Al giorno d’oggi, l’Italia può essere identificata come una “melting pot society”, ossia una società caratterizzata dalla commistione eterogenea di gruppi di individui diversificati tra loro per religione, etnia, consuetudini e cultura.
Sin dall’alto Medioevo, in Europa, fonte primaria del diritto era la consuetudine, la ripetizione costante e uniforme nel tempo di un comportamento posto in essere dai singoli soggetti, i quali diventavano così creatori di norme giuridiche che, rispecchiando i bisogni della comunità, erano avvertite come parte integrante della propria cultura.
Alla fine dell’evo antico i popoli germanici invasero le regioni dell’antico impero romano d’occidente, portando un nuovo bagaglio di regole sociali, comportamentali e culturali che costituivano una tradizione consuetudinaria non condivisibile con gli altri popoli: vigeva il cosiddetto principio della personalità del diritto, in virtù del quale non vi era un’unica legge per tutti gli individui che convivevano in un medesimo territorio ma, al contrario, ciascuno di essi era libero di seguire la tradizione consuetudinaria che coincideva con la propria natio.
Dalla commistione di molteplici diversità etniche e culturali, si crearono quindi una varietà di diritti personali vigenti nello stesso territorio.
Alla luce delle antiche tradizioni consuetudinarie, poste in essere dalle popolazioni di diverse etnie stanziate nella medesima regione, appare necessario affrontare un parallelismo con l’attualità del nostro ordinamento giuridico.
L’attuale assodato sviluppo dell’Italia come società multietnica, caratterizzata da una prorompente eterogeneità culturale, intesa anche come espressione del principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della nostra Carta costituzionale, induce ad affrontare il tema controverso dei cosiddetti “reati culturalmente orientati o motivati”.
Il reato culturalmente orientato può essere definito come un comportamento posto in essere da un soggetto appartenente ad un gruppo culturale di minoranza, considerato reato dall’ordinamento giuridico del gruppo culturale di maggioranza.
Tale comportamento, all’interno del gruppo culturale del soggetto agente, è ritenuto accettabile, quindi lecito o persino doveroso, nel gruppo etnico o nel paese di provenienza, risultando così incompatibile con le regole vigenti nel paese in cui ha scelto di vivere.
Il comportamento in esame, in taluni casi, è addirittura incoraggiato dall’etnia di appartenenza, tanto da sfociare anche in reati più gravi relativi alla vita, all’incolumità, all’onore e alla libertà individuale di un soggetto.
Nasce così, inevitabilmente, un contrasto fra le due norme, ossia tra la norma appartenente al gruppo etnico di minoranza, che tollera o addirittura prescrive il comportamento e la norma giuridica appartenente al gruppo etnico di maggioranza, che invece vieta e punisce lo stesso.
Le due norme hanno in comune un solo aspetto: il medesimo destinatario, il soggetto agente.
Santi Romano (1875-1947), nell’influente opera del 1917 “L’ordinamento giuridico”, si rese fautore del concetto di istituzione radicata nella dottrina francese e, nello specifico, nel pensiero di Maurice Hauriou. Romano incrementò, in Italia, la teoria dell’istituzionalismo secondo la quale il fondamento del diritto non risiede nelle norme ma nelle istituzioni, le quali si limiterebbero a regolamentare ciò che è già diritto in quanto accettato e osservato dalla società. Ogni gruppo sociale costituirebbe un ordinamento giuridico.
Romano indicava la “tendenza di una serie grandissima di gruppi sociali a costituirsi ciascuno una cerchia giuridica indipendente” (Romano, 1946).
Corollario dell’istituzionalismo è la tesi della pluralità degli ordinamenti giuridici, riassumibile nella formula “ubi societas ibi ius”.
