A venti anni dalla Legge n. 6/2004: l’evoluzione dell’amministrazione di sostegno nelle visioni del “Patto di Rifioritura” e di “Coazione Benigna”

Il “Patto di Rifioritura” nasce dall’intuizione di uno studioso[1] attento al danno alla persona e alla fragilità umana, teorico massimo dell’istituto dell’amministrazione di sostegno (AdS)[2], sul cui impianto originario si innesta.

Paolo Cendon comincia ad interessarsi dei rapporti tra Diritto Privato e infermità di mente, nei primi anni ottanta del secolo scorso, come racconta nel libro “Il diritto scopre la follia[3].

Da lì, passando attraverso “Il prezzo della follia[4] del 1984, e successivamente per il famoso convegno di Trieste del 1986 “Un altro diritto per il malato di mente”, giunge alla bozza destinata a fungere da base per la introduzione in Italia, nel 2004, dell’AdS.

Inserita nel Titolo XII (del Libro I del Codice Civile), rubricato “Delle Misure di protezione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia”, lo scopo della Legge n. 6/2004 è indicato nell’art. 1 che recita: “La presente legge ha la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”.

Elemento centrale di tutta la normativa, punto di riferimento stabile e guida affidabile per tracciare la via e la linea evolutiva dell’AdS, è il concetto di minore limitazione possibile della capacità di agire che peraltro permea il lavoro di tutta una vita di Paolo Cendon.

Ancora oggi, in un suo recentissimo articolo (07 luglio 2024) scrive: “Forse non puoi guarire un matto, puoi però cercare di farlo vivere meglio. Schizofrenie, depressioni, paranoie sono realtà misteriose e complicate, più di tanto non si può fare, neanche oggi per guarirle; è possibile però, darsi da fare sul piano pratico giorno per giorno: non riaprire i manicomi, evitargli o togliergli l’interdizione; trovare all’interessato un’abitazione decente; parlargli sempre con umanità; assicurargli a casa assistenza, vitto igiene e cure; fare in modo che abbia una pensioncina; agire di concerto con il Giudice Tutelare; ricordargli che non deve fare del male agli altri; appianare i suoi contrasti familiari; assicurargli se necessario un Amministratore di Sostegno; mandarlo ogni tanto dal parrucchiere; sostenere i suoi amori positivi; aiutarlo a chiudere le relazioni sbagliate”.

Il concetto di minore limitazione possibile della capacità di agire si accompagna e si arricchisce, nel tempo, con l’intuizione del “Patto di Rifioritura” fino a giungere, nel 2024, a venti anni dall’introduzione nel nostro sistema giuridico dell’AdS, alla cosiddetta “Coazione Benigna”. Così, nel libro scritto a quattro mani con Carol Comand, “20 Anni di Amministrazione di Sostegno”.

L’intuizione di Paolo Cendon sul “Patto di Rifioritura” prende forma sin dal 2006. L’idea di fondo è quella di abolire l’interdizione, rafforzare i poteri dell’amministratore di sostegno, rafforzare la rete a supporto dei fragili, soprattutto dei “fragili difficili”, insomma, di responsabilizzare e coinvolgere, in un lavoro sinergico e corale, sotto la guida del giudice tutelare, tutti i soggetti, istituzioni comprese, che hanno a che fare con la persona fragile e che, a vario titolo, cooperano affinché quella esistenza non sfiorisca.

Per fare ciò è ritenuto necessario abolire gli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione; superare la prassi dei decreti fotocopia ripetitivi e banalmente essenziali, lontani dalla quotidianità di vita del fragile, cui invece, come un abito sartoriale, il decreto va cucito addosso; rifuggire dalla tentazione di coartare la libertà del fragile, che va invece accompagnato lungo un percorso di vita da disegnare e dipanare per gradi, presieduto dal giudice tutelare, sempre con lo sguardo vigile a presidio dagli abusi, in cooperazione con le figure del consulente psichiatrico, l’assistente sociale, l’amministratore di sostegno; incoraggiare il fragile a prendere consapevolezza dei propri diritti, delle opportunità, degli obblighi verso se stesso, verso la propria famiglia, verso la collettività; responsabilizzare le istituzioni locali verso una maggiore attenzione alle esigenze delle persone fragili, evitando di delegare sempre al volontariato, bensì collaborando fattivamente.

