Corpo e biodiritto: verso una nuova antropologia?

Premessa

Senza l’irruzione delle biotecnologie, la storia dello statuto dell’uomo nel diritto civile sarebbe stata quella della censura del suo corpo” scrive lo storico del diritto e antropologo Jean-Pierre Baud, ne Il caso della mano rubata: una storia giuridica del corpo.

Il saggio, con le sembianze di un romanzo thriller, narra la vicenda emblematica di un uomo a cui, un vicino di casa, ha rubato la mano.

L’uomo, durante l’esecuzione di un lavoro domestico, si amputa accidentalmente la mano, e benché un familiare prontamente provveda a riporla nel ghiaccio, il vicino, per vendetta legata a pregressi screzi, riesce a sottrarla ed a lanciarla via, rendendone di fatto impossibile il reimpianto.

È inevitabile, per un giurista che si trovi al cospetto della storia, tentare di prospettare se e quale capo di accusa vada imputato al vicino e quale sia lo status giuridico della mano non più fisicamente attaccata al corpo.

Il contesto in cui è l’opera è pubblicata è il seguente: siamo nel 1993, ed in Francia si sostiene che “il corpo sia la persona”. Nel 1994, il Legislatore francese, in virtù dei sorprendenti progressi della biotecnologia, nella riforma al Code Civil, inizia a concepire il corpo come distinto dalla persona. E allora cosa è giuridicamente ipotizzabile in ordine al caso della mano rubata?

La mano, prima dell’incidente, è parte del corpo, e dopo diviene una res?

Se diviene una res, di quale categoria trattasi? Se è un bene di proprietà dell’infortunato, saremmo di fronte ad un reato di furto?

Se invece è una res nullius, la cui proprietà è acquisibile a titolo originario da chi ne entri in possesso, il vicino non sarebbe imputabile avendo disposto di un bene ormai di sua proprietà?

Il vicino potrebbe, per altro verso, essere accusato di mutilazione, avendo precluso il reimpianto col lancio della mano contribuendo a rendere l’uomo definitivamente mutilato?

Il corpo, in re ipsa, è anche un oggetto? E le sue parti?

Numerosi simili interrogativi è possibile porsi.

Jean-Pierre Baud ci ricorda come l’ideazione del concetto di persona, nell’accezione giuridica e nell’utilizzo da parte dei giuristi, costituisca un artefatto che serve a identificare e rappresentare l’uomo e, in quelche misura, sortisca, nel contempo, l’effetto di censurare il corpo umano.

Questa visione funziona alla perfezione sino alla metà del XIX secolo: difatti, nelle argomentazioni giuridiche, l’astrazione della persona occupa il posto della materialità del corpo che si giova, solo di riflesso, della tutela accordata dal diritto alla persona. Sul termine degli anni quaranta dell’ottocento, si assiste a una scoperta che ha dell’incredibile, per le conoscenze del tempo: può mantenersi in vita qualcosa di umano anche al di fuori del corpo e, soprattutto, si può sia re-inserirlo nel corpo a cui appartiene, sia immetterlo in un corpo altrui. Si tratta del sangue e dei processi di emoconservazione messi a punto illo tempore. Ebbene, Baud considera tale fatto una veemente scossa che muterà per sempre la prospettiva del corpo.

Le nuove scoperte delle biotecnologie degli ultimi decenni mettono ulteriormente in discussione la tradizionale visione – in ordine alle cose e alle persone – che ha dominato la scena giuridica occidentale, dal diritto romano in poi.

Dal censura alla centralità del corpo

Nella società odierna, i concetti di persona e di corpo, tendono a oscillare come pendoli tra disparate definizioni e maniere di concepire e di sentire. Vi sono corpi che ancora non sono persone; persone di cui è rimasto soltanto il corpo; forme di accanimento su corpi vivi ma non più vitali; stati corporei di irreversibilità che ancora non sono morte; scambi e alienazioni di parti del corpo; uso di corpi o funzioni corporee altrui; corpi modificati, fino all’estremo, rispetto alla naturale configurazione.

