Mutilazione dei genitali femminili, tra ritualità culturale e divieto penale

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Introduzione

L’abbattimento dei confini territoriali – effetto principale del fenomeno della globalizzazione – ha permesso la diffusione del multiculturalismo sociale.

I fenomeni migratori, sia su base volontaria che eteroindotti, non sono più legati all’accadimento di eventi scatenanti (cleavage) come guerre, carestie, epidemie, calamità naturali, avendo ormai acquisito una certa regolarità e diffusione.

L’internazionalizzazione dei rapporti socioculturali, dunque, rappresenta la giustificazione causale della convivenza multiculturale su un dato territorio.

Secondo gli studi sociologici più recenti, il grado di accettazione di una cultura territoriale dominante nei confronti di una o più culture “di importazione”, stabilizzatesi nel medesimo territorio, può essere misurato sulla base di due direttrici: la compenetrazione delle culture, dove la cultura dominante assorba le altre culture; la semplice convivenza, dove tra le medesime vi è separazione.

Nel caso dell’assimilazione tra più culture, vi saranno reciproche accettazioni, mentre dove vi è separazione si assisterà alla prevalenza della cultura dominante con un’apertura, verso le culture minori, meno accentuata e basata sulla mera tolleranza.

La risposta ordinamentale nei confronti dei due fenomeni si traduce in termini equivalenti a quelli sociologici prospettati.

Nel primo caso, l’ordinamento interno di un dato Stato si espande fino a ricomprendere “tali culture”, rimodellandosi.

Nel secondo caso, rimane intatto o comunque non aperto ad assimilare le medesime.

Il presente contributo si pone l’obiettivo di analizzare il reato di mutilazione dei genitali femminili in relazione al fenomeno socioculturale della pratica in sé e degli effetti che essa produce, con riferimento alla ratio sottesa alla risposta sanzionatoria da parte dell’ordinamento penale interno.  

MGF, aspetti psicosociali e tipologie

La mutilazione dei genitali femminili (MGF), come fenomeno sociale, viene generalmente ricondotta a tradizioni tipiche delle comunità islamiche in quanto ivi viene maggiormente praticata (cultura mediorientale).

In verità, è una pratica di matrice socioculturale diffusa già in epoca preislamica e soprattutto, contrariamente a quanto si usa credere, non ha alcun collegamento diretto ed espresso con la religione islamica.

Ad ogni modo, si è tramandata, di fatto, negli anni con particolare diffusione ed estensione.

Alla base di tale pratica, vi sono credenze legate sia alla purezza del corpo femminile, sia alla propiziazione della donna verso la vita sociale.

In particolare, è diffusa la credenza che, attraverso la detta opera iniziatica di mutilazione, la donna (bambina) sia socialmente più affidabile (fedeltà).

In relazione al dolore inferto alla donna sottopostavi, lo stesso viene socialmente tollerato e giustificato in ragione del fine che si intende raggiungere e in funzione dell’effetto benevolo che ne deriverebbe per la sua vita.

Dal punto di vista della donna sottoposta alla pratica, il dolore viene sopportato in ragione della fiducia riposta nei confronti dell’ambiente socio-familiare in cui ella vive.

Infatti, il dolore assume un significato sociale[1], per cui la sopportazione chiama in causa l’onore della famiglia di fronte al gruppo sociale di appartenenza (vincoli socioculturali).  

Per le ragioni dapprima espresse, la società italiana viene periodicamente a confrontarsi con la questione delle cosiddette “mutilazioni genitali femminili”[2], fenomeno di portata mondiale che riguarda sia i Paesi in Via di Sviluppo (PVS) che diverse realtà del Nord del mondo, interessate dai flussi migratori.

Mentre in Paesi come Francia, Gran Bretagna e Svezia, l’opinione pubblica viene sensibilizzata in proposito attraverso un’attenta divulgazione scientifica, in altri, tra cui l’Italia, si continua a registrare un forte ritardo culturale.

Talvolta si giunge alla totale banalizzazione di un fenomeno in realtà molto complesso, a causa di una grave mancanza di conoscenze specifiche sull’argomento.

Il primo punto a risultare confuso afferisce al stesso significato dell’espressione.