Sin dal 2006, Paolo Cendon – unitamente a due illustri psichiatri, Angelo Fioritti[5] e Marco D’Alema – ha lavorato attorno a tali idee, sviluppando tematiche confluite dapprima nel progetto di legge presentato, nel 2008, dalla senatrice Livia Turco, in Commissione al Senato, sulla “salvaguardia del diritto al sostegno ed alle cure delle persone affette da disagio mentale e dei loro familiari“, nel quale si ritrovano principi e disposizioni presenti nel progetto di legge n. 1985/2014 e successivamente nel disegno di legge n. 1972/2020  della XVI legislatura.

In particolare, quest’ultimo prevedeva una serie di modifiche, volte principalmente ad abrogare i vecchi “modelli incapacitanti” dell’interdizione e dell’inabilitazione ed a rafforzare, per contro, l’AdS.

Il “progetto” non è stato abbandonato, anzi, nel tempo, il dibattito è stato approfondito e sviluppato, allo scopo di esplorare e praticare un’altra via, che non sia quella del rapporto di forza tra Stato e cittadino, che si gioca e si consuma sul terreno della coazione amministrativa/sanitaria e della coercizione penale.

Si tratta di una via perfettamente aderente e rispettosa del dettato dell’art. 3 della Costituzione, che miri cioè alla concreta promozione dell’uguaglianza.

Il presupposto del principio di eguaglianza sostanziale (art. 3 comma 2) risiede nella consapevolezza che la sola eguaglianza formale (art. 3 comma 1) è insufficiente. Nella realtà concreta, le condizioni materiali presentano situazioni di profonda diversità e ostacoli di varia natura.

Per tale motivo la Costituzione prevede, programmaticamente, che siano poste in essere azioni volte a promuovere, anche – e innanzitutto – l’eguaglianza sostanziale.

È un compito che spetta alla Repubblica e consiste, appunto, nella rimozione degli intralci e delle barriere che, di fatto, limitano la libertà e l’eguaglianza di tutti.

Il fine da perseguire corrisponde al pieno sviluppo della persona umana e all’effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale. In tale solco, si pone la via indicata da Paolo Cendon per la amministrazione dei soggetti fragili.

È essenziale che l’istituto dell’amministrazione di sostegno sia più confacente ai bisogni delle persone, più responsabilizzante per le istituzioni, più aperta, trasparente e dialettica.

In un ordinamento giuridico realmente proteso al rispetto dei diritti fondamentali delle persone fragili – in primis, dignità personale e diritto al sostegno –  queste esistenze sfiorite, sofferenti e tormentate, non possono essere più gestite con i vecchi modelli dell’interdizione e dell’inabilitazione, a causa delle loro intrinseche caratteristiche negative.

Si pensi, innanzitutto, il taglio espropriativo dell’interdizione che colloca la persona in uno status giuridico equivalente alla morte civile. Infatti, con l’interdizione, la persona risulta dichiarata legalmente incapace di agire, il che comporta l’espulsione totale della persona dalla possibilità di compiere un qualsivoglia negozio produttivo di effetti nei confronti dei consociati: non un contratto, non un acquisto, non il matrimonio, né alcun atto di natura personale.

Altro che “protezione”, tale formula tradisce, in realtà, valenze punitive ed escludenti, non più tollerabili in una società evoluta.

I vecchi “modelli di incapacitazione” manifestano altresì la mancanza di valore terapeutico. Infatti, alla “incapacitazione formale” della persona, in tutte le sue espressioni, non si accompagna né nella legge né nella prassi, alcun effettivo progetto di risocializzazione ed empowerment.

In sostanza, i soli interessi tutelati sono quelli economico-patrimoniali dei familiari e dei parenti.

Tali modelli tradiscono peraltro l’assenza delle garanzie formali e sostanziali dell’interdicendo, cui viene negata la possibilità di partecipare al giudizio e, di fatto, egli rimane tristemente ai margini del giudizio.

Breviter, si traducono nell’irrevocabilità “pratica” della misura, atteso che, una volta interdetta, la persona è destinata, quasi sempre, a rimanere tale, per il resto della vita.

Il progetto di implementazione dell’AdS va portato avanti e realizzato, proprio partendo dal disegno di legge n. 1972/2020 che prevede nuove tutele, anche patrimoniali, per le persone deboli.

