Sommario
Premessa
Attualmente, la comunità internazionale si trova ad affrontare due situazioni di estrema gravità, in Palestina e in Sudan, dove si assiste a gravi violazioni dei diritti umani e a cruenti conflitti armati.
Nello specifico, la violenza e le tensioni tra Israele e Palestina si sono intensificate a seguito delle controversie riguardanti l’annessione di territori e la questione degli insediamenti illegali.
Le restrizioni sui movimenti e sulle libertà civili dei palestinesi, unitamente agli attacchi militari israeliani sui civili e agli scontri tra Hamas e le forze di sicurezza israeliane, stanno provocando una grave crisi umanitaria nella regione. La comunità internazionale ha espresso profonda preoccupazione per la situazione e ha chiesto un’immediata cessazione dell’uso della forza e il rispetto dei diritti umani di tutte le persone coinvolte.
Nel Sudan, la situazione è altrettanto critica a causa dei conflitti armati in corso tra il governo e i ribelli in diverse regioni del paese. Le continue violenze, i massacri di civili e le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno, creando una situazione di grande sofferenza e instabilità.
La comunità internazionale ha chiesto, anche in questo caso, un immediato cessate il fuoco e un coinvolgimento attivo per cercare una soluzione politica e pacifica al conflitto.
Genesi e analisi dei conflitti
L’instabilità a fondamento dei due conflitti parte da lontano.
In ordine alla questine israelo-palestinese, si tralascia, in tale sede, l’analisi storiografica antecedente alla prima guerra mondiale, in esito alla quale la sconfitta ottomana conduce all’istituzione del controllo britannico sulla Palestina, ufficializzato nel 1920.
Verso la fine del 1947, scoppia un conflitto tra le milizie dello Yishuv (la comunità ebraica abitante in Palestina) e le milizie arabe palestinesi autoctone.
L’ONU, ai fini della pace, valuta due soluzioni.
La prima è la creazione di uno Stato ebraico e di uno Stato arabo indipendenti, con la città di Gerusalemme posta sotto controllo internazionale
La seconda, denominata Risoluzione 181, consiste nella creazione di un unico Stato, di tipo federale, che ricomprende sia lo Stato ebraico che quello arabo.
Adottata il 29 novembre 1947, la detta risoluzione, anziché preparare la pace, diventa la premessa di guerra. Ecco i fatti.
Il 14 maggio del 1948, viene dichiarata l’indipendenza dello stato di Israele con l’abbandono delle truppe britanniche dai territori.
La maggioranza degli arabi in Palestina e la totalità degli Stati arabi già indipendenti rigettano il Piano ONU. Da principio essi rifiutano tout court qualsiasi divisione della Palestina mandataria, e reclamano il paese intero. Poi, in reazione alla dichiarazione d’indipendenza di Israele, una coalizione araba, composta da Egitto, Transgiordania, Siria e Iraq, entra in Palestina per affrontare le truppe israeliane, innescando la guerra arabo-israeliana del 1948.
La vittoria israeliana conduce al definitivo insediamento dello Stato di Israele, all’occupazione della Cisgiordania e Gerusalemme Est da parte della Transgiordania, e della striscia di Gaza da parte dell’Egitto, nonché alla diaspora di quasi un milione di civili palestinesi verso i campi profughi in tutto il Medio Oriente.
In breve, lo stato arabo di Palestina, previsto nella risoluzione 181 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, non si realizza.
Altri conflitti, si susseguono nel 1967, nel 1973, nel periodo 1987-1993, nel 2000, fino al mattino del 7 ottobre 2023, quando Hamas, gruppo palestinese politico e paramilitare, dà inizio all’operazione “Alluvione al-Aqsa” con lo scopo di porre termine alle asserite “violazioni israeliane“, ossia a ciò che, per i palestinesi, è “la profanazione dei luoghi santi a Gerusalemme” e il costante rifiuto da parte di Israele di liberare i prigionieri palestinesi.
Hamas attacca Israele con missili sulle città nel Sud e nel centro del Paese, ed infiltrando terroristi nel territorio. La risposta militare di Israele è veemente ed è ancora sotto gli occhi di tutto.
