensione tra assistenza laterale al potere imperiale e più riservata posizione autonoma, maggiormente libera da esso.
Non è certo facile, oggi, poter distinguere con precisione le reali ideologie e corrette attribuzioni di teoria ai singoli nomi riportati dalla tradizione che magari gli si attribuiscono, ma esse paiono comunque il riflesso di una reale tensione in contrapposizione tra parti in causa nell’habitat politico e giuridico romano, dietro cui senz’altro si muovevano visioni della politica e della società differenti, se non vere e proprie diverse rappresentazioni filosofiche, teologiche, scientifiche.
Al tempo stesso sembra credibile dedurre da tutta una serie di documenti storici come sia esistita una sorta di differenziazione orientativa tra una certa corrente “conservatrice”, quella sabiniana, e una corrente progressiva, quella proculiana: una divaricazione probabilmente attiva sul piano metodico ma anche, forse, su di un piano diremmo ideologico, nel differente approccio da una parte alla tradizione e dall’altra alle variazioni della vita sociale, cui adeguare le interpretazioni ed, eventualmente, crearne di nuove; ed una divaricazione, peraltro, non necessariamente coincidente con le parti identificate e i loro nomi di battaglia, per come si sono tramandate. Non è oltretutto improbabile che, in definitiva, le correnti sabiniana e proculiana fossero soprattutto due fazioni in concorrenza, quali circoli distinti tra loro separati e, in qualche modo, in gara tra di loro per ottenere il miglior riconoscimento sul piano sociale.
Questa possibile prospettiva confermerebbe a maggior ragione, in ogni modo, l’importanza sia dei valori giuridici a Roma ma anche il prestigio sociale dei suoi esponenti e rappresentanti, i quali potevano assumere evidentemente una centralità sociale significativa, valendo quale riferimento di certo non secondaria nei confronti dell’opinione pubblica di allora e delle aspettative condivise nella civitas. Si deduce da questo quadro tramandato di differenziazioni storiche delle fazioni legate al diritto a Roma la vivacità civile che poteva esprimersi attorno allo ius, così come l’importanza della sua trasmissione, coltivazione quale valore politico-civile da poter diffondere e, se necessario, per cui anche battersi nell’arena del confronto sociale.
Un certo elemento agonistico è senz’altro possibile ipotizzare al centro della vita giuridica romana, quasi contrapposta in sectae – come annota Guarino – anche per motivi personali, o linee d’appartenenza familiari – ma, a maggior ragione, tale condizione sembra confermare una volta di più l’importanza primaria che l’orizzonte del diritto e il discorso giurisprudenziale mantennero nella civiltà romana per molti secoli.
Tale attitudine rimase in auge senz’altro per tutto il I secolo d. C., per il quale rimane senz’altro attestata tale tendenza di correnti contrapposte e di rivalità tra posizioni degli autori, tra i quali possiamo ricordare oltre ai nomi già citati sopra anche quelli di Minerva padre, Cassio e naturalmente Labeone, tra i protagonisti significativi di tale clima di dissensiones, di confronti giurisprudenziali tra parti. Il “partito” giurisprudenziale valse, in quei secoli, spesso quale primo fondamentale riferimento formativo nell’identità stessa degli autori giuridici, come attesta il caso di Gaio affiliato per sua stessa indicazione ai Sabiniani quali suoi praeceptores, distinti dai Proculiani, esponenti auctores di una diversa schola di diritto. Si evince cosicché, nei secoli successivi, le concrete rivalità personali o di clan che avevano caratterizzato le opposizioni originarie, sotto molti aspetti, tra correnti giuridiche a Roma si trasformarono in più generiche divisioni di tipo culturale e di indirizzo metodico, i cui nomi ora valevano come etichette diverse di differenti “scuole ideali” del diritto nei quali “personalizzavano i termini dialettici di alcuni tra i più importanti problemi del diritto”.12
Si tratta comunque di una caratterizzazione esemplare che, ancora per secoli, mostra la permanenza di centralità delle problematiche correlate alla giurisprudenza e in genere al diritto nella società romana, illustrando altresì l’importante ruolo giocato dalla cultura giuridica durante l’impero nella conservazione dei valori ritenuti fondativi della civitas romana stessa, e la ricchezza culturale delle posizioni ancora in grado di esprimersi all’interno di essa.
Va rimarcato anche il modello prevalente di stile che, in questo contesto pur di importante considerazione del lavoro giurisprudenziale, perlopiù sembra imporsi nella fase imperiale, nella quale non sembra possibile individuare facilmente alcun autore o impresa capace di strutturare una vera e propria sistemazione completa della materia giuridica, a proposito della quale sembra piuttosto prevalere uno stile più frammentario ed è indirizzato soprattutto a un modello di contenuto casistico, spesso dall’andatura irregolare e disomogenea. Ciò è visibile anche nelle stesse Istituzioni più organicamente giunte fino a noi di Gaio, nelle quali pure sembra emergere una esposizione non del tutto omogenea ed alquanto variabile, priva di un architettonico senso di sistema.