Tra queste, la quasi totale soppressione dell’istituto della sostituzione fedecommissaria e l’inserimento, nelle disposizioni “svuotate” di cui agli artt. 692-697 del codice civile, della disciplina relativa alla nuova figura del “patrimonio con vincolo di destinazione” a vantaggio della persona fragile.

In virtù di tale presidio, diviene possibile, per i familiari del beneficiario dell’AdS, costituire un fondo che sia gestito da un affidatario, nell’esclusivo interesse, e per l’esclusivo sostegno, della persona fragile, ed in particolare per il mantenimento, la cura, la formazione, la “partecipazione sociale” dello stesso.

È esperienza comune che, in molti casi, non è opportuno intestare beni direttamente alla persona fragile, essendo sicuramente più utile che detti beni costituiscano un patrimonio separato, gravato da un vincolo di destinazione a suo favore e da pressanti obbligazioni fiduciarie a carico del gestore, in modo che sia assicurato il rispetto del programma che il giudice tutelare ha stabilito.

Elemento caratterizzante dell’amministrazione di sostegno, de jure condendo, dovrebbe essere la finalità di favorire l’autosufficienza economica del beneficiario.

La realizzazione del programma e il rispetto della finalità sono posti sotto l’egida del giudice tutelare.

L’istituto si colloca, perfettamente, nel solco già tracciato dall’art. 2645-ter del codice civile, delineando e disciplinando un atto di destinazione volto alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela secondo il nostro ordinamento giuridico.

Esso risponde sia alle preoccupazioni dei familiari relative alla loro futura eventuale impossibilità di prendersi direttamente cura della persona con fragilità (“dopo di noi”), sia ad esigenze del “durante noi”.

Diversamente da quanto previsto nella legge n. 112 del 2016 (cosiddetta “legge per il dopo di noi”), il patrimonio vincolato può essere costituito anche a vantaggio di persone non qualificate “disabili gravi” e dunque mira all’esaltazione e alla promozione della sovranità delle persone fragili, a prescindere dalla patologia che le affligge.

Ferma deve rimanere anche la previsione di inserire nell’art. 411, comma 1, del codice civile, il rifermento all’art. 371 dello stesso codice, al fine di legittimare, anche sul piano disciplinare, la possibilità che l’amministratore di sostegno suggerisca al giudice tutelare, e questi decida, relativamente al luogo di vita e di cura del beneficiario, laddove ciò si renda necessario.

La modifica dell’art. 411, comma 4, del codice civile, va ripensata, introducendo anche la possibilità che il giudice stabilisca limitazioni o impedimenti (ovviamente di carattere temporaneo, salvo proroga) a carico del beneficiario dell’amministrazione di sostegno al compimento di atti anche di natura personale, e ciò sempre, avuto riguardo all’interesse esclusivo del beneficiario.

Ferma deve rimanere anche la facoltà del giudice tutelare di autorizzare il compimento dell’atto (che altrimenti dovrebbe essere impedito), con l’assistenza dell’amministratore di sostegno, e, qualora si tratti di atti, accertamenti, terapie o interventi di natura o contenuto sanitario, il provvedimento del giudice dovrà conformarsi ad una serie di principi, volti a garantire al beneficiario, il rispetto delle prerogative fondamentali, di cui agli artt. 13 e 32 della Costituzione.

Fermo deve rimanere anche l’ampliamento dei compiti assegnabili all’amministratore di sostegno che si estende agli atti di natura personale o “personalissimi”. Si tratta degli atti mediante i quali la persona esercita diritti afferenti alla sfera personale o affettiva, propria del soggetto che li pone in essere e che, in quanto tali, sono di stretta competenza del titolare dell’interesse che essi tendono a soddisfare.

In relazione al compimento di detti atti, di conseguenza, non è ammessa, in via generale, alcuna forma di sostituzione. Si annoverano fra essi il matrimonio, il riconoscimento del figlio naturale, l’azione per dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, il disconoscimento del figlio, il testamento, la donazione.

Tali atti – il cui compimento è oggi impedito alla persona interdetta – potranno, a seguito dell’abrogazione degli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, essere compiuti dalla persona fragile, con l’autorizzazione del giudice e con l’ausilio dell’amministratore di sostegno.