Per quanto concerne il conflitto in Sudan, bisogna anadre indietro nel tempo.
La prima guerra civile sudanese risale alla proclamazione d’indipendenza del Sudan dal Regno Unito nel 1956, perché la maggioranza nord-sudanese esclude la minoranza del sud dal processo di formazione del nuovo Stato.
Per effetto della “guerra fredda”, durante il primo conflitto, il Sudan diventa luogo di disputa tra USA e URSS che infine conduce ad un accordo che riconosce, nello stesso Stato, due strutture di governo, l’una islamista l’altro laico.
La seconda guerra civile (1983-2005), soprattutto a seguito della caduta del muro di Berlino (1989), non presenta le divisioni ideologiche tipiche della geopolitica bipolare delle due superpotenze.
Nel 2005, in esito ad una laboriosa ed articolata opera di mediazione, si addiviene ad un accordo di pace che sancisce l’inizio della Missione delle Nazioni Unite in Sudan (UNMIS) con la finalità duplice di vigilare sul rispetto del proclamato “cessate il fuoco” e sul processo di separazione, previo referendum, del Sudan.
Tuttavia, il permanere di una grande instabilità, conduce il Consiglio di Sicurezza dell’ONU a instaurare la nuova Missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan (UNMISS).
La ricchezza di materie prime diventa motivo per avviare cospicue relazioni commerciali con la Cina che investe nell’estrazione petrolifera in luogo delle tradizionali compagnie occidentali. Pechino promuove, in misura importante, il processo di formazione della nuova geografia politica di pace formale tra Nord e Sud Sudan, attraverso l’UNMISS.
Nel 2012, scoppia la guerra civile sud sudanese. L’UNMISS mostra tutti i suoi limiti nella gestione della pace, nella promozione della stabilità interna e nella prevenzione dei conflitti.
Invero, l’interesse per il petrolio, la scarsa importanza del Sud Sudan nello scenario africano, le fragili alleanze regionali e i vari conflitti per procura, sono i motivi per cui la comunità internazionale non riesce mai, in maniera efficace e duratura, a prevenire l’uso della forza e la conseguente violazione dei diritti umani.
Inoltre, la perenne belligeranza innesca, nella regione, un ineludibile processo di proliferazione delle armi e dei “signori della guerra“, accrescendo gli ostacoli al conseguimento della pace.
Il 15 aprile del 2023, scoppia l’attuale conflitto armato in Sudan tra le Forze armate sudanesi (Fas) e le Forze di supporto rapido (Fsr), dopo mesi di tensione tra i due gruppi a causa della possibile riforma delle forze di sicurezza, proposta tra i punti oggetto di negoziati per un nuovo governo di transizione.
Il conflitto ha causato e tuttora causa sofferenze di massa nella popolazione civile e distruzioni su vasta scala. Gli scontri sono iniziati nella capitale Khartoum e si sono rapidamente estesi in altre aree del Sudan, tra le quali il già martoriato Darfur.
In data 4 dicembre 2023, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU pone fine anche alla Missione Integrata di assistenza Transitoria delle Nazioni Unite in Sudan (UNITAMS), istituita nel 2020 per sostenere la transizione politica verso la democrazia e risultata poco efficace.
Frattanto, la guerra sta provocando distruzione, perdite di vite umane e violenze estese, aggravando la perdurante crisi umanitaria.
In sintesi, si rileva dunque, da un alto, la situazione in Palestina, caratterizzata da una lunga storia di occupazione militare, discriminazione e violenze perpetrate contro la popolazione locale, con conseguenze disastrose per la vita di milioni di persone.
Dall’altro lato, in Sudan, si riscontra, in esito a un quasi secolare susseguirsi di lotte interne, l’attuale sanguinoso conflitto tra Fas e Fsr che ha già causato un elevato numero di vittime e ha costretto milioni di persone a fuggire dalle proprie case, creando una situazione umanitaria disastrosa. In particolare, i bambini e le bambine sono tra i più colpiti da questa crisi, con milioni di loro che hanno urgente bisogno di assistenza.
