Indagini criminali e investigazioni difensive: l’antropologia forense

Premessa

Il difensore che, nel procedimento penale, svolga le investigazioni difensive o intenda confutare la tesi dell’accusa, come è noto, ha facoltà di avvalersi di consulenti esperti, i quali si affiancano ai periti del pubblico ministero o a quelli nominati dal giudice.

Ciò avviene in maniera più pregnante laddove si occupi di casi di omicidio, ricerca di persone scomparse, occultamento di cadavere o, in generale, ricostruzione della scena del delitto.

Per tale scopo, l’accusa (nelle indagini criminiali) come la difesa (nelle investigazioni difensive) ricorrono alla collaborazione di specialisti in scienze forensi.

Per scienze forensi si suole intendere l’applicazione, al campo giudiziario, di un spettro di discipline particolarmente esteso ed in continuo aggiornamento, di pari passo con l’evoluzione scientifica e tecnologica.[1]

Tale varietà di discipline consente di spiegare, in alcuni casi, le oggettive difficoltà a organizzare determinati interventi: non esiste infatti un esperto in scienze forensi.

Esse sono, per definizione, tutte le discipline che gravitano nell’orbita delle indagini e della giustizia e che sono di ausilio alle indagini. L’impossibilità di identificare un solo esperto talvolta costituisce un limite per gli inquirenti, come per il difensore, nella scelta della giusta figura professionale.

Alcuni studiosi rilevano, nelle scienze forensi, un quid in più rispetto alla mera applicazione, di metodologie preesistenti, a una questione pratica in campo giudiziario. Il criminalista Paul L. Kirk (1902-1970), in particolare, sostiene che le scienze forensi siano fondamentalmente “scienze della comparazione”, in quanto ogni loro utilizzo in campo investigativo si esplica attraverso un confronto di dati e rilievi.

La qualifica “forense” si realizza dunque mediante una comparazione e una successiva interpretazione dei risultati ottenuti, e non deriva dalle metodiche scientifiche in sé utilizzate (Kirk, 1963).

L’antropologia forense

Tra le scienze forensi, a differenza della medicina legale, l’antropologia forense è la disciplina che studia i resti umani in avanzato stadio di decomposizione che, di conseguenza, presentano particolari problemi di identificazione, di individuazione delle circostanze della morte e di eventuali responsabili.[2]

Il ruolo dell’antropologo forense è, in sostanza, quello di coadiuvare gli specialisti in ambito medico e legale, per le sue spiccate competenze in ordine all’anatomia umana e alle sue variazioni in rapporto alle aree geografiche e alle etnie.

Negli Stati Uniti, l’antropologo forense è riconosciuto come figura professionale a sé stante, così come accade in Inghilterra. In Italia, come in altri paesi europei, si tende ancora ad affidarsi unicamente a patologi e medici legali, relegando l’antropologia forense ad una delle tante branche della medicina.

A fondamento del metodo di tale disciplina scientifica, si pone il cosiddetto “principio dell’interscambio” di Locard[3], secondo cui l’autore di un delitto reca sempre con sé, in modo inconsapevole, una qualche traccia della scena del crimine e lascia sempre qualcosa di sé sulla scena del crimine. Si tratta del principale assioma della criminalistica (every contact leaves a trace), posto alla base di ogni sopralluogo giudiziario.[4]

La ratio della normativa, in chiave sistematica, delle investigazioni difensive – come, d’altronde, delle indagini esperite dall’accusa – trova fondamento nel concetto stesso di interpretazione scientifica, la quale afferma che, nella scienza, non sono presenti verità assolute, ma asserzioni confutabili e verificabili.

Ciò è sostenuto anche dal filosofo Karl Popper, secondo cui, ogni qualvolta una teoria sembra essere l’unica possibile, bisogna prenderla come un segno che non si è compreso la teoria stessa né il problema che si intendeva risolvere.[5]

Al riguardo, un esempio eloquente ne è l’irrefutabile considerazione che il DNA di un soggetto indagato, presente sulla scena del crimine o sulla vittima, non necessariamente coincide con il DNA dell’offender, in quanto il carattere temporale non è certo e, nell’immediato, può solamente indicare che il DNA appartenente ad una determinata persona sia transitato, per qualche motivo, in quel determinato luogo.