Ed altro ancora, come il corpo “potenziato” (Rodotà) che viene proiettato nel futuro grazie a banche che ne custodiscono parti o prodotti (cellule staminali, tessuti, sangue, gameti) per un utilizzo futuribile, o che viene crioconservato nella sua integralità (ibernazione). Non finisce qui, le attuali relazioni sociali non sono più necessariamente connotate solo dalla fisicità ma anche dal cosiddetto “corpo elettronico” (Rodotà) che ricomprende sia l’insieme dei dati personali sia il sistema informativo in cui si colloca la persona.

Tutto ciò induce a dover ridisegnare i confini del corpo umano e della persona e, in conseguenza, a rideterminare i diversi modi di percepirli e viverli.

Il corpo umano sta gradualmente ponendosi al centro del dibattito giuridico, dal momento in cui le leggi della scienza, della tecnologia biomedica e dell’informatica stanno progredendo con grande celerità, superando e, in qualche misura, sovvertendo le stesse leggi della natura.

Oggi si parla di bioetica e con tale termine, il cui conio è riferibile a Van Potter nel suo Bioetica ponte verso il futuro (1971), si intende la disciplina, epistemologicamente autonoma, che afferisce a quella parte dell’etica che tenta di giustificare i confini tra lecito e illecito, in ordine alla vita umana, al cospetto delle nuove possibilità di intervento tecnico prospettate dallo stato di avanzamento della conoscenza scientifica pura e di quella applicata (tecnologia). 

In stretta attinenza con la bioetica, si pone il biodiritto, che regola le relazioni tra limiti e possibilità della vita umana, per effetto delle recenti pratiche dovute appunto al progresso tecnico-scientifico, e che, in qualche misura, è tenuto ad arginare il dominio della tecno-scienza e la sua connaturata visione nichilista e materialista.

Per converso, alcuni autori (Severino) ritengono che scienza e tecnica siano autoreferenziali e che il diritto pertanto non abbia la capacità di limitarne l’espansione. In un’ottica liberale e, se vogliamo, neutrale, per tali giuristi, il diritto deve essere “leggero” e “minimale”, limitandosi a rilevare le istanze sociali pluralistiche della prassi, in modo dinamico e flessibile, ed elaborando dunque norme aperte, destinate ad essere riformulate, adattate, interpretate, plasmate su misura rispetto alle fattispecie concrete, finanche disapplicate ed eliminate all’occorrenza.

Altri autori (Nielsen), sostengono soluzioni più estreme affermando che, in bioetica, debba propendersi per il cosiddetto “spazio libero dal diritto”, partendo dal presupposto che il pluralismo etico contenga, di per sé, posizioni inevitabilmente inconciliabili e quindi debba necessariamente lasciarsi uno spazio, incondizionato e svincolato, al di là del legittimo o meno, all’autodeterminazione individuale, l’unica in grado di decidere cosa sia “bene” o “male” per la persona.

Probabilmente la posizione più accoglibile, contemperante ed equilibrata resta quella di chi (Rodotà) propende per un diritto “mite” ma preordinato alla tutela della dignità della persona, quale limite invalicabile tra natura ed artificio.

Conforme e significativo si appalesa quanto dichiarato nel preambolo della Convenzione sulla protezione dei diritti dell’uomo e la biomedicina, sottoscritta ad Oviedo il 4 aprile 1997 – uno dei primi e più rappresentativi testi normativi biogiuridici –  che, per effetto, “dei rapidi sviluppi della biologia e della medicina”, evidenzia “la necessità di rispettare l’essere umano sia come individuo che nella sua appartenenza alla specie umana”, riconoscendone, in tal senso, l’inalienabile e l’inviolabile dignità.

Partendo da tale postulato, la natura umana e la sua intrinseca dignità non possono non rilevare eticamente per il diritto che non deve ridursi a mera tecnica neutrale di organizzazione e convivenza sociale, ma deve contemperare interesse della scienza e riconoscimento del bene umano fondamentale.

Qui tuttavia si pone il primo problema. Il diritto è lento e il progresso scientifico e tecnologico sempre più veloce. La produzione normativa è graduale e procedurale, mentre l’odierna evoluzione sociale molto celere.