Il principio orientatore deve essere quello della piena capacità di agire e, dunque, della possibilità di compiere l’atto, con l’assistenza e l’affiancamento della nuova figura.

Scrive Paolo Cendon, nel recente libro “20 Anni di Amministrazione di Sostegno[6], a proposito de “La medicina”, “Un ambito in cui si ritrova la maggior parte delle micro-questioni da lasciare, salvo controindicazioni, sotto l’egida gestionale dell’interessato. Anche là dove, in quest’ultimo, faccia difetto teoricamente qualche rotella”.

Indicare il colore della dentiera, ad esempio, decidere la marca degli analgesici e la pomata per i reumatismi, scegliere l’infermiera con più feeling, la clinica dove operarsi al naso, il fisioterapista di vecchio stampo”.

Ci sono – diciamo così – due aree distinte in ciascuno di noi, specie nel paziente con diagnosi multipla. L’area sana e quella malata. Bisognerà accertare, ogni volta, sotto quale delle due rientri il tipo di decisione da prendere. Se la conclusione è che si tratta di quella malata, meglio tendenzialmente che a pronunciarsi sia un altro soggetto. Altrimenti lasciamo senz’altro il potere di scelta all’interessato’’.

Ed ancora: “In merito alle creature assoggettate ad AdS, si andrà incontro probabilmente, pensando soprattutto a quelle colpite da restrizioni negoziali, ad esiti di tipo arlecchinesco: con le categorie della capacità articolate in combinazioni individuali, secondo moduli diversi, persona per persona. Potranno aversi così per il beneficiario, secondo i casi, in contemporanea: (a) la ‘banda’ degli atti suscettibili di essere comunque posti in essere, i negozi cioè della quotidianità spicciola; (b) quella degli atti che richiedono, nel caso, la doppia firma in calce; (c) quella degli atti che temporaneamente o stabilmente, figurano proibiti dal giudice (rappresentanza esclusiva); (d) quella degli atti, anche impegnativi, rispetto a cui non risulti introdotta alcuna limitazione; e infine (e) quella degli atti compiuti dall’interessato, come s’è detto, in condizioni di incapacità naturale. Come Arlecchino”.

La strada tracciata da Paolo Cendon, trasfusa in parte nel suindicato disegno del 2020 e successivamente sviluppata nei suoi scritti successivi, costituisce la base di partenza verso il rafforzamento dell’AdS e la speranza, è che il Tavolo Interministeriale per le disabilità, istituito recentemente presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, riprenda il percorso iniziato dal detto disegno di legge.

I tempi sono maturi per ampliare i poteri dell’amministratore di sostegno e per eliminare gli istituti “incapacitanti”.

Come afferma Paolo Cendon, nel saggio del marzo 2021 “Persone Fragili, Diritti civili[7], tante sono le ragioni che devono spingere gli studiosi del diritto civile ad affrontare in modo unitario le questioni della fragilità umana con lo sguardo rivolto non ad un solo istituto e ad un’unica categoria di diseredati.

L’auspicio è di svincolarsi dai retaggi del passato e dalla tendenza a continuare con le esautorazioni estreme, sul piano privatistico, da parte di alcuni Tribunali, cominciando per contro a mettere in gioco l’art. 427, comma 1, del codice civile e a consentire il compimento di negozi che potrebbero, valutando caso per caso, ritenersi alla portata dell’interessato, sotto la vigilanza del giudice tutelare e con l’ausilio dell’amministratore di sostegno.

Peraltro, come correttamente fa notare Paolo Cendon, i vecchi “modelli incapacitanti”, oltre a presentarsi inadatti sotto il profilo psichiatrico, “calpestano, quanto a forma e sostanza, la Convenzione sulla disabilità di New York del 2006”, e non tengono opportunamente conto del “favor per le previsioni legislative che, in Italia, riconoscono, ad esempio circa le decisioni sull’aborto, margini decisionali non da poco alla donna incapacitata”.

Sul terreno dell’AdS, il giudice tutelare, nel redigere il decreto istitutivo, dovrà abbandonare la riluttanza, in nome dell’art. 32 della Costituzione, a consentire attribuzioni di poteri in via esclusiva, all’amministratore di sostegno, fatte salve le ipotesi di palese autolesionismo da parte del fragile.

