Neurotecnologie: cenni sulla dimensione biogiuridica dei “neurodiritti”

È più che mai attuale la critica di Theodor W. Adorno al processo di manipolazione delle menti. La sua è stata rivolta all’opera di appiattimento del pensiero e di omologazione delle coscienze da parte del potere dominante mediante i mezzi di comunicazione di massa (giornali, cinema, tv).

In qualche misura, quella che egli ha definito “industria culturale” somministrerebbe valori in cui credere, modelli di comportamento e schemi di pensiero.

Adorno ha sintetizzato l’uomo occidentale contemporaneo nella figura allegorica dell’Ulisse incatenato che vuole, ad ogni costo, udire il canto delle sirene ma, nel contempo, sceglie di reprimere il richiamo attrattivo della pulsione. Ciò a esprimere che il potere è conoscenza strumentale del reale, per dominarlo, ma non anche godimento.

Nell’odierno, la tecnologia, da un lato, ha soppiantato il dominio dei tradizionali mass media, dall’altro, ne ha implementato funzioni più pervasive (smartphone, web, wireless, moneta elettronica).

I progressi delle neuroscienze e segnatamente delle neurotecnologie se è pur vero che conducono a far progredire, nel senso del benessere, diversi aspetti della vita, per converso comportano inevitabili rischi di natura etica e si pongono come la base per nuove, anche inquietanti, sfide.

Si pensi alle soluzioni tecnologiche attuate dal visionario Elon Musk con Neuralink che, favorendo il potenziamento neurale, persegue forme di terapia efficace contro patologie degenerative o fortemente invalidanti.

Tuttavia, i brain computer interfaces (BCI) ed i deep brain stimulators (DBS) evidenziano un impatto altamente significativo nella dimensione privata.

Oggi, risulta possibile, con livelli sempre crescenti di sviluppo ed efficacia, la trasmissione di segnali cerebrali mediante comandi di output funzionali all’esecuzione di compiti predeterminati, creando un ponte di comunicazione diretta tra cervello e dispositivo esterno. Tale via privilegiata è implementata anche all’inverso, nel senso di introiezione di input dall’esterno.

Si tratta – come detto – di tecnologie utili, in primis, al campo medico, nel trattamento di patologie neurodegenerative, ma anche nei settori della formazione, dell’istruzione, della motivazione (innalzamento della soglia di tolleranza alle difficoltà e di aggressività nei militari), della prestazione atletica (incremento della resistenza alla fatica), dell’intrattenimento (pornografia, gaming).

Tutto ciò vale, senza dubbio, a beneficio dell’utilizzatore. Ma cela, d’altro canto, inconfutabili insidie.

È evidente che soprattutto l’utilizzo, come inserzione mentale, di dati ab extra, pone questioni in termini di cybersecurity, di privacy, di libertà e autodeterminazione cognitiva.

In particolare, l’uso delle neurotecnologie può alterare gli stati della mente, attesa la loro intrinseca capacità di influire sui processi elettrochimici dei neurotrasmettitori che presiedono al funzionamento del cervello.

Tale condizione è dunque potenzialmente in grado di incidere sull’esercizio consapevole dei propri diritti e sulla capacità di intendere e volere. Solo un pieno, libero e cosciente controllo delle facoltà mentali è infatti il fondamento dell’esercizio dei diritti.

L’eterodeterminazione della volontà è, a tutti gli effetti, coazione e va ineludibilmente a spezzare il principio di paternità delle proprie azioni e con esso l’imputazione di qualsivoglia condotta.

A titolo esemplificativo, si rammentino le disposizioni di cui agli articoli 43, 88 e 89 del Codice Penale italiano.

“Nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà” (articolo 43).

L’infermità di mente, disciplinata dagli articoli 88 e 89, esclude o riduce la capacità di intendere o di volere e con essa la imputabilità e la pena.

In tal senso, “qualsiasi condizione morbosa, anche se non ben definita clinicamente, può essere idonea a configurare il vizio di mente, sempre che però, la sua intensità sia tale da escludere o diminuire le capacità intellettive o volitive” (Mantovani).

Naturalmente, benché si parli di patologia, la casistica viene estesa a qualsivoglia stato della mente idoneo a limitare le competenze cognitive.