Ciò spiega forse il perché una vera e propria sistemazione generale dovette attendere molto a lungo, in un contesto come quello del 500 d. C. a Bisanzio peraltro sotto molti aspetti ormai lontano dall’epoca classica e dalla ormai perduta centralità di Roma quale fulcro dell’impero: poiché, come si vede nella cosiddetta letteratura giuridica postclassica – individuabile durante i secoli III-IV e V – si impose difatti sempre maggiormente una ripetizione stereotipa dei contenuti giuridici ereditati, e col tempo un sempre maggiore impoverimento dello studio delle fonti e dei materiali di riferimento.
Possiamo comunque riconoscere e distinguere alcune differenziate tipologie delle “forme letterarie” attraverso cui si manifestò la produzione giurisprudenziale romana durante quest’epoca, i diversi modelli di scrittura che ne tradussero in opera i saperi e le opinioni. Distinguiamo così, oltre alle raccolte tecniche di formulari chiamati a offrire un ausilio sul piano pratico nelle esigenze quotidiane della vita giuridica, la tipologia delle opere di commento, accanto alla parallela tipologia delle opere di casistica, cui possiamo aggiungere diverse opere di tipo monografico, ed infine opere elementari in qualche modo propedeutiche e didattiche.
Come si vede da questa breve lista di tipologie o generi, il carattere tendenzialmente tecnico e pragmatico, frammentario e quasi episodico senz’altro prevale, mentre invece manca un quadro di opere sistematiche e dal grande respiro teorico. Fanno eccezione solo talune opere più direttamente ascrivibili a un carattere definibile come isagogico, e perciò individuate da una impostazione più tendente alla logica sistematica. Ma emerge, soprattutto, la tipologia del commento: è l’esercizio del commento nei confronti dei testi legislativi, giurisdizionali o giurisprudenziali venuti dal passato quello che impegna prevalentemente la scrittura e l’impegno critico dei giuristi durante i secoli dell’Impero.
Tali commenti si ripartivano in quattro categorie distinte, ossia i libri iuris civilis, i libri ad edictum, i commenti ai testi di ius publicum, i commenti con note a margine di opere dei giureconsulti passati. I libri iuris civilis, in realtà, ci sono giunti solo dagli autori Sabino e Cassio, che in effetti, però, composero perlopiù una sorta di revisione dell’opera originale di Mucio; soprattutto il contributo di Sabino lo ritroviamo citato e ripreso in diversi commenti degli autori a lui successivi.
Si conferma qui, peraltro, non solo l’importanza di Muccio nel cuore stesso del diritto classico, ma anche il suo decisivo ruolo quale contenuto di riferimento formativo e didattico, quale mostra un certo dominante a fini didattici dell’opera di Sabino, che peraltro si limita solo a un’estensione di tre libri. Significativo un certo numero di libri ad edictum in questo periodo storico, che attestano l’importanza sempre maggiore che aveva assunto nella pratica normativa il ricorso agli editti di pretori ed altre grandi carica, testi edittali dunque per molto tempo oggetto di un’osservazione analitica da parte dei giuristi. I commenti allo ius publicum furono a loro volta molto numerosi, ma la loro folla di contributi appare piuttosto frammentaria e, perciò, spesso ci si è chiesti se potessero realmente appartenere a vere e proprie opere compiute ed autonome.
È senz’altro possibile che questo tipo peculiare di letteratura fosse, in origine, un estratto tramandato e raccolto da più vaste trattazioni precedenti. Centrali furono però soprattutto i commenti ad opere di precedenti giuristi, che impegnarono molteplici giureconsulti classici soprattutto durante l’età augustea: un’attività che fu in grado soprattutto di tramandare e coltivare il patrimonio già consistente composto dalla storia precedente, e che indirizzò però il clima culturale ed intellettuale del mondo giuridico più a un’attività di ripetizione che non di originale elaborazione ed innovazione. Sul piano tecnico, da sottolineare il ruolo, in queste opere, delle notae, tipica espressione di una cultura del commento ma anche di una certa attenzione filologica ed analitica nei confronti dei testi affrontati dall’osservazione critica del giurista e dello studioso.
Accompagnarono tale produzione prevalente di opere di commenti anche un altro tipo fondamentale di opere, e cioè le opere di casistica in quanto raccolte di casus o problemata, distinguibili nella seguente lista di qualifiche: i libri responsorum, i libri questionum, disputationum ed epistolaruum, e i libri digestorum. Composizioni secondo Guarino in cui maggiormente avrebbero operato a livello di scrittura gli auditores, e dunque i vari “studenti” o discepoli allevati nelle scuole del diritto. Essi, tali libri, erano composti proprio trascrivendo le opinioni espresse dal giurista in relazione allo specifico casus, attraverso la cui pratica si composero, nel tempo, sorte di registri a carattere cronologico con possibili periodici riordinamenti complessivi.