Come nota Paolo Cendon, il raggio del sostegno gestorio, durante gli ultimi quindici anni, ha conosciuto incrementi vari, nella competenza del giudice, rispetto al tipo di affidamenti destinabili all’amministratore di sostegno.

Si è passati, infatti, dal livello primario delle operazioni di tipo meramente economico (banca, condominio, lavoro, poste, agenzia delle entrate, previdenza), a quello comprensivo anche degli interventi di ordine sanitario (scelta del luogo di cura, sondini, operazioni chirurgiche, farmaci pesanti, sperimentazioni), a quello delle scelte di natura personale o personalissima (cambiamenti di abitazione, regime patrimoniale fra coniugi, separazione, divorzio, testamento, donazioni), sino all’ambito delle cure palliative, delle terapie anti-dolore, delle scelte di fine vita (oppiacei, alimentazione, terminal sedation, idratazione, respirazione forzata, al limite suicidio assistito).

I tempi – si ribadisce – sono maturi per poter ragionare del “Patto di Rifioritura” e della “Coazione Benigna”.

Si tratta di visioni in armonia con l’art. 32, secondo i canoni in cui è declinato nella Carta costituzionale: 1) il diritto a non subire lesioni da parte di terzi; 2) il diritto all’assistenza sanitaria; 3) il diritto alla autodeterminazione terapeutica; 4) il diritto alla salubrità dell’ambiente; 5) il bilanciamento tra la tutela della salute pubblica e gli altri diritti costituzionalmente garantiti, attitudine sviluppata nel periodo pandemico.

La “Coazione Benigna” è il lato “energico” del provvedimento, con il quale il giudice tutelare nomina l’amministratore di sostegno, ma non è assolutamente in contrasto con gli artt. 13 e 32 della Costituzione.

Ai sensi dell’art 405, comma 5, del codice civile, il decreto di nomina deve, tra l’altro, contenere l’indicazione “3) dell’oggetto dell’incarico e degli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario; 4) degli atti che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore di sostegno“.

Nelle pieghe dei punti 3) e 4) del citato articolo, si inserisce a pieno titolo la “Coazione Benigna” che si applica soprattutto in tutti i casi in cui si viene in contatto con i “fragili difficili”, ossia i beneficiari che non vogliono curarsi, gli anoressici e i bulimici, le donne incinte che fanno uso di alcool e/o di sostanze psicotrope, i tossicodipendenti che rifiutano di andare in comunità, i ludopatici e in generale i soggetti affetti da patologie sessuali, con problemi relazionali determinati da traumi anche familiari.

Relativamente a tali soggetti, si registra infatti la sostanziale impossibilità o comunque l’oggettiva difficoltà di utilizzare, la disciplina del TSO psichiatrico, ex lege n. 180/1978 (“legge Basaglia“), data anche la difficoltà di applicare tali meccanismi in via analogica, stante il limite imposto dall’art. 32, comma 2, della Costituzione.

Sempre più urgente si è manifestata nel tempo la necessità di introdurre strumenti di vincolatività che invogliassero il fragile difficile alla cura, all’interno di un progetto esistenziale/terapeutico messo a punto dal giudice tutelare, nel provvedimento ex art. 405 del codice civile, eventualmente con il supporto di medici e operatori sociosanitari, coinvolti per il caso di fallimento di ogni strategia giocata sul “piano persuasivo”.

La “Coazione Benigna” si inserisce perfettamente nel tessuto di una disciplina elastica come quella dell’AdS, ad alta vocazione interdisciplinare, e costituisce l’unica alternativa a istituti di taglio meramente sanitario, a carattere più o meno impositivo.

Nella disciplina elastica ed onnicomprensiva dell’AdS, trovano insieme cittadinanza e si riducono ad unità, il profilo medico e il profilo esistenziale/familiare, patrimoniale, ludico, residenziale, sportivo, creativo, in una prospettiva di ampio respiro, scevra da limitazioni incompatibili con una seria ed efficace prospettiva di cura.

Meno diritto penale, meno psichiatria, invoca Paolo Cendon, nel lavoro scritto con Carol Comand, purché i fragili difficili afflitti da serie dipendenze, che li prostrano nel corpo e nello spirito, siano rimessi nel circuito della vita e della società da una équipe composita (il cosiddetto “gruppo istituzionale di ripristino“, come definito da Paolo Cendon) che agisce sotto il diretto controllo del giudice tutelare.