Saranno dunque necessari ulteriori accertamenti affinché sia verificato in quali circostanze e in quale tempo la traccia genetica si sia depositata sul luogo del delitto.[6]

La prova scientifica deve avere quale postulato ineludibile la verifica dell’affidabilità metodologica che – prescindendo da attività surrettizie in malafede – è tanto più garantita quanto è più alta la specializzazione delle figure professionali coinvolte.

Orbene, lo studio dell’antropologo forense può fornire una vasta gamma di informazioni funzionali all’indagine.

Il lavoro dello specialista comprende infatti varie fasi, dall’analisi dei resti sul campo fino a all’esame in laboratorio.

In tal senso, le operazioni preliminari sono finalizzate a determinare se si tratti di resti umani, animali o di origine inorganica e, successivamente, se si sia dinanzi ad un caso di morte recente o di resti di epoca storica.

L’Antropologia forense può inoltre essere di ausilio per stabilire l’esatta ora della morte, l’identificazione del corpo, la causa della morte e se, in vita, il soggetto fosse affetto da determinate malattie.[7]

Tante altre informazioni possono essere raccolte.

Si può dedurre l’etnia grazie mediante lo studio della struttura ossea, traendo indicazioni dalla conformazione del cranio (apertura nasale, orbite, denti, prognatismo), ma anche dall’apporto femore-tibia e omero-ulna, e dai capelli, se ancora attaccati allo scalpo.

Si può individuare il sesso della vittima, osservando il cranio, il bacino e le altre ossa pelviche, o ancora dall’analisi del femore e dell’omero.[8]

L’età, o l’identità[9] stessa, può ricavarsi mediante rilievi su base dentale (con metodi radiologici), ma anche in ordine alle giunture dell’epifisi delle ossa lunghe, del grado di sinostosi delle suture craniche e dall’eventuale osservazione di fenomeni di tipo degenerativo o artrosico.[10]

La statura della persona in vita può essere ottenuta dalla misurazione delle ossa lunghe, confrontando questa misura con i dati relativi al gruppo etnico e al sesso con specifici strumenti matematici. La stima può tuttavia risultare approssimativa nel caso in cui le ossa rinvenute non siano complete.

I traumi vengono individuati per determinare le circostanze del decesso, ma anche per favorire l’identificazione del corpo. In tal senso, vengono distinti in traumi ante-mortem, peri-mortem o post-mortem e vengono determinati l’oggetto e la modalità con i quali sono stati inferti.[11]

In particolare, i traumi ante-mortem sono solitamente fratture ormai saldate, esiti di interventi chirurgici o dispositivi medici applicati all’osso. Vengono inoltre definite eventuali malformazioni congenite, allo scopo di rendere più agevole l’identificazione, restringendo il campo di ricerca.

La ricostruzione del volto, proprio nel caso di traumi, avviene tramite la ricostruzione facciale, che può essere manuale o digitale, ottenendo un’ipotesi dell’aspetto che la vittima poteva avere in vita.

La tecnica richiede di applicare dei supporti (in base al gruppo etnico, all’età e al sesso) su una copia del cranio e, in particolare, questi vengono scelti sulla base del profilo antropologico precedentemente analizzato.

A tale tecnica vengono affiancate tecniche digitali di ricostruzione tridimensionale del cranio, mediante Tac o mediante fotografia tridimensionale.[12]

Il tempo dal decesso, quale tempo trascorso dalla morte (PMI, cioè post mortem interval), può essere difficile da stimare ove vi sia un avanzato stato di decomposizione.[13] È difatti influenzato da diversi fattori ambientali, quali temperatura, umidità dell’aria, grado di umidità e di acidità del suolo nel caso di sepoltura, et similia.

