Mobbing, aspetti psico-socio-giuridici del fenomeno: urgenza di una fattispecie autonoma di reato

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Introduzione

Il presente contributo intende compiere una breve disamina del fenomeno del mobbing, delineato secondo diverse prospettive, dalla sfera psicologica a quelle sociali e giuridiche.

In particolare, a fronte della rilevazione delle condotte che lo caratterizzano, della complessità insita nello stesso e delle difficoltà ermeneutiche legate all’inquadramento penalistico frammentato in più fattispecie di reato, de jure condendo si prospetta necessaria la creazione di una figura di reato autonoma, finalizzata a garantire, al contempo, una tutela effettiva e il rispetto delle garanzie proprie del diritto penale, su tutte l’osservanza del principio del divieto di analogia.

Definizioni e analisi del fenomeno

Il termine mobbing deriva dall’inglese to mob, che significa “assalire con violenza, adunarsi contro qualcuno”.

Nel 1996, Konrad Lorenz esplicita il comportamento aggressivo, “in ambito etologico, di alcune specie di uccelli nei confronti di potenziali aggressori che tentano di assalire il nido”.1

Nel 1984, Heinz Leymann utilizza, per la prima volta, il termine mobbing, riferendosi ad aggressioni subite sul luogo di lavoro.

In particolare, lo studioso tedesco fornisce una descrizione dettagliata del fenomeno, mettendo a punto un questionario con l’intenzione di rilevarne le caratteristiche.

In Italia, l’interesse verso l’argomento nasce solo alla fine degli anni novanta del secolo scorso, con lo psicologo tedesco Harald Ege.

Ancora oggi risulta estremamente complesso fornire una definizione univoca di mobbing, e tale difficoltà nasce dalla multidimensionalità del fenomeno, che coinvolge diversi aspetti delle relazioni umane.

Leymann individua il mobbing principalmente in una specifica modalità di comunicazione2 e ne individua quattro fasi:

• episodi conflittuali critici: sono caratterizzati da piccoli contrasti e ostilità presenti nelle organizzazioni; il fenomeno, in tale momento, non è ancora conclamato;

mobbing e stigmatizzazione: in questa fase, si assiste ad attacchi frequenti e ripetuti da parte di un superiore nei confronti della vittima, con lo scopo di ferirla; ciò comporta lo sviluppo dei primi sintomi psicosomatici e delle prime assenze dal lavoro per malattia;

• gestione del personale: la situazione conflittuale diviene di dominio pubblico ed è possibile riscontrare errori di gestione della dinamica, compiuti da parte dell’ufficio del personale e del management;

• espulsione: la vittima viene esclusa dal mondo del lavoro.

Ege propone un modello di sviluppo del mobbing articolato in sei fasi3, preceduti da una condizione zero, la quale rappresenta il conflitto fisiologico che tuttavia non si esplica in una forma conclamata di mobbing.

Le fasi individuate dallo studioso sono le seguenti:

• conflitto mirato: è la fase preliminare in cui si individua la vittima e la conflittualità viene indirizzata verso la stessa, con lo scopo di distruggerla;

• inizio del mobbing: la vittima percepisce disagio e fastidio, ma senza evidenziare sintomi psicosomatici;

• primi sintomi psicosomatici: la vittima mostra ed evidenzia i primi problemi di salute e inizia ad assentarsi dal luogo di lavoro;

• errori ed abusi dell’amministrazione del personale: il caso di mobbing diviene di dominio pubblico, aggravato dalla gestione dell’ufficio del personale;

• aggravamento della salute psicofisica della vittima: il mobbizzato comincia ad accusare sintomi depressivi e ad esperire un senso marcato di disagio;

• esclusione dal mondo del lavoro: l’ultima fase prevede che la vittima rassegni le dimissioni, oppure inoltri richiesta di prepensionamento o pensione di invalidità.

Il modello di Ege fornisce una migliore e approfondita caratterizzazione del processo di mobbing rispetto a quello di Leymann, individuando una fase precedente all’inizio del mobbing e specificando meglio lo sviluppo dei sintomi psicosomatici della vittima.