Si assiste infatti all’assimilazione della mutilazione genitale alla infibulazione e allo stesso tempo nella categoria “infibulazione” vengono ricomprese tutte le pratiche messe in atto sui genitali femminili, assorbendone alcune, come per esempio la clitoridectomia e altre forme di escissione che presentano differenze peculiari, soprattutto dal punto di vista del soggetto che le subisce.

Si forniscono così elementi di informazioni assolutamente non corrispondenti alla realtà (asimmetria informativa).

Secondo dati più recenti, le donne e le bambine che avrebbero subito un’alterazione permanente, a scopi non terapeutici, dei loro organi genitali sarebbero più di duecentotrenta milioni in tutto il mondo.[3]

I dati rilevati dall’UNICEF, e relativi al 2023, mostrano un aumento di tali pratiche, nonostante l’aumentare delle campagne antiviolenza, del potenziamento socio assistenziale e della repressione sanzionatoria del fenomeno, quasi a livello globale.

Tali dati ci invitano a riflettere su due probabili condizioni:

  • l’assenza da parte delle donne sottoposte a tale pratica di una piena consapevolezza del tipo di operazione eseguita su di loro;
  • lo svolgimento della pratica all’interno delle mura domestiche e con pratiche artigianali che insabbiano il fenomeno e la conseguente difficoltà dei medici ginecologici, ove vengano coinvolti, di riconoscere tale pratica e quindi di apportare adeguato sostegno.

Si conoscono vari tipi di MGF, con diversi livelli di gravità, di cui la più radicale è comunemente chiamata infibulazione, una pratica diffusa prevalentemente nell’Africa Subsahariana che l’immigrazione ha fatto conoscere anche in Europa e in Italia.

Secondo la Legge, 9 gennaio 2006, n. 7, recante “Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazioni genitali femminile“, chiunque pratichi l’infibulazione è punito con la reclusione da 4 a 12 anni, pena aumentata di un terzo se la mutilazione viene compiuta su una minorenne, nonché in tutti i casi in cui viene eseguita per fini di lucro.

Le Linee Guida, introdotte dalla suindicata legge, ribadiscono alcuni necessari principi di intervento:

  • conoscere e considerare queste tradizioni nella loro giusta dimensione, evitando stigmatizzazioni e/o criminalizzazioni;
  • predisporre il terreno al dialogo, all’accoglienza di chi, di tali pratiche, è stato vittima, di chi, in merito a queste pratiche, si trova a decidere in contrasto con la propria coscienza, con la propria comunità;
  • far sapere alle comunità interessate che, nel nostro paese, tali pratiche sono proibite in nome di principi universali di libertà, di uguaglianza tra uomini e donne, della tutela dell’integrità fisica e psichica dei minori, del rispetto della dignità della persona.

Classificazione delle MGF

Nella seconda metà degli anni novanta del secolo scorso, l’OMS ha proceduto alla classificazione definitiva delle mutilazioni genitali femminili, seguita anche in Italia.[4]

Queste sono raccolte in quattro tipologie di operazioni che coinvolgono, in maniera differente, gli organi genitali della donna:

• Escissione del prepuzio, con o senza asportazione parziale o totale della clitoride;

• Escissione della clitoride con asportazione parziale o totale delle piccoli labbra;

•Escissione di parte o tutti i genitali esterni e sutura/restringimento dell’apertura vaginale (infibulazione);

•Non classificati: perforazione, penetrazione, incisione, stiramento, cauterizzazione della clitoride e/o labbra; incisione o raschiamento del tessuto circostante l’orifizio vaginale.

Richiamare tale classificazione è utile per comprendere meglio l’invasività di tali pratiche a prescindere dal grado e dalle conseguenze.

In altre parole, ognuna delle dette azioni, svolte senza una necessità di salute, comporta una violenza fisica e psicologica sulla donna/bambina che la subisce.

Ma, come noto, un conto è osservare il fenomeno dal solo orientamento sociale, altra cosa è analizzarlo secondo la lente del diritto penale che si regge su propri principi e regole strutturali che vanno ad intersecarsi nei concetti di garantismo e colpevolezza.

MGF, analisi del reato e correlazione culturale

Disciplinato dall’art. 583 bis c.p.[5], il reato di pratiche di mutilazioni genitali femminili punisce al primo comma “Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili…”, specificando che, in relazione all’applicazione del reato, “si intendono come pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili la clitoridectomia, l’escissione e l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo”.  