Il post mortem interval viene generalmente determinato in base ai tessuti molli (labbra, polpastrelli, muscoli), oppure, ove possibile, in base allo stato di conservazione delle ossa e, in ausilio, sopraggiungono l’entomologia forense e la botanica forense, per lo studio di insetti e piante.

Il livello di putrefazione di un corpo umano, effetto dell’azione dei microrganismi soporiferi (batteri aerobi ed anaerobi) e dei fermenti autolitici, consente di calcolare con sufficiente precisione l’ora del decesso.

Il processo di disfacimento cadaverico segue la “regola di Casper dell’1.2.8[14], in virtù della quale il grado di putrefazione di un cadavere esposto all’aria in una settimana (1), corrisponde a quello raggiunto in due settimane dall’annegato (2) ed in otto settimane dal cadavere inumato (8).

Va precisato che la mancanza o scarsità d’aria, l’atmosfera secca ed asciutta, l’assenza di microorganismi, le temperature basse o molto elevate, o, all’opposto, l’interramento, l’immersione in acque fredde, il collocamento in cela frigorifera, possono rallentare considerevolmente la degradazione del corpo.

L’inserimento nel freddo estremo costituisce, tra l’altro, un’ottima tecnica di conservazione del corpo umano, talvolta anche per la durata di molti secoli.

Nel caso particolare della ricerca di cadaveri occultati vengono utilizzate tecnologie classiche, moderne e di scavo archeologico.

Il sopralluogo effettuato tramite una perlustrazione dell’area possibilmente interessata spesso viene eseguito utilizzando i cosiddetti cani da cadavere e con il personale tecnico specializzato. Questi ultimi si avvalgono di tecnologie quali la termocamera, il georadar e strumenti di geofisica, allo scopo di individuare modificazioni del contesto ambientale, che sono indici di sepoltura.[15]

I cani rilevatori di cadaveri, sono animali impiegati nella ricerca forense, addestrati per localizzare i resti umani in tutte le fasi del decadimento, permettendo di individuare una persona appena deceduta o resti sepolti anche da numerosi anni.

Le termocamere sono dispositivi di videoripresa termografica che rilevano e riproducono le immagini dalla percezione del calore (infrarosso o energia termica), in luogo della luce, distinguendo tra l’energia termica emanata dalle persone e da quella emanata dagli oggetti. Ciò permette di setacciare zone molto ampie, nel caso in cui non vi sia certezza di quale sia il luogo interessato della ricerca.

Il georadar (ground penetrating radar) è una metodologia utilizzata in geofisica, basata sull’analisi delle riflessioni di onde elettromagnetiche trasmesse nel terreno, la quale permette un’analisi del sottosuolo fino ad una profondità di alcune decine di metri.

Tale tecnica non invasiva, utilizza la propagazione di onde elettromagnetiche ad alta frequenza, in quanto l’energia che si propaga attraverso la terra viene riflessa non appena incontra un oggetto sepolto. È particolarmente utile per l’indagine di corpi ed oggetti, ma anche per l’individuazione di covi o nascondigli.

Il metal detector è un sistema ad induzione magnetica che consente la trasmissione e la ricezione di onde elettromagnetiche irradiate da oggetti, permettendo l’individuazione di masse metalliche, eventualmente utili alla ricerca.

Le indagini sulla resistività elettrica, quale la tendenza di un corpo ad opporsi al passaggio di un flusso di corrente elettrica quando sottoposto ad una tensione elettrica, danno la possibilità di determinare l’avanzamento dello stato di decomposizione di un corpo. Infatti, attraverso la tomografia elettrica, vengono studiate le variazioni della resistività del terreno, permettendo di confrontare le differenze nel tempo.

Lo scavo del luogo individuato viene effettuato tramite le tecniche archeologiche, al fine di non danneggiare i resti e di non creare ulteriori traumi alle ossa, che potrebbero modificare la scena del crimine rendendo più difficoltosa l’identificazione delle circostanze del decesso.

È noto, in concreto, come eventuali errori commessi nella primissima fase dell’inchiesta sui luoghi possano rivelarsi determinanti, al punto da precludere a priori ogni futura possibilità di risalire all’autore del crimine.