Per poter analizzare in modo critico ed analitico il fenomeno in parola, è necessario ricorrere a parametri valutativi che possano indicare in modo specifico e con maggior facilità se vi siano o meno i segni e i caratteri distintivi del mobbing, ai fini anche di una diagnosi differenziale rispetto ad altri fenomeni relazionali.

Parametri valutativi

I principali criteri che distinguono il mobbing da altre forme di conflitto organizzativo riconducono al contesto, alla durata e alla frequenza delle azioni di mobbing, al carattere polimorfo, alla direzione di tali azioni, al dislivello di potere capo-dipendente e all’andamento secondo fasi del processo.

Si è al cospetto di mobbing quando si accerti la sussistenza di tutti gli elementi di seguito citati e descritti:

• Contesto: l’ambito occupazionale è sempre il contesto e la causa primaria del mobbing; le conseguenze negative del fenomeno ledono sia la salute che il benessere del lavoratore e agiscono sull’azienda in termini di decremento della produttività e aumento di assenteismo;

• Durata: per poter affermare che un individuo soffra di un disturbo psicologico dovuto al mobbing, è necessario che i sintomi si presentino con una certa stabilità, frequenza ed intensità nel corso del tempo; è opportuno differenziare il mobbing da altri stressor, è infatti preferibile concordare un periodo di almeno sei mesi per poter accertare con esattezza che gli episodi subiti dalla vittima non appartengano ad un semplice conflitto, bensì siano riconducibili al fenomeno in esame;

• Frequenza: per parlare di mobbing, le azioni devono verificarsi almeno una volta a settimana; la definizione di tale soglia è necessaria, in quanto il fenomeno è caratterizzato da comportamenti ostili e reiterati nel tempo ed è proprio la continuità dell’azione vessatoria che manifesta l’evidente intenzione dei primi sintomi di nuocere da parte del mobber (se i comportamenti ostili sono esercitati con minor frequenza non possono essere considerati mobbing);

• Polimorfismo: il mobbing per essere definito tale deve essere composto da azioni sistematiche e polimorfe.

Leymann ha identificato4 cinque tipologie di azioni mobbizzanti, sulla base delle conseguenze che producono in danno alla vittima:

A. Attacchi alla possibilità di comunicare in modo adeguato;

B. Isolamento sistematico con impossibilità di coltivare i rapporti sociali;

C. Cambiamenti nelle mansioni lavorative con conseguenze sulle situazione professionale;

D. Attacchi alla reputazione personale;

E. Violenza e minacce di violenza con conseguenze sulla salute fisica e psicologia della vittima.

Quando si parla di “direzionalità” del mobbing, si fa riferimento al fatto che tra le varie azioni vessatorie si evidenza una chiara strategia persecutoria.

Infatti, l’obbiettivo dell’aggressore è quello di escludere la vittima dal contesto lavorativo, danneggiarne la reputazione o alcuni aspetti del suo ruolo lavorativo e della mansione.

Tra i protagonisti del mobbing, esiste un “dislivello di potere” che può essere di tipo formale o informale, secondo se sia correlato con un potere riconosciuto dalle strutture formali dell’organizzazione, o se sia l’effetto di forme di dipendenza fisica, economica psicologica della vittima dall’aggressore.

In definitiva, il mobbing è un fenomeno che si manifesta attraverso un’intensificazione del conflitto, progressiva e continuativa.

Di solito, si inizia con azioni mobbizzanti indirette, in seguito, più o meno gradualmente, le suddette si palesano in maniera via via più aggressiva e diretta.

La vittima diventa impotente e incapace di far fronte alle richieste lavorative.

Nelle fasi finali dell’escalation, il mobbing si sostanzia in minaccia diretta e il mobber può porre in essere atti di violenza sia psicologica che fisica.

Mobbing e conseguenze penali

La tutela del lavoratore ha attraversato, nel corso della storia, diverse trasformazioni progressivamente orientate all’implementazione del sistema normativo atto a garantire la tutela dei diritti, sia come singolo, sia in forma associata (sindacati).

A livello costituzionale, la dignità e l’integrità psico-fisica del lavoratore viene riconosciuta e garantita dagli artt. 2 (diritti inviolabili e principio di solidarietà), 3 (uguaglianza e non discriminazione), 4 (lavoro come principio fondante lo stato costituzionale), 32 (salute come diritto inviolabile), 41 (libertà economica e sua funzione sociale).

