Talune realtà esistono perché è il diritto che le ha create. Si pensi a molte istituzioni sociali, a cominciare dal concetto di proprietà o a quello ampio e articolato di responsabilità penale.
Il filosofo americano John Roger Searle, nella sua sorprendente ontologia sociale, spiega come senza i “fatti istituzionali” non esista la corrispondente realtà sociale.
Il diritto, in tale logica, costituisce una sostanziale tecnica creativa ma al contempo potenzialmente pericolosa. Sono infatti le norme giuridiche (e sempre più spesso la loro interpretazione da parte degli operatori preposti dall’ordinamento) a rendere possibili o a legittimare realtà e condotte che non necessariamente corrispondono al comune senso di giustizia, equità o bontà.
È pur vero che, oggi, si vive in un’epoca in cui la macchina giuridica presenta spesso difficoltà a funzionare con fluida rispondenza alle situazioni reali, questo a motivo dei costanti cortocircuiti che la società attuale, tecnologizzata e scientificizzata, con il suo dinamismo evolutivo e i suoi mutevoli bisogni, talvolta drammatici, talaltra celerissimi, la sottopone.
Si sono create così, nel tempo, diverse e nuove esigenze, inedite e disparate scuole di pensiero, letture ed interpretazioni non di rado insidiose per talune derive che hanno condotto più o meno lontano dai capisaldi del diritto penale e delle sue rationes, abbracciando in maniera grottesca i principi, erigendoli a faro unico ma non sempre in grado di illuminare le tenebre più fitte.
Si tratta fondamentalmente di dinamiche ermeneutiche, a volte con risvolti sinistri, grotteschi, esito di letture forzate di uno spartito che, anziché produrre una musica armoniosa e ordinata, suscita disdegno, a causa di valutazioni erronee, di un costante abbandono della morale e del buon senso, e della conseguente forzatura del rigorismo e del diritto meramente scientifico.
ChatGPT e, in genere, i mezzi d’Intelligenza Artificiale sono divenuti baluardi di questa accanita scientificità, in un’ottica di un diritto matematico, sterile, alla portata di automatismi tecnici o, ancora peggio, di oscuri adeguamenti.
Si delinea una visione in cui la pervasiva attrazione evocata dall’algoritmo, sempre più imperscrutabile, sembra trovare il suo fondamento nella speranza, più o meno utopica, o forse nell’illusione distopica, che esso costituisca la soluzione tanto agognata ad ogni problema, compreso quello dell’incertezza in ordine alla corretta ed efficace applicazione della norma giuridica.
La futuribile prospettiva che il diritto possa operare come un congegno automatico di matrice tecnologica, alla stregua del noto modello binario-digitale, sembra dischiudere gli orizzonti alla panacea di tutti i mali della giustizia e della regolazione della convivenza civile.
Tuttavia, si rischia l’ingresso in traiettorie pericolose.
Si consideri, sul punto, l’abbandono del nucleo essenziale del diritto penale in favore della tutela del principio “ad ogni costo” – e della conseguente minaccia di tale deriva – rappresentato, in maniera eloquente, nella questione della rilevanza penale delle immagini virtuali nei reati pedopornografici.
Secondo il principio di offensività, un comportamento è penalmente rilevante solo se offende o mette in pericolo un interesse protetto dalla legge.
Tale principio primigenio del diritto penale delinea la perimetrazione del reato e consente di perseguire e punire esclusivamente i fatti che ledano o pongano in pericolo l’integrità di un bene giuridico tutelato dalla fattispecie penale. In definitiva, costituisce principio complementare a quello di materialità, unitamente al quale va a integrare il principio di tipicità.
È stato, più volte, coerentemente rivisitato e precisato dalla Corte Costituzionale che ha espressamente illustrato il principio di offensività declinarsi in due accezioni: offensività in astratto ed offensività in concreto (Sentenze n. 139 del 2023, n. 211 del 2022, n. 278 e n. 141 del 2019, n. 109 del 2016, n. 265 del 2005, n. 263 del 2000 e n. 360 del 1995).
L’offensività “in astratto” sarebbe un argine per il legislatore. Difatti imporrebbe la creazione di norme incriminatrici in armonia con l’estrema ratio del diritto penale, coerentemente con l’articolo 13 della Costituzione, e pertanto detterebbe la produzione di fattispecie penali effettivamente lesive di un bene giuridico che merita la tutela penale.
L’offensività “in concreto” si atteggerebbe a limite (“criterio interpretativo-applicativo“) per il giudice che, nell’irrogare la sanzione, dovrebbe vagliare se, nel caso concreto, sia davvero venuta in essere una offesa al bene giuridico protetto dalla norma, ossia la “riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva” (Sentenza n. 139 del 2023).
Gli articoli 13, 25, 27, 42 della Costituzione conferiscono copertura fondamentale al principio di offensività.