Pertanto il giurista è chiamato a colmare il gap fisiologico determinato dall’asincronia tra la lentezza e le rigidità del legal process e l’inarrestabile rapidità dei progressi tecnico-scientifici.

L’approccio giuridico ai fatti della vita, incluse le numerose vicende del corpo, risulta bombardato dai cambiamenti repentini, al punto che alcune fondamentali categorie come il concetto di persona, quello di autonomia individuale, il rapporto delle azioni umane nei contesti del tempo e dello spazio, risultano interessate da un “effetto di spiazzamento e di riformulazione” (D’Aloia) che reclama un diritto nuovo.

Utilizzare gli attuali istituti giuridici, interpretandoli in senso più adeguato alla realtà, diviene una sfida senza precedenti. Anche il diritto romano ha conosciuto fasi di sfasamento tra il rigido jus civile e la realtà nuova dovuta all’evoluzione dei commerci e delle relazioni con gli stranieri che hanno portato alla nascita dell’elastico, flessibile, celere jus honorarium del praetor peregrinus che, in una Roma in forte espansione, fa leva sui concetti di aequitas e buona fede come principi informatori del sistema e fonte pervasiva dell’ordinamento giuridico. Oggi l’urgenza di un adeguamento del diritto alla realtà è, senza dubbio, ancora più sentita.

Orbene la riflessione dell’odierno giurista deve far leva sui principi e sui valori riconosciuti in tutte le Costituzioni democratiche ed evolute, tra le quali si distingue la nostra.

Il giurista, nel chiedersi quale sia l’attuale status giuridico del corpo umano (vivente), deve cercare di comprendere se l’uso frazionato delle singole parti del corpo (dagli organi alle informazioni genetiche) orienti verso una reificazione delle stesse, ovvero se possano simbolicamente rappresentare il corpo nella sua interezza, ed essere dunque destinatarie delle stesse soluzioni normative. Deve altresì identificare l’orizzonte giuridico del corpo nella sua proiezione all’esterno, in contesti virtuali.

A tali fini, è necessario rivisitare l’utilità e l’adeguatezza delle categorie civilistiche e dei principi giuridici sui quali si è tradizionalmente ordinato il nostro sapere giuridico. Occorre inquadrare e adeguare la nostra cultura giuridica in rapporto alla realtà e al sistema di valori condivisi oggi vigenti.

Fare un breve excursus temporale sulla concezione del corpo e sulle correlative ideologie può essere utile per capire come l’uomo e il pensiero umano abbiano evolutivamente elaborato la cultura per gestire la realtà e come tale cultura abbia poi inciso sulla realtà creando le basi per ulteriori rivalutazioni ed elaborazioni culturali.

Tornando a citare il diritto romano, sotto il governo delle Leggi delle Dodici Tavole (450-451 a.C.), in una società fondata su credenze magico-religiose, il corpo rappresenta il mezzo attraverso cui espiare un crimine o adempiere un’obbligazione. Il delinquente risponde del reato con il proprio corpo. Il debitore, che non riesca ad adempiere, viene fisicamente consegnato al creditore il quale può ridurlo in schiavitù, o a titolo di garanzia del credito (nexum) o per finalità satisfattoria (addictio).

Solo in seguito, in epoca giustinianea, si assiste ad un rifiuto della sacralità e della trivialità corporea, nell’ottica di un processo di disincarnazione del diritto dal corpo che raggiunge il suo maximum con l’invenzione della nozione di “persona giuridica”.

La civiltà romana ha ereditato, in particolare, dalla filosofia greca il rifiuto del corpo, considerato un “vuoto simulacro”, la “prigione” dell’anima, che deve scongiurare mali, come l’ignoranza, le passioni, la pazzia.

Per Socrate (470-399 a.C.), il corpo assume una posizione subordinata rispetto alla psiche (anima), divenendo uno strumento al servizio di costei: l’uomo non si identifica con il proprio corpo, bensì “si serve” semplicemente di quest’ultimo. In tal senso, la più alta espressione dell’eccellenza della psiche è rappresentata dall’“autodominio” che rende l’anima padrona del corpo e dei suoi diritti.