Le violazioni dei diritti umani e i conflitti armati in Palestina e Sudan richiedono una risposta urgente e un’azione coordinata da parte della comunità internazionale per proteggere le popolazioni coinvolte e garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali.
In entrambi i casi, si assiste a gravi violazioni dei diritti umani e all’uso indiscriminato, anche mediante l’utilizzo di armi proibite, la violenza sessuale e di genere, il reclutamento di minori e l’attacco alle infrastrutture civili.
Analizzando le dinamiche relative alle due situazioni, dal punto di vista giuridico, sia le violazioni dei diritti umani sia l’uso della forza armata rappresentano una grave violazione del diritto internazionale umanitario e delle norme che regolano il comportamento delle parti coinvolte nei conflitti armati.
Il più importante strumento di protezione dei diritti umani a livello globale è la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (DUDU), adottata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
È così estesamente accettata che, nonostante l’iniziale non obbligatorietà, adesso viene considerata come legalmente vincolante sulla base del diritto internazionale consuetudinario. È lo strumento di riferimento nell’ambito dei diritti umani, da cui hanno tratto ispirazione decine di strumenti internazionali e regionali, e centinaia di costituzioni nazionali e altre legislazioni.
I successivi Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP) e Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (PIDESC), entrati in vigore nel 1976, costituiscono i principali strumenti giuridicamente vincolanti applicati in tutto il mondo. Essi sono stati elaborati al fine di ampliare i diritti descritti nella DUDU, e per dar loro una forza giuridica (all’interno del trattato). Insieme alla DUDU e ai rispettivi Protocolli Opzionali, formano la Carta Internazionale dei Diritti.
A seguito della Carta Internazionale dei Diritti, l’ONU ha adottato ulteriori sette trattati che tutelano diritti specifici e beneficiari particolari.
In ordine al generale divieto dell’uso della forza, vige l’art. 2 par. 4 della Carta delle Nazioni Unite.
Si tratta di una norma fondamentale del sistema la cui importanza è unanimemente sottolineata. Essa vieta non solo l’uso della forza, ma anche la minaccia di tale uso. Il nucleo centrale della disposizione è comunque il divieto di uso della forza contro l’integrità territoriale di uno Stato o la sua indipendenza.
Nessun dubbio che un’azione militare, o addirittura una guerra, contro l’integrità territoriale e l’autonomia di governo di uno Stato straniero costituisca un illecito internazionale condannato dalla norma e dall’intero sistema della Carta.
Tale tipologia di illecito è inoltre considerata come particolarmente grave tanto da meritare una qualifica ed un trattamento speciale nell’ambito del regime internazionale della responsabilità degli Stati.
Il carattere fondamentale del divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali non in conformità con la Carta è stato consacrato nella nota sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 27 giugno del 1986 affermativa che il principio di cui all’art. 2 par. 4 rappresenta ormai un principio di diritto internazionale consuetudinario generale.
È qui appena il caso di ricordare come gli obblighi derivanti dalla Carta, in virtù del principio fissato nell’art. 103 della Carta stessa, prevalgono su tutti i diversi obblighi imposti da altri trattati internazionali. La norma di cui all’art. 2 par. 4 rappresenta dunque un vero e proprio diritto internazionale inderogabile (ius cogens).
Orbene, sia nel Sudan che in Palestina, si è al cospetto si situazioni ibride.
In Palestina, vi è una reazione armata da parte di Israele all’attacco di Hamas che non è uno stato ma un gruppo paramilitare stanziato in un territorio, abitato da arabi ed ebrei. In Sudan vi è sostanzialmente una guerra civile.
In ogni caso, anche a non considerare, nei due casi, la sussistenza in senso formale dell’uso della forza, nelle loro relazioni internazionali, tra due stati diversi, la presenza di conflitti armati costuituisce non di meno una minaccia alla pace della regione e come tale in esperessa violazione dell’art. 2 par. 4 della Carta ONU.