Nella specifica configurazione dei libri responsorum si cumularono come tali le produzioni di responsa di casi reali, mentre in quella dei libri questionum esse offrono in parallelo invece dei responsi a dei casi immaginari. I libri digestorum, infine, furono delle raccolte piuttosto ampie di responsa e di quaestiones, le quali in diverse occasioni e maniere furono composte nei secoli imperiali, offrendosi come materiali in qualche maniera ordinati dello scibile giuridico privato.
Si segnalano su tutti i Digesta composti da Salvio Giuliano e da Celso figlio – il primo dei quali possiamo definire come una sorta di capolavoro, nel quale andò a ricomporsi non solo l’opposizione storica delle correnti giuridiche classiche contrapposte, ma anche un’intera cultura giurisprudenziale, giunta in quel testo al culmine del diritto, nella sua era classica.
Ciò che potentemente emerge, e che continua a interpellare la nostra concezione della legalità e della giustizia, è piuttosto la coraggiosa, quasi vertiginosa, scommessa intrapresa dalla cultura giuridica romana: quella di tenere unite, in un equilibrio dinamico, fragile e mai definitivamente conquistato, l’aspirazione all’universalità della ragione giuridica – quello “spazio separato” di conoscenza critica, conquistato faticosamente attraverso l’astrazione e la disciplina del linguaggio – e la radicata, quasi viscerale, fedeltà a un’umanità concreta, pulsante, ai valori condivisi (mores, fides, pietas) che costituivano non solo il tessuto connettivo, ma il fondamento etico e il senso stesso dell’esistenza associata nella civitas.
Non fu un equilibrio facile, né il placido risultato di un’armonia prestabilita; fu, al contrario, una tensione creativa costante, un agonismo intellettuale e morale vissuto quotidianamente nel foro, nelle scuole, nella solitudine dello studio, e governato da quella peculiare virtù che fu la prudentia dei giuristi. Questa non era soltanto abilità dialettica o erudizione tecnica; era una sapienza pratica esigente, intrisa di etica e di profonda responsabilità civile, un’arte dell’interpretazione capace di leggere i segni dei tempi, di adattare le forme antiche alle nuove esigenze sociali, di forgiare categorie logiche sempre più raffinate senza mai, tuttavia, perdere di vista il volto dell’uomo, la specificità irriducibile delle singole vite, la ricerca incessante della giustizia possibile nel caso singolo.
Era l’arte difficile, quasi un paradosso vivente, di vedere l’universale nel particolare, di dare forma razionale all’infinita varietà dell’esperienza umana senza soffocarne la vitalità, senza ridurla a schema inerte. In questa eccezionale, forse irripetibile, capacità di far dialogare sistema e vita, astrazione e valore, rigore metodologico e sensibilità equitativa – capacità che si manifestò nella feconda dialettica tra le scuole rivali, nella sorprendente ricchezza delle forme letterarie, fino a trovare sintesi nella monumentalità silenziosa e vibrante dei Digesta – risiede il lascito più umanamente pregnante e filosoficamente gravido dell’invenzione romana del diritto.
Un’eredità che si rifiuta di essere confinata nel passato come semplice reperto archeologico, ma si ripropone come un monito perenne e una sfida aperta per ogni presente.
E ci ricorda, con forza silenziosa, che ogni autentica scienza giuridica, per essere veramente degna di questo nome, non può abdicare alla sua intrinseca vocazione etica e sociale: quella di essere strumento di comprensione, di mediazione e di costruzione di un ordine sensato, al servizio dell’uomo e della sua insopprimibile ricerca di significato nel flusso incerto della storia.
1 GUARINO Antonio, Storia del diritto romano, Jovene, Napoli, 1998, pp. 216-221.
2 SCHIAVONE Aldo, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente. Einaudi, Torino, 2005, p. 212.
3 Ibidem, p. 222.
4 A questo proposito, proprio ad iniziativa di Aldo Schiavone è stata pubblicata recentemente una nuova edizione critica dell’opera di Mucio nella preziosa collana di autori antichi intitolata Scriptores iuris romani, con il volume QUINTUS MUCIUS SCAEVOLA, Opera, a cura di E. Ferrary, E. Stolfi e A. Schiavone, L’Erma di Breitschneider, Roma, 2017.
5 SCHIAVONE Aldo, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente. Einaudi, Torino, 2005, p. 230.
6 Ibidem, p. 233.
7 Ibidem, p. 200.
8 Ibidem, p. 248.
9 DAVID Martin – NELSON H. L. W., Gai Institutionum Commentarii I-IV., Brill, Leiden, 1954-1968.
10 SCHIAVONE Aldo, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente. Einaudi, Torino, 2005, pp. 262-263.
11 A. GUARINO, Storia del diritto romano, Jovene, Napoli, 1998, pp .422-424, paragrafo 216.
12 Ibidem, p. 424.
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Gerardo Marco Bencivenga