Con la metafisica di Platone (428-347 a.C.) la dicotomia anima-corpo si radicalizza: il corpo cessa di essere strumento al servizio dell’anima, ne è “prigione” e soltanto l’evasione dalla stessa assicura la vera estrinsecazione dell’anima, in sé immortale, eterna, incorruttibile.

Aristotele (384-322 a.C) assume una visione unitaria corpo-anima quali elementi separabili di un’unica sostanza: il corpo è la materia intesa come potenzialità, l’anima è la forma intesa come attualità. Il corpo è uno strumento dell’anima, ancorché, diversamente da un oggetto inanimato, contenga in sé stesso il principio del movimento e della quiete (L’anima, II, 412 b, 16). 

Nel mondo romano, si realizza tuttavia un salto di qualità quando, “per mettere in scena l’uomo sul teatro della vita giuridica” (Baud), crea la persona.

La distinzione tra “persone” e “cose” è riconducibile alle Istitutiones di Gaio e alle Istitutiones di Giustiniano che tripartiscono il diritto civile in personae, res ed actiones.

Tale classificazione è, in seguito, riprodotta dai codici civili di derivazione romanistica.

Per Gaio (Inst. 1.9) e Giustiniano (Inst. 1.3), gli uomini si dividono in liberi e servi: “Summa itaque divisio de jure persona rum haec est, quod omnes nomine, aut liberi sunt, aut servi”

Il termine latino persona, in perfetta coerenza con l’etimo greco prosopon, designa non solo il viso dell’uomo, ma soprattutto la maschera portata in scena gli attori, ciò ad esemplificare il ruolo rivestito dall’individuo nella società civile e precisamente il suo ruolo rispetto alle cose.

Il prefato vocabolo determina un’astrazione sia dalle vicende della vita reale dell’uomo – che può acquistare la personalità giuridica prima della nascita e perderla prima della morte – sia dalla sfera della corporeità.

Il termine res è invece utilizzato per descrivere una molteplicità di oggetti, materiali e astratti (res publica, res judicata), tutti comunque accomunati dal fatto di essere oggetti di diritti di cui è titolare la persona, alla cui libera volontà è rimessa,oltre che il godimento, la loro disposizione, il loro destino.

La distinzione tra persone e cose non si appalesa tuttavia netta, basti pensare allo schiavo, la cui posizione giuridica appare controversa in seno agli stessi interpreti del diritto romano.

Il servus viene inserito solo dai più evoluti Gaio e Giustiniano nel libro dedicato alle persone, restando generalmente contemplato nel novero delle res corporales.

Certamente lo schiavo, ugualmente a quanto accade per il filius familias nell’età arcaica, è oggetto di diritto, in quanto sottoposto al jus vitae ac necis e al jus vendendi, il più esteso potere di disposizione possibile: può essere venduto, donato, ceduto in locazione, o ucciso dal suo padrone, benché costituisca una cosa di particolare valore.

In definitiva, la considerazione verso cui si converge è nel ritenere che il corpo dell’uomo, sia libero che schiavo, sia per i romani una res, benché non venga espressamente collocato tra le cose.

Tuttavia, sebbene per i romani il corpo possa essere considerato un’entità distinta dalla persona, esso si distingue dalle altre cose, poiché – almeno per gli uomini liberi – esso è indisponibile, nel senso che gli atti di disposizione non possono avvenire per fini di lucro. Indicativa, in tal senso, l’affermazione di Ulpiano, secondo cui “nessuno può essere considerato proprietario delle sue stesse membra (Dig., 9. 2. 13): “Dominus membrorum suorum nemo videtur”.  

Dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente (476 d.C.) fino all’epoca delle grandi codificazioni ottocentesche, il corpo, escluso fino ad allora dal diritto civile, torna protagonista grazie all’elaborazione del diritto canonico.