Senza dubbio, vi sono interessi geopolitici e economici che influenzano il corso degli eventi e complicano l’iter per il perseguimento di una soluzione pacifica.
In aggiunta, sia in Palestina che in Sudan, la mancanza di una risoluzione politica effiacce e duratura aggrava ulteriormente la situazione e impedisce una stabilizzazione delle Regioni interessate.
Tuttavia, sono rinvenibili anche punti non comuni nei due conflitti.
Precipuamente, la questione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese è un connotato peculiare del conflitto in Palestina.
In Sudan si assiste, invece, a un conflitto interno che coinvolge diverse fazioni e gruppi etnici.
Inoltre, la presenza di organizzazioni terroristiche in Palestina rappresenta una sfida aggiuntiva per la risoluzione del conflitto, mentre in Sudan si è assistito a una transizione politica che potrebbe offrire delle opportunità per una soluzione pacifica.
Conclusioni
In ordine alle potenziali soluzioni comuni ai due conflitti, è fondamentale garantire in primis il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario da tutte le parti coinvolte.
È poi necessario promuovere il dialogo e la negoziazione come strumenti per risolvere le controversie e raggiungere una pace sostenibile.
Incentivare la cooperazione regionale e internazionale per affrontare le cause profonde dei conflitti e fornire assistenza umanitaria alle popolazioni colpite sono ulteriori passi necessari per raggiungere una soluzione duratura.
Tuttavia, vi sono anche soluzioni non comuni ai due conflitti che potrebbero essere considerate.
L’ONU potrebbe integrare le sue operazioni di peacekeeping in modo da garantire una maggiore protezione alle popolazioni civili e monitorare il rispetto del diritto internazionale umanitario.
Potrebbero essere irrogate sanzioni economiche e politiche nei confronti delle parti in conflitto che violino in modo sistematico i diritti umani, al fine di incentivare un cambiamento di comportamento e favorire il raggiungimento di una soluzione pacifica.
Concludendo, la situazione in Palestina e il conflitto in Sudan sono due realtà complesse e drammatiche che richiedono un impegno costante da parte della comunità internazionale per trovare una soluzione pacifica e garantire il rispetto dei diritti umani.
È fondamentale che venga posta al centro delle discussioni la necessità di proteggere le popolazioni civili e trovare soluzioni politiche e diplomatiche che possano porre fine a decenni di violenze e sofferenze.
Emergono, in tutta la loro criticità, l’inefficacia e le difficoltà che incontra l’ONU nel gestire e risolvere le crisi che si manifestano nel mondo con crescente frequenza: risolvere le crisi è fondamentale per prevenire i conflitti armati. Tale è la funzione primaria delle Nazioni Unite.
Tuttavia, l’incapacità di risolvere le tensioni e le guerre pone in dubbio non solo l’operato nel singolo caso, ma l’intero sistema.
Vista l’inefficacia delle missioni e delle risoluzioni ONU, de jure condendo, si appalesa sempre più l’urgenza per una riforma strutturale e funzionale dell’Organizzazione.
La vera sfida, per la comunità internazionale, è multiforme e totale.
Va adeguato il mandato alle esigenze e alla realtà del mondo attuale, alle attese e alla tutela dei civili.
Vanno rivisti i sistemi di voto, compreso il meccanismo di veto dei membri pemanenti, spesso paralizzante.
Vanno rimodulate l’organizzazione del personale e le capacità operative e di intervento delle Nazioni Unite nel suo complesso.
Va creata una vera forza di interposizione internazionale che possa intervenire sul campo per prevenire la frizione tra le parti in conflitto.
Vanno eleborate e implementate misure efficaci per dissuadere o persuadere gli Stati del mondo a rispettare le decisioni dell’ONU, soprattutto quelle finalizzate a promuovere gli aiuti umanitari o a interdire l’uso della forza.
Va svolta una politica globale di prevenzione, coinvolgendo sempre più le popolazioni civili e le attività economiche presenti sui territori, e mediando ove si inneschino tensioni o applicando misure idonee a prevenirne l’escalation.