In un suo recente scritto (26 giugno 2024), Paolo Cendon sottolinea la necessità di fare ricorso “cautamente” al Diritto, e scrive: “Meglio sempre essere protetti dal Diritto. Giusto? Neppure questo è vero in assoluto. Anche dove cerca di avere la mano leggera, il diritto è sempre un po’ ingombrante, burbanzoso, compreso quello civile; si comporta da intruso, introduce lembi di burocrazia. Tanti al mondo preferiscono resti tutto come prima, per loro, se possibile. Hanno spesso ragione, salvo rischi effettivi, meglio allora non fare niente. La chiave di volta per orientarsi, è, se il candidato all’assistenza possa dire di avere intorno a sé, di fatto, una rete protettiva che funziona. Genitori, fratelli, zii, nonni …. Se una rete del genere esiste, se funziona discretamente, se c’è un buon rapporto con la creatura in difficoltà, meglio soprassedere all’intervento del diritto”.

Ciò vale altresì quando il quadro sanitario si presenta compromesso anche a livello psichiatrico.

Infatti, la condizione dalla quale non si può prescindere è che restino fermi i cardini fondamentali della vita di ogni essere umano: il focolare domestico, il lavoro, il tempo libero, la scuola.

Occorre abbandonare la macchina farraginosa del sistema ospedaliero che si limita alla settimana del trattamento obbligatorio, ex lege n. 180/1978, che si esaurisce in pochi giorni, rinnovabili a fatica.

In molti casi, poi, il marchingegno ospedaliero non è neppure lo strumento adatto a risolvere il problema.

Persino Franco Basaglia pare amasse poco questa parte della legge, relativa al TSO, che di fatto fu scritta da altri.

Il trattamento coattivo tradisce un’impostazione rigida e burocratica, sebbene perfettamente in linea con i tempi in cui il codice civile contemplava la sola interdizione, ma che oggi, a 20 anni dalla introduzione nel nostro sistema giuridico dello strumento dell’AdS, deve fare i conti con questo strumento arioso, trasparente, incruento, non segregativo, che va visto e prospettato come modello di riferimento, per la gestione delle fragilità.

L’istituto che ci occupa, a 20 anni dalla sua prima applicazione, si è rivelato un sistema valido ed efficace, pienamente rispondente ai dettami costituzionali (art. 32, comma 2), baluardo istituzionale in grado persino di responsabilizzare, anche attraverso diffide/ultimatum il fragile difficile, in ordine ai doveri che su di lui incombono quale individuo (autoprotezione, dignità, onore, cautela) inserito in una rete di relazioni familiari e interpersonali (assistenza, mantenimento, educazione, promozione).

In tale alveo si muove già da tempo la giurisprudenza che ha interiorizzato e fatto proprie le sollecitazioni sopra espresse. In tal senso infatti, si leggano le sentenze rese dai Tribunale di Roma (13 febbraio 2015, G.T. Roccato) e Latina (15 aprile 2019, G.T. Biava).

Trattando del “Patto di Rifioritura“, Paolo Cendon propone di approntare gli strumenti adeguati per aiutare chi è afflitto da dipendenze, per fargli ritrovare il sentiero perduto, e suggerisce: “Primo passaggio, affidarsi alla regia di un’autorità sperimentata: il giudice tutelare. Anche là dove il problema sanitario sia in primo piano, resteranno decisivi, nell’agenda di chi zoppica, i momenti di tipo non biologico: focolare, lavoro, tempo libero, scuola, intese col volontariato. Meglio sia un’équipe composita a occuparsene istituzionalmente. Il timone rimesso a chi è abituato, per mestiere, a soppesare i risvolti del giorno per giorno, del tenore di vita. E occorre abbandonare l’idea di un marchingegno sanitario – tipo la settimana del trattamento obbligatorio, nella legge 180 – esaurentesi in pochi giorni di ospedale. Le cose vanno viste come destinate a svolgersi in più fasi: continue, progressive, all’insegna di un accorto interscambio, del non primato della chimica. Con alternanze di passaggi, medici e non medici, finché la presa in carico perduri; qualche mese di impegno o anche più tempo: nella coscienza che i miracoli sono rari, che necessitano di realismo. Un metodo condiviso, il più possibile. Che non escluda l’eventualità di momenti energici, all’occorrenza, di coazioni benigne: nel segno di un richiamo ai doveri della civitas, per l’assistito, della coerenza operativa. Ogni sacrificio – giri di boa, astinenze virtuose, rinunce alla tossicità, self[1]restraint – concertato con l’équipe di ripristino: in stretta armonia d’intenti. Chi brontola o protesta invitato a smetterla, per il bene di tutti: ammonito a rispettare gli accordi, altrimenti si andrà avanti col programma, piaccia o non piaccia, fino in fondo”.