Durante il Medioevo, la disciplina normativa dei diritti sul corpo si è principalmente spostata in capo ai religiosi. L’esaltazione e la cura dell’anima obbligano necessariamente a considerare il corpo come una cosa, anche se, al contempo, sacra e oggetto di diritti, pur se limitati e controllati. Il diritto sul corpo viene rivalutato, soprattutto in materia matrimoniale. Si assiste infatti all’emersione della seguente concezione: il coniuge acquista un diritto assoluto sul corpo dell’altro (jus in corpus), un diritto di natura reale che gli assicura il possesso e il godimento del corpo altrui, pur se esclusivamente preordinato allo svolgimento degli atti funzionali alla procreazione. Inoltre, il coniuge può recuperare l’altro, se infedele, esercitando un’azione di rivendicazione (vindicatio) o un’azione possessoria (actio possessoria), senza tuttavia avere il potere di vedere o cedere in locazione il coniuge.

Breviter, per la dottrina canonica, la potestas del marito sul corpo della moglie afferisce all’osservanza dell’obbligo di fedeltà, piuttosto che essere un vero e proprio diritto di proprietà sul corpo altrui.

D’altro canto, in ordine all’esistenza di un diritto sul proprio corpo, secondo l’autorevole pensiero di San Tommaso d’Aquino, Dio è l’unico Signore della vita dell’uomo e dunque Dominus del corpo che è parte integrante della persona. Egli afferma che ciò che distingue un individuo dagli altri della stessa specie è la materia, non la materia in generale ma la “materia signata quantitate”: ossia una determinata quantità di materia che ha un determinato peso, occupa un determinato spazio, e dunque ha confini e dimensioni determinate. La materia così intesa è proprio quel quantum di carne e ossa che costituisce il corpo di ogni singola persona.  

Il diritto civile prosegue nella sua azione di decostruzione del corpo, atteso che a decorrere dal XVI secolo, i giuristi, sulla scorta dell’eredità romanistica, tendono a disgiungere la natura dal diritto. Ciascun individuo è uomo dal punto di vista universale (secondo realtà) e persona dal punto di vista giuridico come esclusivo centro di imputazione di diritti. Invero, la dottrina civilistica rifiuta di ammettere la reità del corpo, in quanto aborrisce, a monte, dall’eventualità che lo si possa considerare una merce, qualcosa di alienabile alla stregua di qualsiasi altro oggetto.

Si perviene, per tale percorso, alle grandi codificazioni ottocentesche. Come acutamente osserva Rodotà, “i grandi codici civili ottocenteschi come quelli francese, italiano e tedesco, pur aprendosi tutti con una parte dedicata alle persone, ne ignorano del tutto la fisicità, limitandosi poi a essenziali accenni sul nascere e il morire”.

La vocazione “inclusiva” del concetto di persona è tale da indurre a far ritenere che il corpo si identifichi con la persona. In tal modo è maturata la teoria – mutuata, per esempio, dal Code Napoleon – identificativa della tradizione giuridica occidentale e ispirata proprio dalla distinzione romanistica tra persona e cosa, in virtù della quale è inammissibile l’esistenza di un diritto sul proprio corpo.

Sul presupposto ontologico che la natura umana è unitaria, non può trattarsi il corpo come oggetto di diritti, non esistendo alterità tra esso e la persona, anzi la persona si estrinseca nell’essenza del corpo oltre che nel pensiero. Il corpo, in tale visione, è considerato il mero sostrato materiale della persona e pertanto non può assumere un’autonoma rilevanza giuridica. Esso si identifica con la persona e, come tale, non può essere una cosa: se è persona, sarebbe illogico, contraddittorio e innaturale ammettere un diritto del soggetto (persona) su sé stesso (persona). La persona non può essere, a un tempo, sia soggetto che oggetto del medesimo diritto.

Al contrario, è generalmente riconosciuto un diritto di proprietà sulle parti staccate del corpo, proprio per effetto della loro autonoma materialità. Leciti e giuridicamente possibili i contratti aventi ad oggetto prodotti del corpo umano o sue parti riproducibili, come accade per i capelli, le unghie, i denti e soprattutto il latte materno (cosiddetti contratti di baliatico).

La tesi che nega l’esistenza di un diritto sul proprio corpo (Jhering e von Savigny), si basa quindi sulla peculiare distinzione della modernità giuridica: la dicotomia soggetto-oggetto di diritto.

La distinzione viene attribuita, in origine, a Kant e Hegel, i quali ritengono che solo ciò che è separato dal soggetto è appropriabile e disponibile. Il fondamento dei diritti della personalità, e dunque dei rapporti giuridici in cui è involto il corpo dell’uomo, è per entrambi la volontà o l’elemento razionale. Ad essi si fa risalire la teoria della indisponibilità dei diritti della personalità.