Al secondo comma, viene introdotta un’ulteriore e autonoma fattispecie che punisce “Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle indicate al primo comma, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente…”.

Da una prima analisi dei commi richiamati, si evince la ratio eminentemente repressiva avverso tale fenomeno.

Si tratta di un reato che può essere commesso da “chiunque“, senza alcuna esclusione ma anche e soprattutto per la punizione di qualsiasi pratica che possa essere assimilata a quelle descritte e che corrispondono alle pratiche maggiormente realizzate (tecnica estensiva).

Ancora, a sostegno della lotta contro la perpetrazione della violenza su donne e bambine, espressa attraverso tali pratiche, al secondo comma è prevista la punizione di qualsiasi lesione agli organi genitali femminili che non abbia le caratteristiche per essere assimilata ad una pratica MGF ma che abbia il fine di menomare le funzioni sessuali.

Orbene, prima di addentrarsi nell’analisi della ratio sottesa a tale reato, in relazione al fenomeno culturale e agli effetti determinabili sul piano penalistico in generale, occorre soffermarsi sul secondo comma e in particolare sulla questione del fine lesivo delle funzioni sessuali.

Tale lettura consente di entrare nel cuore del problema: la correlazione tra la cultura e il divieto penale.

Invero, il fine di menomare le funzioni sessuali, da una parte delimita l’area della punibilità della fattispecie di cui al secondo comma ma, da un’altra prospettiva, evoca una profonda riflessione sullo spirito del divieto, anche con riferimento al primo comma ove si puniscono tali pratiche tout court.

La questione rilevante – secondo l’intento del legislatore – è che gli effetti diretti di tali pratiche consistono nella menomazione delle funzioni sessuali, per cui non risultava necessario definirlo normativamente in maniera espressa.

Il riferimento espresso, invece, risultava necessario per tutte le altre lesioni provocate sugli organi genitali femminili, non catalogabili nel cluster MGF, o perché diverse o perché sconosciute in ragione del rispetto del principio di materialità/offensività in raccordo al divieto di analogia e al diritto penale minimo (necessarietà).

Il fine di menomare gli organi genitali femminili, palesemente riprovevole nel contesto sociogiuridico europeo, rimanda ineludibilmente alla valutazione del fattore culturale legato a tali pratiche.

In altre parole, se il fine della detta menomazione sia da intendersi come effetto non si rinvengono particolari problemi ermeneutici in quanto oggettivamente osservabili, ma, se lo si intende sotto il profilo del dolo specifico (area dell’intenzionalità), si creano contrasti tra tale intenzionalità e il grado di colpevolezza di chi agisce.

Come già anticipato, le MGF vengono praticate per lo più per motivi culturali, basati su credenze sociali legate alla purificazione del corpo. Ne consegue che, nella maggior parte dei casi, il fine della menomazione degli organi sessuali femminili possa essere rilevato solo come effetto o come condizione oggettiva, ma quasi mai come elemento finalistico dell’azione.

Se è vero che le pratiche MGF vengano punite espressamente e autonomamente in maniera indipendente da qualsiasi elemento specifico o specializzante – come da primo comma – è altresì vero che, nella maggior parte dei casi – rientranti nell’area di applicazione del secondo comma – possano sorgere contrasti in ordine all’effettiva presenza o meno del fine di menomazione.

Pertanto, diventa indispensabile chiarire se tale fine costituisca una condizione obiettiva di punibilità intesa in senso oggettivo (bisogno di realizzazione della medesima) o come dolo specifico.

Nel primo caso, si indagherà la sfera esterna del soggetto agente, nel secondo quella interna.

Ne consegue che, in ragione dell’elemento psicologico, non si potrebbe fare applicazione di tale fattispecie.

Addivenendo all’analisi del reato in relazione al fenomeno culturale MGF, va operato un confronto con la questione dei reati culturalmente orientati.

Orbene, il reato di cui all’art. 583 bic c.p. è espressione diretta di tale modo di fare politica criminale, in quanto tale fattispecie trova la sua ragion d’essere proprio nella necessità – emergente nella società di tipo occidentale – di contrastare tale fenomeno “di importazione”.