Dalle norme costituzionali espresse si articola un sistema di principi rivolto a tutelare l’identità e l’integrità dell’uomo in quanto tale e in quanto lavoratore.

Stretta conseguenza di tale assetto normo-valoriale è il dovere dello Stato di assicurarne le condizioni di realizzazione e il dovere rivolto a tutti i consociati di astenersi dall’adottare condotte lesive.

Con particolare riferimento al fenomeno del mobbing, sul piano della tutela civilistica, si pone la disposizione di cui all’art. 2087 codice civile che sancisce un obbligo, nei confronti del datore di lavoro, in termini di sicurezza (specificamente previsti dal d.lgs. n. 81/2008) e tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore posto alle sue dipendenze.

Inoltre, come da ultimo affermato dalla Suprema Corte (Cass. Sez. Lav., 16 dicembre 2022, n. 37019), tale obbligo composito si pone anche nei confronti di tutte le persone che svolgano un’attività lavorativa all’interno della sua impresa o per essa, anche in assenza di un rapporto lavorativo diretto.

L’integrità psico-fisica del lavoratore viene specificatamente tutelata anche dallo Statuto dei lavoratori e, in particolare, si richiamano l’art. 13 che sancisce il divieto di demansionamento e l’art. 15 che detta il divieto di discriminazione per motivi politici o religiosi.

Lacunosa e frammentata si presenta, invece, la tutela penale.

Come noto, il mobbing non costituisce una fattispecie autonoma di reato.

La rilevanza penale di siffatto fenomeno passa dunque attraverso il lavoro interpretativo delle altre fattispecie vigenti, con tutti i rischi correlati al divieto di analogia in malam partem, corollario del principio di riserva di legge (artt. 25 Costituzione e 1 codice penale).

Oltre tutto, non vi è piena corrispondenza tra le caratteristiche del mobbing, ampiamente descritte sopra, e le fattispecie attualmente vigenti.

Un conto infatti è ricondurre, in presenza della realizzazione del fatto tipico, una lesione al reato per l’appunto di lesioni (colpose o dolose), così come la minaccia, le molestie o la diffamazione, un conto è inquadrare tali condotte nel fenomeno del mobbing.

Infatti, affinchè si possa parlare di mobbing – e quindi di una sua tutela effettiva – è essenziale che si sia in presenza della reiterazione delle condotte sopra descritte.

Ne consegue che, ogni qual volta si faccia applicazione del reato di minacce, molestie, lesioni o diffamazione, non si tutela il lavoratore dal mobbing ma da meri segmenti di tale fenomeno che rientrano in quelle fattispecie.

Pertanto, sia a livello strutturale che funzionale, le figure di reato che maggiormente rispecchiano il fenomeno del mobbing risultano essere quelle codificate negli atti persecutori ex art. 612 bis e nei maltrattamenti in famiglia ex art. 372 codice penale.

In relazione alle affinità tra le condotte materiali ma, con tutte gli sconvenienti e i pericoli che da qui a breve saranno esaminati.

Orbene, come chiarito da un recente intervento della Cassazione (Cass. Sez. VI Pen., 19 settembre 2023, n. 38306), richiamando precedenti orientamenti conformi, il mobbing può essere punito a titolo di maltrattamenti in famiglia solo quando il rapporto lavorativo sia strutturato e condotto in ambito para-familiare.5

Questo vuol dire che maggiore attenzione ricade sull’intensità confidenziale instauratasi tra lavoratore e datore di lavoro, il che implica un ambiente lavorativo ristretto, composto da poche persone e basato su una relazione di fiducia e stretta dipendenza socio-affettiva.

Se, da una parte, l’applicazione di tale fattispecie garantisce una tutela piena ed effettiva al fenomeno, entrambe le condotte si caratterizzano per la reiterazione delle medesime, dall’altra, l’applicazione pratica si riduce drasticamente in ragione del carattere para-familiare necessario.

Allo stesso risultato conduce l’applicazione della fattispecie meno grave del reato di atti persecutori.