In particolare, nella visione kantiana, un diritto di proprietà è inconcepibile anche sulle singole parti del corpo, pur se materialmente appropriabili, poiché ciò comporterebbe una limitazione della libera volontà ed una violazione della dignità umana. Se infatti si potessero vendere le singole parti del corpo, l’uomo perderebbe la propria libertà, poiché esse verrebbero attratte al mondo come cose e le cose non sono dotate di libera volontà. Pertanto “l’uomo (…) non è autorizzato a vendere per denaro le sue membra, neanche se, per un dito, ricevesse diecimila talleri, altrimenti si potrebbero acquistare da un uomo tutte le sue membra”. Secondo Kant, la dicotomia serve ad affermare il primato del soggetto morale, unità soggettiva ed identica per ogni individuo, sul campo oggettivo delle cose esterne. Per quanto concerne il diritto sul proprio corpo, “l’uomo non può disporre di sé stesso, poiché non è una cosa: egli non è una proprietà di sé stesso, poiché ciò sarebbe contraddittorio. Nella misura, infatti, in cui è una persona, egli è un soggetto, cui può spettare la proprietà di altre cose. Se, invece, fosse una proprietà di sé stesso, egli sarebbe una cosa, di cui potrebbe rivendicare il possesso. Tuttavia egli è una persona, il che differisce da una proprietà: perciò egli non è una cosa, di cui possa rivendicare il possesso, poiché è impossibile essere insieme una cosa e una persona, facendo coincidere il proprietario con la proprietà. Pertanto, l’uomo non può disporre di sé stesso. Non gli è consentito vendere un dente o un’altra parte di sé stesso”.

Il giurista italiano Carlo Fadda (1853-1931), assertore e divulgatore della Pandettistica tedesca del XIX secolo, opera la distinzione tra diritto della persona e personalità, che ne è il presupposto, escludendo la tesi della proprietà proprio per via dell’identità tra soggetto ed oggetto di diritto. Egli precisa che l’oggetto di diritto non necessariamente debba assumere il carattere di beni o di cose, in senso materiale, potendo avere valenza anche non patrimoniale. In tale concezione, il corpo rappresenta la materiale espressione della personalità e il mezzo indispensabile per la sua esplicazione. Il diritto su di esso è un diritto “personale”, non “patrimoniale”, “di carattere tutto speciale, il cui contenuto porta alla libera disposizione del nostro corpo, ad esclusione di qualunque terzo, salve le restrizioni apportate dalla legge”.

Il personalismo e l’individualismo liberale di matrice ottocentesca, nel cui alveo prende vita la classe dogmatica dei diritti della personalità, con l’instaurarsi del regime fascista, viene progressivamente abbandonato per dar spazio ad un’idea di individuo “spersonalizzato” e “collettivizzato”.

Nell’idea fascista, lo Stato esprime direttamente la volontà e gli interessi del popolo; onde i diritti dei singoli esistono in funzione dell’interesse collettivo, che serve a garantire l’esistenza e la libertà dei singoli e della nazione, appunto perché l’individuo non è il fine, ma il mezzo dell’organizzazione sociale” (Solmi).

Tale ideologia pervade la concezione stessa di diritto soggettivo, nel senso che la tutela accordata alla vita e all’integrità fisica rileva come tutela di beni autonomi e separati dalla persona a cui appartengono. Se viene concesso un diritto di disporre sul proprio corpo, esso va finalizzato al perseguimento degli obiettivi generali, senza andare oltre i limiti imposti dallo Stato, poiché il fine di ogni consociato deve essere quello di adempiere ai propri doveri sociali, nella veste di lavoratore, soldato, o padre di famiglia.

Nel solco di tale direttrice, l’art. 50 del codice penale “Rocco” del 1930 assume un certo rilievo nella costruzione di un sistema della disponibilità del corpo: la disposizione – una scriminante aperta – esclude l’antigiuridicità del fatto commesso con il “consenso della persona che può validamente disporne.