Secondo il giurista, infatti, “la società occidentale aveva vissuto nel passato l’esperienza delle molteplicità degli ordinamenti e lo stato nato nella recente fase dell’evoluzione storica altro non era che uno dei tanti ordinamenti spontanei conosciuti, diverso dagli altri nelle dimensioni e negli obiettivi, non nella sostanza” (Caravale, 2012).
Santi Romano indicava la “tendenza di una serie grandissima di gruppi sociali a costituirsi ciascuno una cerchia giuridica indipendente”.
Il suo pensiero di sulla pluralità degli ordinamenti richiama alla memoria una pronuncia della Suprema Corte la quale, in relazione alla società multietnica, rifiuta l’ipotesi secondo cui gruppi sociali possano costituirsi ciascuno una cerchia giuridica indipendente.
Più nello specifico la Corte, con la sentenza n. 14960/2015, osserva che in una società multietnica non è concepibile la scomposizione dell’ordinamento in altrettanti statuti individuali quante sono le etnie che la compongono, non essendo compatibile con l’unicità del tessuto sociale – e quindi con l’unicità dell’ordinamento giuridico – l’ipotesi della convivenza in un unico contesto civile di culture tra loro confliggenti.
E soggiunge altresì che, al fine di garantire la stessa sopravvivenza della società multietnica, si impone l’obbligo giuridico, in capo a chi vi si inserisce, di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi e le regole che la reggono e la disciplinano.
In altre parole, va acclarata la liceità di tali condotte rispetto all’ordinamento giuridico che la disciplina, atteso che non è identificabile, né certo ammissibile, una posizione di buona fede in chi, pur nella consapevolezza di essersi trasferito in un paese diverso e in una società in cui convivono culture e costumi differenti dai propri, presume di avere il diritto – peraltro, non riconosciuto da alcuna norma di diritto internazionale – di proseguire in condotte che, seppure ritenute culturalmente accettabili e quindi lecite secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, risultano oggettivamente inammissibili nel contesto socio-giuridico in cui ha prescelto di vivere.
Alla luce di quanto finora esposto, ci si pone un quesito: posto che i principi del diritto penale sono ritenuti inviolabili, una norma o una consuetudine di carattere culturale, politico o religioso contraria al nostro ordinamento, può essere tollerata come scriminante ai sensi dell’articolo 51 del codice penale?
Sul punto, il Supremo Collegio ha ritenuto – sempre con riferimento alla suindicata decisione del 2015 – che, in tali condotte, non è configurabile una scriminante, anche solo putativa, fondata sull’esercizio di un presunto diritto escluso in linea di principio dall’ordinamento e, quindi, neppure l’eccesso colposo nella scriminante stessa.
Nel caso di specie, la condotta del prevenuto era consistita nella sottoposizione della moglie a percosse e maltrattamenti vari inflitti in stato di ubriachezza, e nell’omessa corresponsione dei mezzi di sussistenza necessari al sostentamento della stessa e della prole.
Le scriminanti, o cause di giustificazione, inquadrate nella più vasta categoria delle “cause di esclusione della pena” – previste dagli articoli 50-54 del codice penale – sono particolari situazioni eterogenee previste dalla legge, in presenza delle quali, determinate condotte, che di regola costituiscono reato, non sono considerate tali perché è la stessa legge che le consente o le impone, e trovano il loro fondamento in un bilanciamento di interessi in conflitto e sono volte ad escludere la punibilità.
Pertanto, nei reati culturalmente orientati, l’invocazione delle cause di giustificazione può essere considerata un movente culturale?
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 29613 del 2018, ha ritenuto che il rispetto per le tradizioni culturali, sociali o religiose del cittadino straniero non possa comportare l’abdicazione del sistema penale alla punizione di fatti che colpiscano o mettano in pericolo “i diritti inviolabili dell’uomo e i beni ad essi collegati”, richiamando la cosiddetta teoria dello “sbarramento invalicabile” contro l’attribuzione di una qualsivoglia rilevanza giuridica a qualsiasi prassi o norma di ordinamenti stranieri in contrasto con l’ordinamento nazionale.