Sul punto la Suprema Corte ha chiarito, già da tempo, che “i disturbi della personalità possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente ai fini degli artt. 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla stessa; invece, non assumono rilevo ai fini della imputabilità le altre anomalie caratteriali o gli stati emotivi passionali, che non rivestono i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente” (sentenza a Sezioni Unite del 25.01.2005, n. 9163).

È evidente l’indice cui parametrare ogni valutazione: “incisività della capacità di autodeterminazione del soggetto agente”.

Ove i dispositivi neurotecnologici vadano a incidere, senza un congruo consenso informato, su tale capacità, ci si trova al cospetto di situazioni lesive della personalità e della libertà dell’individuo, senza dubbio riduttive o elisive dell’imputabilità delle condotte poste in essere.

La libertà cognitiva si sostanzia, invero, in una pletora di libertà costituzionalmente garantite e in qualche misura afferenti alla stessa natura umana.

Si tratta della libertà di pensiero che si atteggia quale matrice per ogni altra libertà, da quella di espressione a quella di scelta a quella di azione. Ovviamente, tra queste, vi è la stessa libertà di prescegliere l’adozione dei dispositivi neurotecnologici o rifiutarne l’applicazione.

Il diritto alla libertà cognitiva, nella sua accezione negativa, ha l’intento di cautelare la persona dall’uso coercitivo, occulto e non consenziente dell’utilizzo delle neurotecnologie .

Sicché si appalesa sempre più l’urgenza di una adeguata regolamentazione normativa di tale utilizzo.

Tale disciplina, dovrebbe ricomprendere, tra l’altro, l’esatta individuazione dei termini a garanzia di un consenso informato per il fruitore, in ordine alla effettiva conoscenza del funzionamento dei dispositivi, delle loro incidenza e del rapporto tra costi e benefici etici, psichici, sanitari, e ai potenziali rischi per la libertà cognitiva. Ma deve anche concretarsi nella puntuale predisposizione di modalità di vigilanza efficace a livello nazionale e sovranazionale sulla creazione, sullo sviluppo, sulla diffusione e sull’uso dei prefati dispositivi.

La trasmissioni di informazioni dal cervello ai dispositivi di BCI e l’utilizzo del neuroimaging impongono altresì questioni bioetiche e biogiuridiche connesse al tema della lettura degli impulsi elettrici neuronali dati dal cervello e quindi in qualche misura della mente stessa.

Tale lettura consente, in qualche misura, di “vedere” i pensieri con un’accuratezza che è direttamente proporzionale al livello di sviluppo delle tecnologie coinvolte, accedendo a informazioni intimamente personali quali i dati neuronali e la stessa attività neuronale.

Si tratta di dati che potrebbero essere astrattamente carpiti senza la consapevolezza e il consenso del titolare, utilizzabili come dati biometrici univoci cui ricollegare la riconducibilità individuale della singola persona.

È evidente che si profili all’orizzonte l’esigenza giuridica di una nuova forma di tutela della riservatezza che, alcuni autori, definiscono “privacy mentale” (Ienca e Andorno). Di qui la necessità di strutturare, de jure condendo, un adeguato e articolato sistema di protezione dei dati mentali.

In particolare, il diritto alla “privacy mentale” ha precipuamente la finalità di proteggere “le informazioni private o sensibili nella mente di una persona dalla raccolta, archiviazione, utilizzo o addirittura cancellazione non autorizzati” (Ienca e Andorno).

Necessario è tutelare tutte le informazioni prima che si materializzino nell’espressione verbale, paraverbale, scritta, preservandone la radice mentale da cui traggono origine.

Tuttavia, si osserva che l’ingresso alle attività neuronali non costituisce solo un accesso alla “privacy mentale”, ma anche il prodromo per un potenziale impatto sulla capacità di computazione neurale e, in ultima analisi, il presupposto fattuale per procurare danni.

Si pensi ai pericoli correlati al ricorso ad una sorta di procedura di hacking o cracking idonea a manipolare dati e attività neuronali, influenzando in qualche misura la capacità volitiva della persona, la sua memoria, le altre facoltà mentali e la sua stessa integrità psico-fisica.

Breviter, il diritto all’integrità mentale ha la finalità di creare uno scudo difensivo avverso le “intrusioni non autorizzate” (Ienca e Andorno) come ulteriore specificazione della tutela già riconosciuta dalla C.E.D.U., all’articolo 3, ove si legge testualmente: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.