Si tratta infatti di una norma in bianco, destinata a riempirsi dei divieti normativi presenti nei diversi settori dell’ordinamento giuridico, la cui ratio è ben illustrata nella Relazione ministeriale sul progetto del codice penale ove si legge che “il legislatore penale non può arrogarsi il compito di far l’elenco dei diritti disponibili. La materia trova regole, limiti, situazioni in ogni ramo del diritto, privato e pubblico, scritto e consuetudinario, e l’interprete a tali fonti deve attingere, per decidere se il consenso validamente manifestato abbia efficacia discriminante”.

Invero, sin dalle prime riflessioni dottrinarie sulla figura del consenso dell’avente diritto, è stato evidenziato come essa tragga fondamento dal più ampio principio di autonomia.

Proprio sulla base di tale norma, viene decisa una vicenda giudiziaria che balza al clamore delle cronache.

Un giovane studente napoletano, ricoverato all’Ospedale degli Incurabili di Napoli per un’infezione intestinale, presta consenso alla cessione di uno dei due testicoli in favore di un facoltoso ragazzo brasiliano, verso il compenso di lire diecimila. Orbene, benché l’intervento di espianto riesca alla perfezione, viene promossa azione penale a carico dei medici e del brasiliano per il perseguimento del reato di lesioni personali.

In particolare, la relativa sentenza del Tribunale di Napoli del 13 dicembre 1931, è fatta oggetto di numerosi commenti da parte dei giuristi. C’è chi sostiene (Pafundi, Piacentini) che, alla menomazione dell’integrità del paziente, per essere lecita deve corrispondere un’utilità di altri socialmente apprezzabile. Per converso, altri (Vannini) considera l’integrità fisica come un bene assolutamente disponibile, a prescindere da qualsivoglia vantaggio sociale. Di contrario avviso è chi (Petrocelli) nega ogni potere di disposizione dell’integrità fisica. 

In tutti e tre i gradi di giudizio, seppur con argomentazioni diverse e in parte contraddittorie, viene esclusa l’illiceità penale del fatto, poiché ritenuta operante la scriminante di cui all’art. 50 del vigente codice penale.

In particolare, la Corte di Cassazione attribuisce rilievo centrale alla volontà dello studente. Infatti, pur ritenendo indisponibile il bene dell’integrità fisica, evidenzia che, nella vicenda in esame, il pregiudizio derivante al disponente non contiene quel minimo di lesività idoneo a renderlo punibile, Si tratterebbe, a parere dei Giudici, di una menomazione non particolarmente grave che cioè non avrebbe impedito al disponente l’adempimento dei suoi “doveri in rapporto alla famiglia e allo Stato”. D’altro canto, nella lettura della Suprema Corte, il ricevente avrebbe ottenuto un beneficio dall’operazione, consistente in un innegabile ampliamento della virilità e delle potenzialità generative, a tutto vantaggio della Nazione e della sua politica demografica. La pattuizione di un compenso economico viene considerato un fattore irrilevante, in quanto non in contrasto con la morale sociale corrente.

La decisione risulta dunque in perfetta adesione all’ideologia del tempo, posto che tanto nei confronti del soggetto disponente quanto nei confronti del soggetto ricevente l’atto si giustifica, in quanto non soltanto non lede gli interessi collettivi ma mira addirittura ad espanderli.

Il vantaggio alla salute di un’altra persona è già di per sé uno scopo di particolare valore sociale.   L’autodeterminazione dell’individuo è strumentalizzata al perseguimento di obiettivi profondamente diversi da interessi e valori di rango personale.

In tale contesto, l’urgenza maggiormente avvertita dai redattori del codice civile del 1942 risiede proprio nell’individuazione dei limiti da imporre al potere di disposizione, cosicché nel progetto definitivo del primo libro del codice civile venne introdotta una regola di segno proibitivo, qual è l’attuale art. 5 rubricato Atti di disposizione del proprio corpo che recita “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”.