Tale metodologia, secondo la condivisibile tesi di Paolo Cendon, potrà portare, sul piano pratico, a scongiurare che la “diciottenne tossicodipendente, a rischio di autodistruzione, facile preda di malintenzionati, possa uscire a suo piacere dalla comunità che la ospita. Al custode che vigila alla guardiola sarà stato attribuito dal Tribunale, in partenza, il potere di rifiutare alla ragazza, che lo domandasse, l’apertura del cancello”. Oppure che “un ludo-dipendente, poker, macchinette, corse al trotto, tre giorni dopo aver preso lo stipendio se l’è già ‘fatto fuori’; risultato i bambini denutriti, senza scarpe, la moglie che non può andare dal dentista. Un provvedimento giudiziale, circoscritto ai meri profili finanziari, non esteso agli aspetti sanitari, terapeutici, farmacologici, potrebbe reputarsi per il futuro, con buona ragione, non proprio adeguato”.

Oppure, ancora che la donna “aspetta un bambino da un mese e mezzo, risulta che fino al giorno del concepimento si faceva di eroina, un giorno sì e un giorno no. Andrà messa in condizione di non poter assumere nessuna sostanza, non perfettamente innocua, sino al parto concluso, e anche dopo se allatta”.

Oppure che Tizio “beva ogni giorno sino a stordirsi, non appena ubriaco picchia moglie e figli, quando non è assecondato. Un itinerario all’insegna dell’ascolto, disseminato però di aut-aut, di robuste saracinesche, di allontanamenti prolungati, dovrà al più presto – secondo quanto suggeriscono il sociologo, il farmacista, l’analista dell’anima – tratteggiarsi dal magistrato”.

Tornando al dato di partenza di questa breve analisi della “Coazione Benigna”, cioè la finalità della legge sull’AdS, “tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire le persone prive in tutto o in parte di autonomia”, e ribadendo che questo principio domina tutta l’opera di una vita di Paolo Cendon, va ricordato ancora che, nel suo ultimo lavoro, egli scrive: “Libertà fin che possibile. Le signorie per chi è fragile ancora. Il fatto di accusare disagi psichici non significherà che la persona non possa, sul piano delle iniziative, collaborare alla propria rinascita. Anche sul piano contrattuale. Anzitutto è pacifico che un individuo, per quanto instabile, è sempre in grado di compiere gli atti della vita di ogni giorno. Nessun barista, al pazzerello che gli chieda un cappuccino, porgendo un euro e quaranta, potrà mai rispondere: ‘Non ti servo, sei fuori di testa. Puoi restare nel mio locale, niente però consumazioni; al massimo un bicchier d’acqua dal rubinetto, in regalo‘.

Lo stesso per quanto concerne il fornaio, il tassista, il salumiere, il calzolaio, il fruttivendolo (articolo 409 c.c., ultimo comma). Conclusione analoga, fin che possibile, anche rispetto a negozi meno semplici. Non si parla di operazioni societarie, beninteso, né di fusioni tra banche. Ciò che è sensato dovrà accogliersi tuttavia – in vista di una miglior risocializzazione – nella portata virtuale del fragile; almeno in chiave informativa, di partecipazione ai vari anelli. Complicità, accompagnamenti; mai esclusioni o segretezze, nessuno messo di fronte al fatto compiuto. Decisive nei dettagli, sempre, le caratteristiche del caso specifico: natura del vulnus psichico, curiosità e disponibilità al coinvolgimento, importanza del contratto da stipulare, costi/benefici sulla carta, idoneità di un’assistenza (doppia firma) civilistica”.

In questo ordine di idee, anche sposarsi per il fragile non sarà una chimera.