Nella specie, tale reato esprime la posizione del legislatore nei confronti di tutte le pratiche derivanti da culture diverse che apportino effetti negativi nell’assetto dei normo-valori che ci caratterizzano (separazione).

Anche se il fattore culturale sia insito nel diritto penale, in quanto esso stesso è pur sempre espressione della società, si parla di reato culturalmente orientato quanto la singola fattispecie sembra creata ad hoc per una determinata, puntualmente individuata, problematica socioculturale.

Allo stesso tempo, parlare di reati culturalmente orientati consente di spaziare sulle possibili relazioni tra il fattore culturale e il diritto penale in generale e quindi di pensare agli effetti di una data cultura sull’assetto normo-penale.

Come noto, la domanda che la dottrina e la giurisprudenza più volte si pongono è se il fattore culturale possa rappresentare o meno una scriminante.

A tal proposito, bisogna considerare che il nostro ordinamento non si presenta come assimilazionista rimanendo stabile e ancorato a quelli che sono i principi e i valori dominanti la nostra società.

Inoltre, bisognerebbe affrontare il tema delle scriminanti non codificate e ammetterne o meno la possibilità estensiva applicativa in considerazione della rigida tipizzazione effettuata dal legislatore e al divieto di analogia che, a prescindere dagli effetti negativi o positivi, vige ogni volta che una lacuna da parte del legislatore sia intenzionale come sembrerebbe con riferimento alle scriminanti.

Ancora, in via preliminare, necessita considerare l’impossibilità di invocare l’ignoranza della legge penale, la quale può giustificare solo se inevitabile ex art. 5 c.p., per come interpretato dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n 384/1988.

Orbene, le pratiche delle mutilazioni genitali femminili si inseriscono nel dibattito sui reati culturalmente orientati ma, a differenza di altri fenomeni, se ne distaccano in quanto punite a causa degli effetti intrusivi, lesivi e particolarmente offensivi provocati nei confronti delle donne/bambine con riferimento alla sfera dell’integrità psicofisica e alla dignità.

In definitiva, il divieto penale nasce come esigenza di risposta ad un fenomeno socioculturale esterno e diffusosi nella nostra società, anche in raccordo alle politiche internazionali in materia, ma, in ogni caso, si costruisce, si orienta e reagisce in ordine al macrofenomeno della violenza di genere.

Considerazioni conclusive

Dall’analisi delle pratiche MGF, sia come fenomeno socioculturale che come reato, si può giungere a confermare che l’ordinamento giuridico italiano, pur essendo non assimilazionista, tende a fortiori a chiudersi di fronte a tutte quelle pratiche o esternazioni culturali che comportino effetti negati per l’assetto normo-valoriale interno.

Infatti, nelle ipotesi in cui vi sia offesa, secondo il diritto penale, non è possibile sfuggire all’area della punibilità se non attraverso l’applicazione degli istituti interni (tenuità del fatto), beninteso ove ricorrano i requisiti e le condizioni.

Invero, sebbene il diritto penale sia anche il prodotto della cultura di una data società, il fenomeno culturale non può assurgere in re ipsa a categoria penalistica.

Diversamente, si assisterebbe ad un diritto penale elastico e in continuo mutamento con il rischio di andare alla deriva.

Allo stesso tempo, il diritto penale rispecchia la sintesi dei valori fondanti la società cui si riferisce ed è basato sui principi dell’obbligatorietà e della territorialità: dunque se ne impone la conoscenza e il rispetto da parte di chiunque.

Con riferimento precipuo al divieto penale delle pratiche di mutilazione dei genitali femminili, non si pongono particolari problemi con riferimento al primo comma di cui all’art. 583 bis c.p.

Questo, infatti, punisce chiunque realizzi tali pratiche, senza richiedere altro se non la realizzazione delle medesime e l’assenza della necessità medica/terapeutica (diritto alla salute).

Discorso diverso deve farsi con riferimento al secondo comma che, inserendosi in tale cornice, ha la funzione di estendere la punibilità di tutte le lesioni inferte sugli organi genitali femminili che non possono essere classificate come pratiche MGF ma che, allo stesso tempo, restringono l’area della punibilità in ragione del fine di arrecare menomazione agli stessi.