Tale norma ha il merito di conferire, per la prima volta, particolare risalto alla dimensione personale dell’individuo e rappresenta una notevole innovazione per il tempo in cui vi introdotta. È la risultante di due distinte matrici ideologiche: quella originaria, di natura liberale-individualista, volta ad assicurare una certa sfera di disponibilità del corpo, visto come oggetto di un diritto soggettivo assoluto e da tutelarsi soprattutto sotto il profilo patrimoniale; e quella, di natura pubblicistica, tesa a delimitare l’ambito di disponibilità dell’integrità fisica a vantaggio dello Stato.

Tuttavia nel mare magnum della casistica odierna, di corpi usati, ristrutturati, reificati, digitalizzati, giuridificati e potenziati, si pone chi auspica la nascita di una “nuova antropologia” (Rodotà) finalizzata, in ultima analisi, a codificare una radicale trasformazione del paradigma della naturalità, la cui antica immodificabilità non richiedeva in passato un’apposita disciplina legislativa. La linea della soft law che contemperi il dominio della tecnica e la dignità umana resta la via maestra per evitare derive pericolose, in un senso o nell’altro. Certamente l’art. 5 del codice civile non sembra più adeguatamente funzionale a un’efficace regolamentazione di tutte le vicende attinenti al corpo nelle molteplici declinazioni odierne. La sua stessa suscettibilità di interpretazioni legate alla ormai genericità delle nozioni di “disposizione” e di “diminuzione permanente dell’integrità fisica” rende insufficiente la norma nell’attuale realtà. Difatti, secondo che si applichi un approccio ermeneutico restrittivo ovvero estensivo, la sua concreta portata applicativa va in una direzione o all’opposto, inficiando ogni forma di certezza del diritto. 

In definitiva, Baud suggerisce la necessità che i giuristi riconoscano che il corpo è prima di tutto una cosa e poi, a tutela, che affermino che è, in ogni caso, una cosa fuori commercio o a commercializzazione limitata. Il giurista, in breve, deve accettare la nuova sfida di imporsi nella disciplina del corpo, materia a tutt’oggi riservata ancora eminentemente alla scienza medica.

Conclusioni

La fine del XX secolo verrà ricordata, nella storia del diritto, come l’era in cui quest’ultimo ha dovuto riscoprire il corpo, mentre il sistema in cui operava era stato creato, ad arte, nel corso della storia, “perché non se ne parlasse, peché non si dovesse pronunciare sulla sua natura giuridica e perché il giurista, abbandonando la sua sacraltà al prete e la sua triviliatà al medico, potesse ricostruire un’umanità popolata di persone, vale a dire di creature giuridiche, prodotte dal giurista” (Baud).

Il corpo è parte della persona e finalmente si sta cominciando a riflettere su come si sia evitato, per secoli, di definire un vero e proprio diritto di proprietà sul corpo medesimo. Molto interessante e pregna di ricadute, assume sul punto, la posizione di Baud quando prospetta che riconoscere come, sul corpo, vi sia un diritto di proprietà da parte della persona, fa conseguire l’innegabile utilità della “stabilità giuridica del corpo vivente o morto e di ciò che lo compone senza dovere distinguere se tale elemento sia attaccato al corpo o meno“. Ovviamente, il passo successivo diviene poi quello di regolare tale diritto, evitando pericolose derive innaturali o lesive del diritto alla salute e, in ultima analisi, della vita stessa, avendo sempre presente il principio cautelativo di soft law della dignità umana (Rodotà) e limitando pertanto ogni forma di barbara commercializzazione del corpo. In tale logica, appare sì profilarsi all’orizzonte l’inizio di una nuova antropologia.


Bibliografia essenziale

BAUD Jean-Pierre, Il caso della mano rubata: una storia giuridica del corpo, Giuffrè, Milano, 2003.

KANT Immanuel, Lezioni di etica, Laterza, Bari, 2004.

NIELSEN Linda, Dalla bioetica alla biolegislazione, in Mazzoni C.M. (a cura di), Una norma giuridica per la bioetica, Il Mulino, Bologna, 1998.

RODOTÀ Stefano, Ipotesi sul corpo «giuridificato», in Rivista critica del diritto privato, Jovene, Napoli, 1994.

RODOTÀ Stefano, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano, 2012.

VAN POTTER, Bioetica ponte verso il futuro (1971), Sicania, Messina, 2000.

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