In tal modo, ha dunque escluso che una norma o una consuetudine in contrasto con il nostro ordinamento possa essere tollerata come causa di giustificazione o esimente.
In conclusione, la Suprema Corte ha approfondito la tematica dei “reati culturalmente motivati” sancendo gli elementi fondamentali per il loro riconoscimento, attraverso un rigoroso bilanciamento tra i diritti fondamentali posti in contrasto.
Gli elementi identificativi riguardano la natura religiosa o giuridica della norma culturale invocata e il grado di cogenza della stessa; il grado di inserimento dell’immigrato nella cultura e nel tessuto sociale del paese di arrivo e quello di perdurante adesione alla cultura d’origine.
Nel caso in esame, l’imputato di origini albanesi aveva posto in essere reiterati atti sessuali nei confronti del figlio di soli cinque anni. La sentenza impugnata qualificava tali atti come gesti di affetto e di orgoglio paterno, privi di qualsiasi implicazione di carattere sessuale, in quanto corrispondenti a tradizioni tipiche delle zone rurali interne all’Albania. I medesimi atti venivano invece qualificati come “sessuali” dai Giudici di legittimità.
Alcune pronunzie hanno affermato l’irrilevanza del carattere consuetudinario di taluni comportamenti nell’ambito di culture minoritarie, sottolineando come la consuetudine possa assumere efficacia scriminante solo in quanto venga richiamata da una legge, secondo il principio di gerarchia delle fonti di cui all’articolo 8 delle disposizioni preliminari al codice civile (Cass., Sez. III civile, n. 2841/2006).
La tematica dei “reati culturalmente orientati” non è quindi solo una questione relativa all’applicazione del diritto, delle norme, delle scriminanti culturali e di tutto ciò che ne consegue.
Spesso, infatti, ha rilievi aberranti che, come già illustrato precedentemente citando alcune pronunce del Supremo Consesso, coinvolgono la vita, la libertà e la dignità dell’essere umano.
Recentemente, la tematica in questione è stata oggetto di ulteriore disamina da parte della Cassazione con la sentenza n. 30538 del 2021.
Più nello specifico, il caso in esame trattava del cosiddetto “bride price” (prezzo della sposa), cioè la “cessione in matrimonio” di una ragazza minore di sedici anni di etnia Rom, la quale – senza il suo consenso – era stata promessa in sposa dall’imputato – ossia il padre della stessa – ad un uomo, a fronte di un beneficio economico.
Nel percorso logico-giuridico della motivazione, viene esclusa qualsivoglia possibilità di attribuire valenza scriminante alla supposta volontà di aderire alle regole ed alle consuetudini della comunità Rom, atteso che il bene giuridico tutelato dall’articolo 600 del codice penale è la libertà individuale intesa come status libertatis, la cui negazione comporta l’annientamento della stessa personalità dell’individuo.
Viene altresì specificato come la condotta dell’imputato (indubitabilmente tipica) abbia infranto quel nucleo di diritti fondamentali che traccia un limite alla tolleranza nei confronti dei comportamenti culturalmente orientati e motivati.
Secondo parte della dottrina, il problema relativo ai reati culturalmente motivati dovrebbe essere fronteggiato attribuendo rilievo all’elemento soggettivo, in particolare al difetto di consapevolezza inerente al disvalore del fatto da parte dell’autore del reato medesimo, il quale – secondo tale linea interpretativa di carattere dottrinario – non andrebbe condannato, per mancanza dell’elemento soggettivo.