Si è osservato che proprio la presenza di tale fine crea problemi interpretativi con riferimento al fenomeno culturale MGF.

Infatti, se il fine attiene all’elemento psichico sorgono contrasti con il principio di colpevolezza dal momento che tali pratiche vengono realizzate per ritualità culturale.

Ecco allora che, ad avviso di chi scrive, è sicuramente apprezzabile punire lesioni che producano gli stessi effetti delle MGF ma può risultare fuorviante subordinarne la punibilità correlata al fine di menomare gli organi sessuali come se tale fine fosse proprio di tutte le pratiche MGF di cui al primo comma.

Si propone, quindi, un intervento correttivo che vada ad eliminare l’espressione “al fine” e vada, invece, ad inserire la locuzione “in grado di”, tale per cui si sgancerebbe la punibilità dall’intenzionalità e si riporterebbe il focus sugli effetti negativi di tali pratiche che, in quanto tali, non possono e non devono essere accettati.


[1] Per un approfondimento, CONSIGLIO Antonio, MASSARIOLO Elisa, MAESTRANZI MORO Silvia, Il dolore e la sofferenza del corpo: una riflessione socio-antropologica per il sapere dello psicoterapeuta, in Scienze dell’interazione – Rivista di psicologia clinica e psicoterapia (ISSN: 1722-1021), 1-2, 2014.

[2] Così il Ministero della Salute: “Le modalità di esecuzione delle MGF variano a seconda dei paesi e delle etnie, dalle forme più radicali a quelle più blande. In tutti i paesi le MGF sono praticate su bambine per espressa volontà e convinzione della madre, dei genitori e dell’intera comunità. È una caratteristica ricorrente che gli uomini, che hanno il vero potere decisionale, rimangano invisibili. Può variare l’età delle bambine sottoposte alla pratica, realizzata in alcuni paesi già nelle prime due settimane di vita e non mancano situazioni in cui le MGF, se non praticate da bambine, vengono praticate nell’adolescenza, o al momento del matrimonio, durante la gravidanza, al momento del parto. Studi recenti hanno evidenziato un graduale abbassamento dell’età delle bambine sottoposte a MGF, per occultare la pratica laddove proibita, ma anche per vincere le eventuali resistenze da parte di bambine e ragazze consapevoli. Le MGF vengono collocate tra le tradizioni che segnano il passaggio dall’infanzia all’età adulta, un rito attraverso il quale si diventa ‘donna’. La ritualità, più o meno marcata a seconda dei paesi, si trasmette da madre in figlia. Si tratta di una identità di genere costruita socialmente che darebbe senso a una identità biologica, attraverso la manipolazione fisica del corpo che costringe le bambine, future donne, a movimenti contenuti e misurati per le ferite subite, a una andatura flessuosa e lenta, più rispondente al ruolo che alla donna è attribuito nella società. Una manipolazione che già dall’infanzia pone fine ad ogni forma di promiscuità tra bambine e bambini, perché le bambine poi non sono più in grado di fare quei giochi che richiedono una libera espressione del proprio corpo“.

[3] Rapporto UNICEF datato 8 marzo 2024.

[4] Così l’Istituto Superiore della Sanità (ISS): “Le MGF non comportano alcun beneficio per la salute delle donne. Al contrario, possono causare rischi immediati per la salute e complicazioni a lungo termine in grado di compromettere la salute e il benessere fisico, mentale e sessuale. La pratica è riconosciuta, a livello internazionale, come una violazione dei diritti umani delle ragazze e delle donne e come una forma estrema di discriminazione di genere che riflette una profonda disuguaglianza tra i sessi. Poiché viene praticata sulle ragazze senza consenso, è anche una violazione dei diritti dei bambini. Le MGF violano i diritti di una persona alla salute, alla sicurezza e all’integrità fisica, il diritto di essere libera dalla tortura e da trattamenti crudeli, inumani o degradanti e il diritto alla vita nel caso la procedura porti alla morte. Nell’ambito dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) previsti dall’Agenda 2030 dell’Onu, la comunità globale si è posta l’obiettivo di abbandonare la pratica delle mutilazioni genitali femminili entro il 2030“. 

[5] Tale articolo è stato aggiunto dall’art. 6, comma 1, della citata legge, 9 gennaio 2006, n. 7.

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