D’altro canto, si tratta in primo luogo di una questione di dignità umana. La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea detta all’articolo 1 che “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”.

All’articolo 3 va a specificare il diritto all’integrità della persona: “1. ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. 2. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: il consenso libero e informato della persona interessata […], il divieto delle pratiche eugenetiche […], il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro […]”.

Orbene, il diritto, senza dubbio, deve approntare concreti meccanismi di tutela e prevenzione dell’integrità mentale sia dai danni di natura transitoria che permanente ed irreversibile, sia in ordine all’incidenza sulle funzioni e per quanto attiene alle strutture, conservandone la configurazione originaria e naturale.

Dal punto di vista eminentemente soggettivo, rileva altresì il concetto di autopercezione della propria identità, denominato diritto alla “continuità psicologica” (Ienca e Andorno) che ogni persona deve poter conservare, nei limiti del normale divenire legato al trascorrere del tempo.

Il diritto alla continuità psicologica ha lo scopo di proteggere “i substrati mentali dell’identità personale da alterazioni inconsce e non consentite da parte di terzi parti attraverso l’uso di neurotecnologie invasive o non invasive” (Ienca e Andorno).

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha elaborato il diritto all’identità personale nella sua giurisprudenza sull’articolo 8 della C.E.D.U.

Il diritto alla “continuità psicologica” mira fondamentalmente a prevenire l’alterazione del funzionamento neurale, non solo l’accesso ai dati cerebrali.

Inoltre, gli autori (Ienca e Andorno) sostengono che gli attuali diritti della personalità non proteggono sufficientemente l’identità perché si concentrano su azioni o espressioni di quell’identità, mentre “la continuità psicologica garantisce una protezione a livello antecedente”.

Un uso inappropriato delle neurotecnologie può senz’altro inficiare tale diritto.

Si pensi, in proposito, ai trattamenti di elettrostimolazione che, in taluni pazienti, costituiscono efficace terapia ma che, a lungo andare, possono cagionare modifiche plastiche o elettrochimiche del cervello in grado di produrre significative alterazioni della personalità, insidiose per la stessa identità personale.

Le neuroscienze, la psichiatria e la psicologia insegnano che è fondamentale, per ciascun essere umano, che percepisca sé stesso in maniera univoca nel corso del tempo, senza scossoni evolutivi istantanei che conducano a avvertirsi come inopinatamente diverso da sé.

La persona che, in esito a siffatti trattamenti, dovesse mutare cospicuamente i propri pattern di comportamento o che arrivasse finanche a autopercepirsi alienato o estraneo da sé, avrebbe subito un’evidente lesione alla propria alla “continuità psicologica” e dunque del diritto all’identità personale. Vi è chi parla in proposito di meccanismi di “brainjacking” (Pycroft ed altri), mediante l’impianto di neurodispositivi, alludendo a una sorta di rapinosa sottrazione del cervello, inteso quale unità e unicità, coerenza e continuità, integrità e singolarità.

Ma vi sono forme più velate e meno invasive, come quelle inerenti alle strategie di marketing in cui la pubblicità è architettata ad hoc per eludere le difese razionali del destinatario e alterarne preferenze o comportamento.

Senza dubbio, la casistica ipotizzabile è ampia e articolata.

Si pensi, ancora, a titolo esemplificativo, alle spinose questioni etico-giuridiche legate alla facoltà dei genitori, quali legali rappresentanti dei figli minori, di applicare procedure di neuroingegneria ai medesimi o, per converso, alla facoltà dei tutori o amministratori di sostegno di opporre un legittimo diniego a neurointerventi clinicamente benefici in favore di pazienti disabili a livello cognitivo.

Naturalmente, il ventaglio di “neurodiritti” – termine coniato, nel 2017, dal professore di Etica dell’Intelligenza Artificiale e delle Neuroscienze Marcello Ienca e dal giurista argentino Roberto Andorno – può essere esteso, individuando ulteriori situazioni degne di rilevanza e tutela giuridica.

Un gruppo di studiosi di neuroscienze della Columbia University, supervisionato dal prof. Rafael Yuste, identifica, oltre ai suindicati diritti alla privacy mentale, continuità psicologica e alla libertà cognitiva, che denomina come “diritto alla privacy mentale e al consenso“, “diritto all’identità personale e al libero arbitrio“, gli ulteriori “diritto alla pari accesso al potenziamento mentale” e “diritto di tutela dagli errori algoritmici” (Yuste ed altri).