Fondamentale è il preliminare congelamento della scena del delitto, trattasi di un intervento conservativo e immediato finalizzato a cristallizzare lo status quo e prevenire che le risultanze dei rilievi successivamente effettuati possano essere gravemente turbate, se non del tutto falsate.

È essenziale che la scena del crimine resti inalterata[16] sino all’inizio della successiva fase di rilievo, corretto, metodico e ragionato, degli elementi presenti in loco prevenendo che operatori incauti[17], o animati da interessi difformi rispetto a quelli propri dei rilievi, possano manomettere o inquinare le prove, finanche in modo irreversibile.

Viene quindi analizzato l’ambiente interessato dell’area di ricerca, compiendo rilievi fotografici e videoregistrazioni di tutta la scena, sia nel suo insieme sia nei particolari, come memoria, affinché possa essere sempre utilizzata anche a distanza di tempo o nel corso delle indagini od anche nelle fasi processuali. 

L’analisi richiede un rigoroso rispetto della successione logica delle operazioni di rilevamento dei dati di interesse che devono poter offrire la possibilità di connessione tra un reperto e l’altro.

L’effettuazione dei rilievi deve avere un andamento di tipo centripeto, partendo dall’annotazione di tutto quello che si osserva alla periferia del luogo in esame fino a giungere al centro dello stesso. Infine, vanno operate la rimozione e la raccolta dei singoli reperti che potranno essere esaminati e valutati singolarmente nelle loro peculiarità.

In relazione ai resti, tale area viene mappata per rilevare la posizione dei diversi frammenti ossei nel caso in cui questi siano dispersi in luoghi o aree differenti. Ciò allo scopo di chiarire il contesto dello spostamento dei medesimi, come ad esempio ad opera degli animali presenti sul luogo.

Vengono inoltre prese in considerazione la possibilità e le modalità con cui i fattori ambientali possono modificare l’ambiente circostante (e viceversa) e causare la decomposizione del corpo.[18]

Ne consegue che, le tracce impresse sulle ossa, possono permettere di stabilire se la vittima abbia subito lesioni, quale sia la causa della morte, determinare le concause di un disastro di massa o individuare elementi decisivi per ricercare una persona scomparsa.

Tali dati risultano significativi laddove da ciò possa dipendere la condanna o la assoluzione di un imputato e l’esito positivo o negativo di un procedimento penale.

In conclusione, la funzione del difensore, nella vigilanza sull’applicazione delle garanzie di rito e nella protezione dei diritti del proprio rappresentato, richiede, in determinati ambiti criminosi, un utilizzo via via più massivo delle scienze forensi.

Tra queste, si fa sempre più largo l’antropologia forense, così attenta ed attrezzata per l’analisi oltreché munita di un ampio ventaglio di soluzioni interpretative, al fine di salvaguardare l’indagato e consentire un più esteso e pregnante esercizio del diritto di difesa sancito dall’articolo 24 della Costituzione, per esplicare la misura e la modalità di tutela maggiormente efficace.

Ciò vale, ab inversis, anche per quanto concerne l’attività di indagine esperita dagli inquirenti, ai fini dell’accertamento della verità in ambito processuale, nella dimensione più conforme alla realtà dei fatti.

Il tutto tenendo sempre nella debita considerazione quanto racchiuso nel mirabile principio di precauzione di Sagan[19]l’assenza di prove non è prova di assenza”.


[1] Nel 2005, gli studiosi James e Nordbye hanno tentato di raccoglierle sistematicamente in: antropologia forense (applicazione dei metodi e delle teorie antropologiche per la risoluzione dei problemi medico-legali); archeologia forense (applicazione dei metodi dell’archeologia per il recupero dei resti umani e interpretazione delle loro associazioni spaziali); entomologia forense (studio degli insetti in rapporto ai fenomeni trasformativi di un cadavere); odontologia forense (applicazione delle competenze odontologiche in campo legale); patologia forense (specializzazione che si occupa di investigare sulle cause delle lesioni, del tempo, dei mezzi e delle modalità della morte); psicologia e psichiatria forense (scienze della mente in rapporto alla legge); tafonomia forense (studio dei fenomeni post-mortali ed loro rapporto con il contesto ambientale); tossicologia forense (studio delle droghe d’abuso e dei veleni nelle implicazioni legale). A tali discipline, si sono via via aggiunte la biologia forense, la geologia forense, la geopedologia forense, la genetica forense, la botanica forense, la palinologia forense, la zoologia forense, la digital forensic, l’ingegneria forense, l’analisi forense di video, e altre ancora di recente.