Infatti, secondo quanto disposto dall’art. 612 bis codice pemale, le condotte di mobbing saranno punite a titolo di tale reato solo se da quest’ultime derivino alternativamente almeno uno degli eventi prescritti, ovvero un perdurante e grave stato di ansia o di paura, un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva o l’alterazione delle proprie abitudini di vita.

Tanto è confermato anche dalla giurisprudenza e, in particolare, si richiama la pronuncia della Cassazione, 14 settembre 2020, n. 31273 la quale afferma che “nessuna obiezione sussiste, in astratto, alla riconduzione delle condotte di mobbing nell’alveo precettivo di cui all’art. 612 bis cod. pen. laddove quella mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, elaborata dalla giurisprudenza civile come essenza del fenomeno, sia idonea a cagionare uno degli eventi delineati dalla norma incriminatrice”.6

A ben osservare il dettato normativo del reato in questione, però ci si accorge che il vero problema non risiede nella necessità della produzione di almeno uno degli eventi previsti ma nella condotta vera e propria, in quanto la medesima può realizzarsi solo attraverso minaccia o molestia ove, per la prima, ai sensi dell’art. 612, si intende la prospettazione di un danno ingiusto e notevole, nel caso che ci occupa necessariamente proveniente dal soggetto minacciante e, per la seconda, ricavandone il significato dall’analisi giurisprudenziale in relazione alla contravvenzione ex art. 660 (che assume come presupposto la realizzazione della condotta in luogo pubblico o aperto al pubblico o per mezzo del telefono e la petulanza o altro biasimevole motivo), si intende un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire sgradevolmente nella sfera privata di altri (Cass. Sez. I Pen., 28 gennaio 2014, n. 3758).

Considerazioni conclusive. Urgenza di una fattispecie autonoma di reato

A fronte dell’analisi svolta sulle condotte rilevanti caratterizzanti il mobbing e delle fattispecie penali applicabili, bisogna rilevare l’inadeguatezza della risposta penale nei confronti di tale fenomeno e le difficoltà insite nell’inquadramento delle figure di reato vigenti, con particolare riferimento alla messa in pericolo delle garanzie della legalità, su tutte il principio del divieto di analogia ex art. 14 preleggi codice penale, e le possibili aporie in relazione alla tipicità stessa.

Non da ultimo, come si è già anticipato, fare applicazione delle fattispecie penali sopra richiamate conduce, inevitabilmente, ad assicurare la tutela penale solo in certi casi e solo in presenza di definite condotte che rivelino un certo tipo di offesa.

Infatti, nel caso dei maltrattamenti vige il limite della para-familiarità (nei limiti dell’interpretazione estensiva), mentre nel caso del reato di atti persecutori si necessita di una delle due condotte alternative (minaccia o molestia) e della produzione di uno degli eventi suddetti.

Dati tali problematiche di natura applicativa e interpretativa, e rilevata la frequenza con la quale il fenomeno di mobbing si verifica, si auspica un intervento ineludibile del legislatore, volto a inquadrarne i confini di rilevanza e codificarlo in una fattispecie autonoma in modo da calibrare ed equilibrare le opposte esigenze di politica criminale finalizzate al controllo della società (ambito di tutela) e quelle inerenti all’osservanza del principio di diritto penale necessario correlato al canone dell’offensività (filone garantista).


1 EGE Harald, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, Pitagora, Bologna, 1996.

2 LEYMANN Heinz, Mobbing and psychology Terror at Workplaces, in Violence and Victims (ISSN: 0886-6708), 5, 1990, pagg. 119-126.

3 EGE Harald, Quando lavorare fa male. Verso una crisi esistenziale, in Famiglia oggi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1, 2003, pagg. 8-15.

4 LEYMANN Heinz, opera citata, pagg. 119-126.

5 MIGLIO Mattia, Mobbing e diritto penale: un difficile connubio?, in Giurisprudenza Penale (ISSN: 2499-846X), 7-8, 2017.

6 FINA Ilaria, La cassazione completa la tutela penale del lavoratore vittima di mobbing: configurabile il delitto di stalking ex art. 612 bis c.p., in Sistema Penale (ISSN: 2704-8098), 2021.

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