Così, sul punto, Paolo Cendon: “Soggetto con una seria diagnosi psichiatrica, con scompensi periodici, esprime il desiderio di sposarsi con una donna che neanche sta bene, perché depressa cronica, con poche speranze di rimessione. Questo è sicuramente un caso in cui chi ha l’ultima parola in Tribunale, non potrà che concludere che questo matrimonio non s’ha da fare. Laddove, invece, un soggetto affetto dalla sindrome di Down sarebbe intenzionato a sposare una donna Down a sua volta. Sono cresciuti insieme, le famiglie si conoscono, hanno sempre presidiato quella che, per anni, era una semplice amicizia. I due hanno frequentato buone scuole, entrambi hanno un mestiere sicuro in mano, lui magazziniere, lei sarta. Tutti quanti li conoscono, ambedue vantano un bel carattere, ci sarà sempre a un metro di distanza un’ala protettiva. Due le coppie, normali, che si sono sposate ultimamente, fra i coetanei del quartiere. Perché non lo stesso anche loro?

A chiusura di queste brevi considerazioni, vale la pena soffermarsi un attimo sul “diritto alla felicità”.

Il 9 dicembre 1820 a Napoli, il re Ferdinando I decreta la Costituzione politica per “lo buon governo e per la retta amministrazione dello Stato“.

Nella Costituzione del Regno delle Due Sicilie, al Capitolo III – Del Governo –, all’art. 13 si legge: “L’oggetto del governo è la felicità della Nazione; non essendo altro lo scopo di ogni politica società, che il ben essere di tutti gli individui che la compongono”.

Nonostante le numerose norme contenute nella Costituzione Italiana e nelle varie leggi che cercano di garantire all’individuo un’esistenza pacifica, felice e serena, nonostante la felicità sia un obiettivo importante per tutti, non esiste un riconoscimento esplicito del “diritto alla felicità” nel Diritto italiano.

Certo, la felicità dipende da molte circostanze personali, tra cui la salute, le relazioni umane, un lavoro stabile che garantisca un’esistenza libera e dignitosa, quindi sembrerebbe non poter essere garantita da un’azione di governo o dall’attività di legislazione.

Ciò non significa che il “diritto alla felicità” sia, di fatto, ignorato dalle istituzioni e dai giudici, ma semplicemente che non esiste una norma esplicita che lo riconosca formalmente e, come tale, lo tuteli.

Forse sarebbe ora di codificarlo.

Frattanto il compito di salvaguardarlo è demandato a noi operatori del diritto.


[1] Paolo Cendon (1940), veneziano, è professore ordinario di Diritto Privato all’Università di Trieste. È autore di monografie accademiche; opere didattiche; libri collettane; trattati; codici annotati e commentati; collane e riviste. Ha redatto nel 1986 la bozza destinata a fungere come base per il provvedimento di legge istitutivo dell’amministrazione di sostegno, del 2004. Coordina la “scuola triestina” che ha inventato il danno esistenziale. Fondatore e curatore della rivista online www.personaedanno.it che ha, tra i suoi progetti, l’abolizione dell’istituto dell’interdizione e – in genere – la messa a punto per l’Italia di un nuovo diritto dei cosiddetti “soggetti deboli”.

[2] Legge n. 6/2004.

[3] CENDON Paolo, Il diritto scopre la follia, Key Editore, Milano, 2015.

[4] CENDON Paolo, Il prezzo della follia. Lesione della salute mentale e responsabilità civile, Il Mulino, Bologna, 1984.

[5] Angelo Fioritti (1959), psichiatra, è autore di oltre settanta pubblicazioni internazionali ed oltre cento su riviste o libri italiani.

[6] CENDON Paolo – COMAND Carol, 20 Anni di Amministrazione di Sostegno, Key Editore, Milano, 2024.

[7] CENDON Paolo, Persone Fragili, Diritti civili, Key Editore, Milano, 2021.

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2 risposte

  1. In questo brillante articolo dell’avv. Tammaro, ove si parla della felicità negata ai fragili, degli indifesi, si coglie la forma di esclusione più deleteria, il sistema dei pregiudizi: disumani, disumanizzanti… Complimenti!
    Isabella Drengot

  2. Complimenti all’Avv. Mariacristina Tammaro che con grande competenza e professionalità, frutto di studio ed esperienza, ha tracciato una linea guida per la tutela dei più ” fragili ” all’insegna dell’umanità e sensibilità, che ci auspichiamo venga seguita dal legislatore.
    Olga Vicidomini

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