[2] Per approfondimenti, CATTANEO Cristina – GRANDI Marco, Antropologia e Odontologia Forense. Guida allo studio dei resti umani, Monduzzi, Milano, 2004. Inoltre, MARELLA Gian Luca, Elementi di antropologia forense, Cedam, Padova, 2003.

[3] Principio coniato dal criminologo francese Edmond Locard (1877-1966).

[4] Si deve al cinese Song Ci, nel 1247, il primo manuale di istruzioni, dal titolo Hsi Yüan Lu (“Come lavare i torti”), su come condurre indagini medico-legali, esaminando i cadaveri e determinando l’epoca e la causa della morte. Nella sua opera sono trattate anche altre questioni correlate all’indagine forense come l’avvelenamento, la decomposizione, le ferite da varie armi, lo strangolamento e la simulazione di ferite. La prima autopsia giudiziaria documentata risale tuttavia al 1302, a Bologna, ad opera di Bartolomeo da Varignana, eseguita per ordine del magistrato locale per far luce su di un sospetto avvelenamento. La prima relazione medico-legale, di cui si è certi, è databile al 1575 ed è ascritta al chirurgo di corte francese Ambroise Paré.

[5] POPPER Karl, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, Armando, Roma, 1975.

[6] Si ricordi, a titolo esemplificativo, il caso del “delitto di Perugia” (l’omicidio della studentessa Meredith Kercher) che ha suscitato tanto biasimo da parte della Suprema Corte, per via degli errori commessi dagli inquirenti, consistenti in evidenti sviste metodologiche. Su tutte, quelle inerenti al “gancetto del reggiseno” che fu repertato solo dopo diversi accessi e, medio tempore, passato inopinatamente di mano in mano dagli operanti, mentre indossavano, tra l’altro, guanti di lattice sporchi. Ciò dimostra, in modo inequivocavile, come ciò che paia quale verità scientifica non può automaticamente trasmigrare nel processo, per tramutarsi, eo ipso, in verità processuale, dovendo preliminarmente passare per un rigoroso vaglio metodologico e comparativistico: sul punto, Cass., Sez. V Penale, n. 36080/2015, paragrafo 7.1.

[7] Per approfondimenti CATTANEO Cristina – BIEHLER-GOMEZ Lucie, Interpreting Bone Lesions and Pathology for Forensic Practice, Academic Press, New York, 2020

[8] Per approfondimenti, GIBELLI Daniele, BORLANDO Alessia, BARNI Luisa, SARTORI Patrizia, CAPPELLA Annalisa, PUCCIARELLI Valentina, CATTANEO Cristina, SFORZA Chiarella, Anatomy of infraorbital foramen: Influence of sex, side, and cranium size, in The Journal of Craniofacial Surgery (ISSN: 1049-2275), 2019, pagg. 1284-1288.

[9] Si pensi al caso del rinvenimento di resti umani carbonizzati, a Berlino, nella cancelleria del Reich, poi attribuiti ad Adolf Hitler in base all’esame delle protesi dentarie e degli intarsi evidenti sulla radiografia del cranio del medesimo, effettuata sul dittatore dopo il grave attentato subito nel 1944.

[10] Per approfondimenti, SELLIAH Pranavan, MARTINO Federica, CUMMAUDO Marco, INDRA Lara, BIEHLER-GOMEZ Lucie, CAMPOBASSO Carlo Pietro, CATTANEO Cristina, Sex estimation of skeletons in middle and late adulthood: reliability of pelvic morphological traits and long bone metrics on an Italian skeletal collection, in International Journal of Legal Medicine (ISSN: 0937-9827), 2020.