Gli articoli 3 e 27 assicurano tutela al principio di ragionevolezza e proporzione della pena che, posto a tutela dell’autore del reato, fa da contraltare alla valutazione dell’offesa perpetrata.
Sul piano sovranazionale, i detti principi trovano riscontro nell’articolo 3 della C.E.D.U., ove è sancito il divieto di pene inumane e degradanti, e nell’articolo 49.3 della Carta di Nizza, in cui è esplicitamente indicato che “le pene non devono essere sproporzionate rispetto al reato”.
Orbene, l’articolo 600-ter del Codice penale disciplina i reati di pornografia minorile e prevede sanzioni per chiunque “realizza esibizioni o spettacoli pornografici coinvolgendo minori di anni diciotto, o induce minori di anni diciotto a parteciparvi, o produce, offre, cede, distribuisce, diffonde o pubblicizza materiale pornografico, realizzato utilizzando minori degli anni diciotto”.
Oggetto della vexata quaestio è pertanto il concetto di materiale pedopornografico, in quanto, secondo il rigorismo scientifico, quest’ultimo vada inteso in senso stretto, nel rispetto del principio di offensività e dell’interpretazione in bonam partem.
Sul punto, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 36034 del 2008, ha dato una lettura, in un certo qual senso, sinistra della questione controversa, arrivando a ritenere che tale norma non dovesse ricomprendere le ipotesi dove gli atti sessuali rappresentati fossero disegnati o virtuali e non reali.
Questa sentenza è particolarmente preoccupante, soprattutto perché mette in pratica una giurisprudenza fredda e scientifica, troppo attenta al dato tecnico che, in un’ottica di bilanciamento tra principi, trascura l’importanza general-preventiva preminente del diritto penale.
Seguitamente, la Sentenza della Supremo Consesso n. 40166 del 2011 ha confermato l’orientamento per cui le immagini disegnate, anche se raffiguranti scene sessuali con minori, non integravano il reato di cui al prefato articolo 600-ter.
Il punto cruciale è il seguente. La punibilità di un fatto avente ad oggetto pedopornografia prodotta senza l’utilizzo reali di minorenni appare in frizione col principio di offensività, declinato in entrambe le due accezioni.
E ancora più in attrito sembra essere il delitto di pedopornografia virtuale di cui all’articolo 600-quater 1 del Codice penale, ove il materiale pornografico è definito “virtuale” in quanto nessun minore è stato usato per la produzione, essendo le immagini create con tecnologia informatica.
Si sarebbe, concretamente, dinanzi a un reato senza vittima, in cui il detentore del materiale verrebbe punito per le proprie pulsioni interiori, finendo per collocarsi la detta fattispecie nella sfera del diritto penale dell’autore e non del diritto penale del fatto offensivo, intaccando in qualche misura il principio di ragionevolezza e proporzionalità della pena.
Alcuni autori (Venturoli, 2018) tendono, in proposito, a parlare di “reato quale categoria a geometria variabile del diritto”.
Invero, l’offesa costituisce nell’ordinamento penale italiano non solo uno dei fattori causali della reazione punitiva, in adesione all’antico brocardo nullum crimen sine iniuria, per cui non è pensabile punire un individuo per la mera disobbedienza al precetto, occorrendo quale quid pluris l’aspetto della lesione (danno) o la messa in pericolo dell’interesse tutelato.
Necessita ovviamente anche l’individuazione di una soglia di sbarramento alla punibilità e un criterio adeguatore del quantum sanzionatorio al fatto concreto, in modo tale che la dose di pena vada calibrata alla qualità e alla dimensione dell’offesa. In tal senso soccorre il disposto dell’articolo 133 del Codice penale sapientemente rubricato “Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena“.
La Corte di Cassazione, nelle citate pronunce, ha, in particolare, argomentato che la ratio della norma sarebbe quella di una tutela “in concreto” del minore. Pertanto la rappresentazione virtuale non sarebbe rientrata nello scudo protettivo della fattispecie, e anzi ha rilevato che una lettura diversa, avrebbe rappresentato una interpretazione in malam partem e una lesione al principio di offensività, trascurando del tutto, quindi, i pilastri della tutela special-preventiva e general-preventiva, a favore dell’osservanza tout court del canone dell’offensività, tradotta in un’applicazione assolutistica, aprioristica e rigoristica.
La Direttiva 2011/93/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, inerente alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile, è intervenuta sulla questione ampliando la definizione di materiale pedopornografico ed includendo anche le rappresentazioni realistiche di minori, comprese quelle generate al computer o anche esclusivamente disegnate.
La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la decisione n. 51815 del 2018, per incidenter, ha dovuto nuovamente affrontare la questione della rilevanza penale delle immagini pedopornografiche disegnate, alla luce della Direttiva europea, dovendo correggere il tiro della sua precedente sinistra interpretazione
È giunta a sottolineare che la suindicata Direttiva impone agli Stati membri di considerare come reato non solo la produzione di materiale pornografico che coinvolge minori reali, ma anche la creazione di rappresentazioni realistiche di minori, incluse quelle disegnate o generate con mezzi digitali.