Nel dettaglio, “l’autore culturale può essere cosciente del fatto che il suo comportamento è contrario alla legge penale del sistema di accoglienza, ma non avere la consapevolezza del disvalore della sua condotta, proprio perché egli agisce in base agli imperativi della sua cultura d’origine, che considera la sua azione giusta e non offensiva. In particolare, proprio nel contesto dei fatti culturalmente motivati la coscienza dell’offesa assume un ruolo dominante nel contenuto del dolo. Sembra infatti molto difficile riuscire ad identificare, alla base del fatto doloso dell’autore culturale, un atteggiamento di deliberata contrapposizione verso la società di accoglienza. Il contrasto rispetto al sistema che deriva dal suo comportamento non è infatti il sintomo principale di un’ostilità nei confronti dei valori protetti, ma è spesso l’effetto inevitabile, e comunque collaterale, di un atteggiamento che deriva dalla mancanza di percezione del disvalore della propria condotta” (De Maglie, 2010).
Invero, il soggetto agente deve essere cosciente e consapevole di cagionare un “pregiudizio effettivo o potenziale, ad interessi percepiti nella loro dimensione sociale e non strettamente giuridico penale” (Fiandaca-Musco, 2023).
Si attribuisce quindi all’assenza di consapevolezza del disvalore del fatto, un’autorevolezza tale che l’autore del reato culturalmente orientato e motivato andrebbe assolto per difetto di colpevolezza e, quindi, di dolo.
Difatti, la mancanza di consapevolezza di recare pregiudizio all’interesse tutelato dalla norma incriminatrice, da parte dell’autore del reato appartenente ad un gruppo etnico nella cui cultura il comportamento lesivo è ritenuto lecito o addirittura doveroso, “porta alla soluzione che esclude la colpevolezza dell’autore culturale” (De Maglie, 2010).
Tuttavia, la giurisprudenza si è rivelata restìa nell’accogliere la suindicata tesi dottrinale, giacché escludere la configurazione del reato per mancanza di dolo significherebbe invalidare il principio dell’insindacabilità dell’ignoranza penale ai sensi dell’articolo 5 del codice penale.
Per i reati culturalmente orientati vige il principio dell’irrilevanza della ignorantia juris, quando le condotte oggetto di valutazione si caratterizzano per la palese violazione dei diritti essenziali ed inviolabili della persona, quali affermati e riconosciuti dalla Costituzione, costituendo la base indefettibile dell’ordinamento giuridico italiano e il cardine della regolamentazione concreta dei rapporti interpersonali (Cass., Sezione Pen., n. 12089/2012).
Dunque, lo Stato pretende legittimamente che lo straniero presente nel Paese ospitante si impegni a conoscere e rispettare le vigenti regole e che abbia coscienza del significato della propria condotta affinché possa essere punito non potendo invocare a propria scusa né l’esimente culturale né l’ignoranza della legge penale (Cass., Sezione Pen., n. 24084/2017; Cass., Sezione Pen., n. 12089/2012).
In conclusione, sulla scorta di quanto fin qui esposto, è possibile considerare la multietnicità e il multiculturalismo come peculiarità indiscusse della nostra società che si presentano come due facce della stessa medaglia.
Come ricchezza (di interazioni e scambi culturali) e povertà (di regole condivise); come il “Buono” (la parte sinistra di Medardo, mite e generosa) e il “Gramo” (parte destra di Medardo, oscura e pericolosa) nel “Visconte dimezzato” di Italo Calvino il quale, attraverso il suo noto romanzo, pubblicato nel 1952, opera una brillante similitudine con la vita, quasi come se fosse una mela divisa in due parti: una è chiara e buona, l’altra è oscura e sgradevole.
Bibliografia essenziale
CARAVALE Mario, Storia del diritto nell’Europa moderna e contemporanea, Ottava edizione, Laterza, Roma-Bari, 2012.
DE MAGLIE Cristina, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, ETS, Pisa, 2010.
FIANDACA Giovanni – MUSCO Enzo, Diritto penale, Zanichelli, Bologna, 2023.
ROMANO Santi, L’ordinamento giuridico, Seconda edizione con aggiunte, Sansoni, Firenze, 1946.
Avv. Federica Corso