In materia di calunnia, la condanna del calunniatore è strettamente collegata alla prova dell’innocenza della persona che da questo è stata infamata: il risultato è che (quasi) sempre chi ha mentito si salva con
la prescrizione.
Prima di passare ad analizzare nello specifico la prescrizione del reato di calunnia e tutte le conseguenze che ne derivano per il calunniato, è bene esaminare la fattispecie criminosa.
Il reato di calunnia è disciplinato dall’articolo 368 del Codice Penale e trova la sua ratio legis nell’esigenza di evitare che siano instaurati processi penali contro soggetti innocenti.
Inoltre, taluni autori ritengono che debba aggiungersi anche l’interesse del soggetto falsamente incolpato.
Nel delitto de quo, si possono distinguere due tipi di condotta: la calunnia formale, e la calunnia reale.
La prima si concretizza quando la falsa affermazione che sia stato commesso un reato da parte del soggetto passivo è contenuta in una denuncia, querela, richiesta o istanza indirizzata all’autorità giudiziaria.
La consumazione, in questo caso, coincide col momento in cui l’autorità riceve l’informazione di reato.
La calunnia reale, è invece integrata allorquando si simulino le tracce di un reato, creando indizi materiali circa la commissione di un fatto, penalmente rilevante, mai avvenuto, indirizzando l’autorità giudiziaria verso un soggetto determinato. La consumazione, in tale caso, coincide col momento in cui l’autorità acquisisce le tracce simulate.
Il delitto oggetto d’esame è procedibile d’ufficio, senza il vincolo del termine di cui all’articolo 124 del Codice Penale, per cui la persona offesa può rimettersi all’iniziativa della Procura competente o presentare un esposto/denuncia.
In relazione alla consumazione del reato, è importante sottolineare come la prescrizione dello stesso maturi nel termine massimo di anni sette e mezzo, considerato il massimo della pena edittale, e come decorra dal giorno in cui sia stata proposta la querela ritenuta poi calunniosa.
Ed è proprio in merito a tale ultima circostanza che si pone il problema della reale tutela dell’innocente calunniato. A tal proposito, infatti, per far sì che il calunniatore venga condannato è necessario prima provare l’innocenza della persona calunniata, con sentenza passata in giudicato.
Il risultato è che (quasi) sempre chi ha mentito si viene a salvarsi con la prescrizione e chi è stato ingiustamente accusato si ritrova nella condizione di non potersi tutelare.
In tal senso, un importante intervento, critico, è stato operato dalla Suprema Corte, sesta sezione penale, con la sentenza n. 44261 del 2013.
Con tale pronuncia, gli Ermellini respingevano il ricorso di un padre ingiustamente accusato di violenza sessuale dalla figlia, strumentalizzata a scopo vendicativo dalla ex moglie.
Costei, insieme al convivente, avevano teso una vera e propria trappola giuridica al ricorrente, denunciandolo per un’aggressione a sfondo sessuale nei confronti della ragazza che, benché minorenne all’epoca dei fatti, era stata indotta ad avallare la tesi dei due complici, desiderosi di far pagare all’uomo i precedenti rapporti burrascosi.
Per ottenere il proscioglimento, l’uomo impiegava otto anni, dopo aver subìto anche il danno e lo smacco misura della custodia cautelare.
Ovviamente, solo in seguito, il Pubblico Ministero esercitava l’azione penale contro i calunniatori, per un reato oramai non più perseguibile in quanto estinto per prescrizione.
I giudici di Piazza Cavour, dinanzi alla richiesta di far rientrare il caso dell’uomo nell’egida di cui all’articolo 159 del Codice Penale, che elenca le ipotesi in cui si può fermare l’orologio della prescrizione, si trovarono costretti a dover respingere la richiesta.
In particolare essi ribadirono che la disciplina della prescrizione, andando ad incidere sull’efficacia nel tempo della norma penale sostanziale, è soggetta all’osservanza del principio di stretta legalità, sottolineando come, nel comma uno del richiamato articolo, non potesse farsi rientrare anche la necessità di risolvere il dubbio sull’innocenza, o meno, della parte in causa, non essendovi esperessamente indicato.
L’approccio dei giudici della Cassazione, nei confronti del caso, come detto, fu senz’altro critico, tanto da richiamare l’attenzione del legislatore, ammettendo che: “il collegio decidente non disconosce che il caso in esame mostri il possibile verificarsi di concrete incongruenze in punto di efficacia di perseguibilità degli autori di un reato di calunnia”.
Breviter, la Suprema Corte si vide costretta a respingere una richiesta che formalmente non regge a livello giuridico, pur dichiarandosi consapevole del problema sostanziale al punto da invocare l’intervento del legislatore.
Ci si chiede, pertanto – quesito posto anche dalla Corte di nomofilachia, vista l’alta percentuale di verificarsi della prescrizione – se sia corretto considerare in sette anni e mezzo il termine di prescrizione del reato di calunnia, facendolo decorrere dal giorno in cui sia stata proposta la querela ritenuta, poi, calunniosa invocando, ancora una volta, l’intervento del legislatore affinché si possa ovviare ad una palese adoriamo del sistema che si traduce di fatto in un’ingiustizia e nella violazione dell’articolo 27 della Costituzione.
Le possibili soluzioni sarebbero molteplici.
In primis, individuare il dies a quo del termine di prescrizione dal momento in cui la sentenza di assoluzione passi in giudicato.
In secondo luogo, invece, si potrebbe far rientrare, tra le ipotesi disciplinate al comma uno dell’articolo 159 del Codice Penale, che, come innanzi detto, detta i casi tassativi di sospensione del corso della
prescrizione, anche la necessità di risolvere il dubbio sull’innocenza, o meno, della parte in causa.
Infine, e in via residuale, sancire un termine di prescrizione, per il reato in esame, molto più lungo di quello oggi previsto, pari, nel massimo, di sette anni e mezzo, comprensivo delle eventuali interruzioni.
In questo modo, l’innocente, ingiustamente accusato, avrà la possibilità di vedere tutelato il suo buon diritto con la condanna del calunniatore.
In conclusione, giova precisare come dall’intervento critico operato dalla Cassazione, con la sentenza innanzi citata, siano trascorsi, inutilmente, oltre undici anni senza che il legislatore sia intervenuto al fine di porre rimedio alla prospettata problematica, lasciando un vuoto normativo che, nella maggior parte dei casi, rende vana la tutela prevista dal reato di calunnia.