La ratio della normativa europea è quella di contrastare in modo più efficace tutte le forme di pedopornografia, riconoscendo che anche le rappresentazioni grafiche e virtuali possono contribuire alla perpetuazione e alla normalizzazione di tali condotte.
Sulla base di tale Direttiva, le Sezioni Unite, in osservanza al basilare principio di prevenzione insito nel nostro ordinamento, hanno stabilito che le immagini disegnate possono configurare il reato di cui all’articolo 600-ter del Codice penale se risultano realistiche e idonee a rappresentare minori in atteggiamenti sessualmente espliciti.
La Corte ha riconosciuto che, sebbene non vi sia un minore reale coinvolto, tali rappresentazioni, ancorché virtuali, possono comunque costituire un’offesa al bene giuridico protetto, in quanto favoriscono la diffusione e il consumo di materiale pedopornografico, riconferendo in tal modo dignità e rispetto alle dimenticate esigenze general-preventive e special-preventive del diritto penale.
Si è colmato così un ipotizzabile deficit di offensività, richiedendo pur sempre che la riproduzione riguardi situazioni realistiche di coinvolgimento di minori in attività sessuali, sebbene i soggetti ritratti siano di fatto inesistenti.
I giudici di legittimità hanno inoltre precisato che la valutazione dell’offensività deve essere esperita caso per caso, considerando il realismo delle immagini e la loro capacità di alimentare il mercato pedopornografico. Non tutte le rappresentazioni disegnate dunque rientrano automaticamente nella fattispecie delittuosa, ma solo quelle che per il loro contenuto e la loro verosimiglianza possano essere percepite come raffigurazioni di minori reali.
La sentenza delle Sezioni Unite rappresenta una svolta significativa, nella misura in cui amplia il campo di applicazione della normativa italiana in materia di reati pedopornografici, ed, allargando l’area di operatività del principio di offensività, conduce a tutelare il bene giuridico protetto, innalzandone la soglia di punibilità e garantendo il perpetuarsi di una cultura della prevenzione.
Tale intervento giurisprudenziale finisce, d’altro canto, per adeguare la legislazione nazionale alle indicazioni della fonte europea, rafforzando la protezione dei minori e riconoscendo l’importanza di contrastare anche le forme indirette di sfruttamento sessuale, come quelle virtuali ossia senza reale coinvolgimento di minori, sebbene l’impatto sociale di queste ultime sia oggettivamente inferiore rispetto alla pedopornografia reale.
La pronuncia in parola ha segnato dunque un cambiamento fondamentale nell’approccio giurisprudenziale italiano riguardo alle immagini pedopornografiche disegnate o virtuali. Tale evoluzione, che è passata prima da una involuzione, riflette un impegno crescente a livello europeo e nazionale per una protezione più ampia ed efficace dei diritti dei minori contro ogni modalità di abuso e strumentalizzazione della sessualità, e corregge l’andamento interpretativo occulto e pericoloso che la giurisprudenza italiana stava iniziando ad attuare.
Appare infine opportuna una riflessione: la tutela scientifica del principio e della norma “ad ogni costo”, talvolta slegata dal sistema dei principi di base dell’ordinamento, rischia di trascurare delle esigenze di maggior rilievo, la cui perdita potrebbe disintegrare la società, e quindi paradossalmente anche il ruolo essenziale del diritto.
Nella narrazione dei fatti giurisprudenziali susseguitisi appare paradossale l’andamento iperbolico della tutela del minore.
Che senso avrebbe avuto offrire una protezione dal reato consumato nella sua sfera più aggressiva, dopo che si fosse totalmente trascurata la tutela del bene giuridico a monte in una logica general- preventiva?
Che senso avrebbe avuto punire un comportamento che sarebbe stato la diretta conseguenza di un’attitudine che non si fosse prevenuta?
Ecco il paradosso del diritto meramente scientifico, in tutte le intuibili e drammatiche conseguenze che ne sarebbero derivate per la realtà sociale.
Avv. Isabella Marcianò, Avv. Luigi Zito
2 risposte
Un argomento molto delicato, trattato con enfasi di dialogo attento, ma alleggerito da uno stile romanzato.. sono questi gli scritti che si amano leggere.
Complimenti agli autori.
L’articolo in esame costituisce un contributo di notevole spessore teorico e pratico al dibattito sulla relazione tra diritto, tecnologia e tutela dei minori. Gli autori, con un approccio rigoroso e puntuale, analizzano una tematica complessa e controversa, quale quella della pedopornografia virtuale, offrendo un’analisi approfondita delle implicazioni giuridiche e sociali connesse. Contributo di grande valore per gli studiosi di diritto penale, i giuristi praticanti e tutti coloro che sono interessati alle implicazioni giuridiche delle nuove tecnologie.
Complimenti agli autori per la profondità e la chiarezza dell’analisi.