[11] Per approfondimenti, VIERO Alessia, AMADASI Alberto, BLANDINO Alberto, KUSTERMANN Alessandra, MONTISCI Massimo, CATTANEO Cristina, Skin lesions and traditional folk practices: a medico-legal perspective, in Forensic Science, Medicine and Pathology (ISSN: 1547-769X), 15, 2019, pagg. 580-590. Inoltre, CAPPELLA Annalisa, DE BOER Hans. H., CAMMILLI Paolo, DE ANGELIS Danilo., MESSINA Carmelo, SCONFIENZA Luca Maria, SARDANELLI Francesco, SFORZA Chiarella, CATTANEO Cristina, Histologic and radiological analysis on bone fractures: Estimation of postraumatic survival time in skeletal trauma, in Forensic Science International (ISSN: 0379-0738), 2019. Ed ancora, CATTENEO Cristina, Corpi, scheletri e delitti, Cortina, Milano, 2019.

[12] Per approfondimenti, WILKINSON Caroline, Facial reconstruction – anatomical art or artistic anatomy?, in Journal of Anatomy (ISSN: 1469-7580), 2010, pagg. 235-250.

[13] Per approfondimenti, BYRD Jason H., CASTNER James L., Forensic entomology: the utility of arthropods in legal investigations, CRC Press, Boca Raton, 2009.

[14] Regola illustrata dal medico-legale tedesco Johann Ludwig Casper (1796-1864).

[15] Per approfondimenti, SALSAROLA Dominic – CATTANEO Cristina, Human remains and identity, in Wiley Encyclopedia of Forensic Science, 2009, pagg. 1495-1499.

[16] L’articolo 354 del codice di procedura penale così recita: 1. gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria curano che le tracce e le cose pertinenti al reato siano conservate e che lo stato dei luoghi e delle cose non venga mutato prima dell’intervento del pubblico ministero; 2. se vi è pericolo che le cose, le tracce e i luoghi indicati nel comma 1 si alterino o si disperdano o comunque si modifichino e il pubblico ministero non può intervenire tempestivamente ovvero non ha ancora assunto la direzione delle indagini, gli ufficiali di polizia giudiziaria compiono i necessari accertamenti e rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose. Se del caso, sequestrano il corpo del reato e le cose a questo pertinenti; 3. Se ricorrono i presupposti previsti dal comma 2, gli ufficiali di polizia giudiziaria compiono i necessari accertamenti e rilievi sulle persone diversi dalla ispezione personale. Se gli accertamenti comportano il prelievo di materiale biologico, si osservano le disposizioni del comma 2 bis dell’articolo 349.

Va evidenziato che, in nessun punto dell’articolo, viene utilizzata la locuzione “sopralluogo giudiziario”, che pure è comunemente adoperata nella pratica quotidiana, trattandosi di un’espressione di origine antica: la prima prova documentata del termine “sopralluogo” risale al 1626, ove il “sopraloco” viene definito come “ispezione di luoghi disposta ed eseguita di persona dall’autorità giudiziaria”.

[17] Si pensi al sopra citato caso del “delitto di Perugia” e della relativa omessa cautela in ordine al “gancetto del reggiseno”.

[18] Per approfondimenti, SALSAROLA Dominic – Cattaneo Cristina, Larcheologia forense, UTET Giuridica, Torino, 2009, pagg. 207-226.

[19] Carl Edward Sagan (1934-1996), astronomo e scrittore americano, fu, tra l’altro, uno dei più entusiasti ed attivi sostenitori dei programmi di ricerca di vita extraterrestre, e benché le missioni Viking (1976) non rinvennero mai prove significative della presenza di attività biologica sul pianeta Marte, egli ritenne che la circostanza di non aver trovato prove non costituisse comunque una prova che escludesse la possibilità di vita extraterrestre: “l’assenza di prove non è prova di assenza”.

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