L’ultimo, in particolare, ha finalità cautelativa contro i cosiddetti bias cognitivi.

Si tratta di quelle distorsioni e “costrutti derivanti da percezioni errate, automatismi mentali che generano credenze, che inducono a veloci valutazioni e decisioni, che, in ultima analisi, conducono a formare un pensiero che contiene pregiudizi e stereotipie” (Zito).

In concreto, “si tratta travisamenti della realtà che finiscono per influenzare, anche significativamente, i nostri processi mentali, da quello valutativo a quello decisionale” (Zito).

L’inserzione di bias nei processi di elaborazione e sviluppo degli algoritmi finisce per inficiare una lettura obiettiva della realtà.

Per concludere, il dibattito sui “neurodiritti” si appalesa più che mai benefico e si atteggia come indice irrefutabile del mutamento culturale che sta avvendendo, quasi di pari passo, rispetto alla celerità dell’evoluzione scientifica e tecnologica.

Oggi va immaginato il perseguimento di un orizzonte di applicazione delle neurotecnologie che sia connotato dai caratteri dell’equità e della trasparenza. L’utilizzo delle neurotecnologie dovrebbe avere un accesso chiaro e aperto a tutti (il “pari accesso” di Yuste), funzionale a non indurre sperequazioni sociali ed econimiche, soprattutto per quanto attiene alla diffusione biomedica.

Di pari passo, il riconoscimento, in chiave normativa, di nuove accezioni di libertà e correlati diritti umani apre la strada maestra per una salvaguardia efficace della mente umana e per “prevenire il rischio di un’unica dominante prospettiva sul mondo, favorendo, per converso, una visione, scevra da modelli stereotipati e aberrazioni varie, che rappresenti le culture, le strutture valoriali e le identità tutte che liberamente muovono il mondo” (Zito).

I neurodiritti elaborati, ad oggi, dagli studiosi (diritto alla libertà cognitiva, diritto alla privacy mentale, diritto all’integrità mentale, diritto all’identità e continuità psicologica, diritto alla difesa dagli errori algoritmici) possono costituiscono il primo fondamento per edificare architetture normative di tutela quanto più sovranazionali, chiare, estese e condivise, che impongano obblighi ben specifici in capo a sviluppatori, utilizzatori e diffusori dei dispositivi neurotecnologici, e contestualmente realizzino forme di controllo stringente e preventivo che, di certo, non può fare meno anche di una consapevole vigilanza individuale mediante adeguati meccanismi di consenso informato.

Solo in tal modo, la critica di Adorno al processo di manipolazione delle menti – mediante intrusione, nella rilettura adeguata all’attualità – potrebbe essere mitigata dall’equità e dall’efficacia di tutela che unicamente il diritto può garantire.  


Bibliografia essenziale

ADORNO Thedor W., HORKHEIMER Max, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 2010.

MANTOVANI Ferrando, Diritto Penale, Parte generale, VIII Edizione, Cedam, Padova, 2013, pag. 685.

IENCA Marcello, ANDORNO Roberto, Towards new human rights in the age of neuroscience and neurotecnology, Life Sciences Society and Policy (ISSN: 2195-7819), n. 13/2017.

PYCROFT Laurie, BOCCARDO Sandra G., OWEN Sarah L., STEIN John F., FITZGERALD James J., GREEN Alexander L., AZIZ Tipu Z., Brainjacking: Implant Security Issues in Invasive Neuromodulation, World Neurosurgery (ISSN: 1878-8750), 2016.

YUSTE Rafael, GOERING Sara, BI Guoqiang., CARMENA José M., CARTER Adrian, FINS Joseph J., FRIESEN Phoebe, GALLANT Jack, HUGGINS Jane E., ILLES Judy, “Four ethical priorities for neurotechnologies and AI”, Nature News (ISSN: 1476-4687), 2017, pagg. 159-163.

ZITO Luigi, “Intelligenza artificiale, bias cognitivi e discriminazione. Premesse e prospettive sull’Intelligenza Artificiale (IA) alla luce delle criticità del sistema degli algoritmi e dei relativi rimedi tecnici e giuridici“, Altalex – Quotidiano di informazione giuridica (ISSN: 1720-7886), 2024.

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